28.

L’umanismo come centralità antropologica

Il costituirsi del’uomo a primo e autentico subjectum porta con sé quanto segue: l’uomo diviene quell’ente in cui ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità. L’uomo diviene il centro di riferimento come tale. Ma ciò è possibile solo se si trasforma la concezione dell’ente nel suo insieme. Dove si rivela questo mutamento? Qual è, in conseguenza di ciò, l’essenza del mondo moderno?

M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo (1938), p. 86.

Nietzsche, che vive l’esperienza del mondo moderno in cui si assiste all’esplosione dell’umanismo che si era annunciato sotto il giogo dell’idea, coglie nella volontà di potenza, che spinge l’uomo ad assicurare gli enti e se stesso tra gli enti, la matrice di quell’idea metafisica che ha condotto alla posizione di Dio che tutti li fa valere. Andare al di là del bene e del male, misconoscere i valori, proclamare la morte di Dio significa riconoscere l’impossibilità di affidare a un mondo sovrasensibile di enti o a un Ente privilegiato il compito di salvare l’ente dal nulla.

Questo compito appartiene all’essere, il cui destino (Geschick) è appunto quello di far accadere (geschehen) l’ente. Strappare all’essere il suo destino, per affidarlo a un Ente privilegiato, è oblio dell’essere e, a un tempo, ricerca affannosa di qualcosa che assicuri durante la sua assenza. Proclamare la morte di Dio significa allora riconoscere l’impotenza radicale del mondo sovrasensibile nei confronti di quello sensibile, significa aprirsi la possibilità per un recupero del senso dell’essere.

In Nietzsche non assistiamo a questo recupero, ma alla continua affermazione della volontà di potenza. Volontà di potenza significa: volere sempre più. Ciò che si vuole è ciò che la metafisica ha sempre voluto: la sicurezza dell’ente, l’eliminazione della sua problematicità.

Ma se la volontà vuole “sempre di più” ciò significa che, per sé, l’ente è ancorato “sempre meno” all’essere, per cui dire volontà di potenza equivale a dire impotenