57.

La superstizione scientifica e i miti del potere e del progresso

Comincia la sventura dell’umana esistenza allorché l’oggetto della conoscenza scientifica è preso per l’essere stesso, e quanto non è scientificamente conosciuto è tenuto per non esistente. La scienza diviene allora superstizione scientifica, e questa, nelle mentite spoglie della scienza, erige il cumulo delle stoltezze nelle quali né scienza, né filosofia, né fede possono più sussistere.

K. JASPERS, Piccola scuola del pensiero filosofico (1965), p. 23.

La scienza ha cura di nascondere il nichilismo, sotteso al suo rapporto d’avere, attraverso l’assolutizzazione del proprio sapere e la riduzione dell’essere a oggettività scientificamente conosciuta. Ma, con queste due mosse, osserva Jaspers, la scienza (Wissenschaft) diventa superstizione scientifica (wissenschaftlicher Aberglaube), cioè fede (Glaube) mal riposta, fiducia in qualcosa che non può salvare. Si tratta di quell’“ingannevole convinzione” segnalata da Heidegger come “vera minaccia dell’umanità”1 e da Jaspers come “sventura dell’umana esistenza”.2 A esprimerla non è la scienza come tale, ma è la fede che gli uomini in generale ripongono nella scienza quando da essa attendono la risoluzione di tutti i problemi. Il fondamento della superstizione scientifica non è scientifico, ma fideistico; a generarlo però è la scienza stessa con i suoi miti. Si assiste così, scrive Jaspers, a quel paradosso per cui:

Un mondo che, demagicizzato dalla scienza, subentrata alla vecchia magia, è di nuovo rimagicizzato in forme diverse, perché rivestite dalle vesti della scienza, ma sempre riconducibili all’essenza del magico.3

Magia è aver potere sulla cosa, sì da ridurla al proprio volere. Come azione su ciò che non si è o non si ha, il potere si risolve nel possesso e nell’avere che, come s’è visto, si costituiscono sempre a partire dall’umano non-essere. Chi ha, infatti, non è ciò che ha. Il nonessere, il nulla, già comparsi nella struttura dell’avere, ricompaiono in quella del potere che, a sua volta, denuncia l’assenza dell’essere. La superstizione scientifica è il non-memorare questa assenza, è il volerla sopprimere impossessandosi di tutte le cose per porle al servizio dell’uomo. Nella signoria che così nasce, la scienza trova la sua giustificazione e l’approvazione di tutti i “signori” che riconoscono il proprio potere nel progressivo asservimento delle cose e degli uomini, reso possibile dallo sviluppo della scienza.

Come ci ricorda Hegel,4 la servitù che sta alla base del potere è un tratto tipicamente umano. L’animale lotta con il suo simile, talora lo uccide, ma non lo asserve. Con la servitù, invece, l’oggetto di dominio non scompare, ma permane e, continuando a essere, manifesta la propria dipendenza nei confronti di chi, esercitando potere, l’ha ridotto in servitù. In servitù non sono ridotte solo le cose, ma anche gli uomini, servi delle cose del signore. La coscienza servile è la coscienza che rimane imbrigliata nel mondo della cosalità, mentre il signore se ne distacca perché non ha a che fare con le cose, ma con il potere su di esse. Con le cose ha a che fare il servo che le raccoglie, le lavora, le trasforma, le edifica per porgerle al signore.

Con l’avvento della scienza e della tecnica il rapporto d’avere, che sostanzia il potere, muta volto. Il potere non è più del signore sul servo, ma della scienza e della tecnica, a cui devono sottostare sia i servi, sia i signori. Questi ultimi non possono esercitare la loro signoria prescindendo dalla razionalità tecnico-scientifica del sistema, ma ne sono condizionati e quindi in qualche modo asserviti. Nasce così il mito della scienza capace di risolvere i conflitti di classe mediante una “scientifica” distribuzione del potere sulle cose, in modo che tutto sia a disposizione di tutti.5

Appellandosi alla storia, come al naturale campo di verifica, la superstizione scientifica ritiene di poter affermare che l’aumento del potere concesso alla scienza riduce l’aberrazione del tiranno, perché il suo arbitrio e la sua sete di potere non possono prescindere dalle linee di sviluppo che la razionalità scientifica e tecnica hanno predeterminato. Se per esempio a ricoprire il ruolo di tiranno è, nella società evoluta, il capitale, ebbene l’aumento del regime capitalista non coincide con l’aumento della servitù, per la ben nota ragione che l’incremento del capitale è legato a quello del consumo, quello del consumo al dilatarsi del potere d’acquisto, per cui l’opportunità di allargare l’area di consumo induce a migliorare progressivamente le condizioni delle classi subalterne.

La ragione scientifica ha così sfumato la lotta di classe, i termini della sua violenza sono stati ridotti, perché la razionalità del sistema, avocando a sé la totalità del potere, ha tradotto i propri negatori in collaboratori. Nasce così il mito della pace sociale su base scientifica, dove l’uomo non è più conflittuale con il suo simile come riteneva Hobbes (“homo homini lupus”),6 ma suo collaboratore in vista della razionalità e dell’efficienza del sistema.

Alla base di questo mito ritroviamo i caratteri tipici della superstizione scientifica che consiste nell’assolutizzazione del sapere scientifico e nella negazione dell’esistenza di quanto non è scientificamente verificabile. Infatti quando la razionalità scientifica del sistema traduce i propri negatori in collaboratori fa riferimento al comportamento oggettivo dell’uomo, l’unico che essa è in grado di controllare, mentre lascia del tutto impregiudicata la soggettività con la sua ansia di libertà e la sua insoddisfazione per l’immanenza.

Libertà e apertura alla trascendenza non sono dati di fatto, ma non per questo possono essere trascurate. Costruire la pace sociale senza di esse significa comportarsi come se queste dimensioni fossero irrilevanti o addirittura non esistenti. Libertà e apertura alla trascendenza sono modi d’essere, non modi d’avere. Trascurarli è assolutizzare la dimensione dell’avere nella dimenticanza dell’essere. In ciò è la superstizione scientifica e la contraddizione che la rivela.

Se infatti è vero che l’uomo si manifesta nei suoi atti, è altrettanto vero che in essi non si lascia definire. La pretesa scientifica di avocare a sé il potere assoluto è assurda per questo, perché vuole abbracciare l’uomo e l’uomo le sfugge. Il potere controlla il servo nei suoi gesti, nelle sue opere, nelle sue parole, ma il servo resta un al di là indecifrabile, un’alterità irriducibile. Per questo il servo può riprendere a ogni istante la lotta e rovesciare la propria condizione.

Ora se la scienza è apprezzata perché conferisce potere, e se nell’essenza del potere è implicita un’irriducibile alterità, la scienza non può porsi come sistema assoluto, perché ha bisogno dell’alterità da sopprimere per il riconoscimento del proprio potere, mentre è proprio dell’assoluto non aver bisogno di nulla. Il potere muove dunque da un proprio non-essere, e ora possiamo dire anche: verso un nonessere che lo esige e lo provoca. Tra questi due estremi indefiniti la superstizione scientifica colloca il mito del progresso.

Fra le distrazioni del pensiero, il mito del progresso è il più distraente. Quando si pensa al progresso, infatti, non si pensa a un’essenza, ma a dei risultati raggiunti. Si tratta perlopiù di risultati da cui appare un incremento del potere dell’uomo che evoca tutto a sé: spazio, tempo, accadimento. Reso percorribile facilmente e rapidamente in tutti i sensi, lo spazio, come ostacolo e come fatica, è stato vinto ed estromesso dal pianeta per essere proiettato sul piano interplanetario dove, peraltro, è calcolato e circoscritto al sistema solare che, al momento, è l’unico che interessa all’uomo. Da cosmico lo spazio è divenuto umano, è divenuto l’ambito in cui l’uomo si progetta.

Vinto lo spazio, il vuoto da esso lasciato è occupato dal tempo che, non più ostacolato dallo spazio, s’è fatto più intenso. Gli strumenti tecnici creati dalla scienza consentono, per ogni unità temporale, una frequenza d’attività enormemente accresciuta rispetto al passato e rendono simultanei gli avvenimenti più lontani. Fra loro gli uomini diventano veramente con-temporanei, vivono cioè insieme il loro tempo. I mezzi di comunicazione fanno conoscere l’accadimento nel momento in cui accade, per cui di ignoto resta solo il futuro.

Nel futuro si raccoglie ogni senso residuo di trascendenza. A estinguerla provvede il progresso. Un’idea sottesa alla quale c’è il senso cristiano dell’éschaton. Duemila anni di inutile attesa hanno demitizzato il futuro cristiano, riconducendolo a un progresso storico avveniristico, da cui traggono incentivo sia la ricerca scientifica sia l’ideologia rivoluzionaria. La secolarizzazione avviene eliminando la trascendenza dell’essere e conservando la richiesta di un assoluto.7 In questo procedimento non si fatica a cogliere il carattere proprio della superstizione scientifica, in quanto pretesa assolutistica che si afferma in assenza dell’essere.

Ma come già prima per il mito del potere, così ora per il mito del progresso, la superstizione scientifica non riesce ad affermare l’assolutezza a cui pretende. Di progresso infatti si può parlare solo a proposito del permanente che, sotteso all’unità del diverso, rappresenta il vero punto di riferimento. Ma in assenza dell’essere che cosa permane? E in assenza del permanere come valutare il progresso? Ogni suo definirsi o protendersi viene fermato su se stesso o nell’ambito limitato dei rapporti prossimi. Il suo futuro si chiude nella ripetizione o nella pura manipolazione del passato. La sua atmosfera morale diventa irrespirabile, perché se anche si dovesse vedere un progresso nell’incremento del sapere che porta a un incremento dell’avere, quindi del fare, del manipolare, del connettere e dell’accumulare, questo sarebbe un progresso dell’intelletto astratto (Bewusstsein überhaupt) quindi, al limite, un progresso non propriamente umano perché indifferente all’essere della condizione umana.

Per “condizione umana” non intendiamo la condizione biologica, psicologica, sociale, economica, ma la condizione propriamente umana. Ora proprio ed esclusivo dell’uomo è il suo essere sempre situato, cioè determinato in uno spazio e in un tempo, tra queste cose e questi uomini. La consapevolezza della “situazionalità”, o se si preferisce del limite, è possibile solo in riferimento a una alterità che trascende. Se dunque l’uomo si coglie come situato, come storico, è perché la sua coscienza è a un tempo principio di desituazione e di trascendimento. Questa è per Jaspers la vera essenza del progresso, come passaggio, come superamento, come desituazione dalla situazione alla trascendenza. E qui sono da ricondurre i significati di “rivoluzione” e di “conservazione”. La vera rivoluzione, infatti, è desituazione, quindi tensione alla trascendenza. La conservazione è situazionalità, quindi rifiuto della trascendenza.

L’idea di “progresso” appartiene quindi all’essenza umana in quanto tensione tra situazione e trascendenza, in quanto ek-sistentia, dove nell’ek è custodito il senso di un partire da... e precisamente dall’orizzonte assolutizzato dalla coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt) che si orienta scientificamente nel mondo (wissenschaftliche Weltorientierung) per trascenderlo. Oggi, invece, l’orientazione avviene in vista non del trascendimento, ma del possesso del mondo (um im Besitz zu nehmen), in vista di una clausura, non di una apertura. Trascendere infatti è essere signori (Herren), non possessori (Besitzer) del mondo. Essere, non avere.

Il progresso scientifico, da cui traggono vanto la nostra epoca e gli uomini che la vivono, è, tra le forme di conservazione, la più radicale, perché non si limita a trattenere l’uomo nella sua situazione, ma giunge a prospettargli come irreale, perché non scientifico, ogni tentativo di desituazione, di trascendimento, che lascia alle spalle il quotidiano avere a che fare con le cose e con il loro sempre più sicuro possesso.

Se oggi l’uomo vuole realizzare la propria essenza, che è tensione tra situazione e trascendenza, quindi desituazione, non può attendersi nulla dalla scienza, perché questa si trattiene in quella situazione determinata regolata dai rapporti d’avere. Il suo tentativo di oltrepassamento dovrà essere necessariamente non scientifico, dovrà essere un tentativo che si affida al rischio di una fede.

Ma tutto ciò è incomprensibile per chi ha assolutizzato la scienza e ha ridotto l’essere all’oggettività scientificamente conosciuta. Per costui il fatto che il progresso abbia superato tutte le aspettative basta a giustificarlo e a rendere irrilevante il fatto che non abbia soddisfatto le speranze che originariamente venivano fondate su di esso. Non è un caso che oggi l’umanità sia in preda al terrore che l’ultimo progresso realizzato dall’uomo nel dominio della natura possa venire applicato.

1 M. Heidegger, Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 271.

2 K. Jaspers, Kleine Schule des philosophischen Denkens (1965); tr. it. Piccola scuola del pensiero filosofico, Comunità, Milano 1968, p. 23.

3 Ivi, pp. 21-22.

4 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807); tr. it. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1963, “Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza: signoria e servitù”, pp. 153-164.

5 Questo tema trova il suo adeguato svolgimento in U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 41, § 4: “Il sistema razionalizzato della tecnica e la definitiva impraticabilità della rivoluzione”.

6 Th. Hobbes, Elementorum philosophiæ sectio tertia: De cive (1642); tr. it. Elementi filosofici sul cittadino, in Opere politiche,Utet, Torino 1971, vol. I, p. 73.

7 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 14: “L’anima e le figure del tempo”.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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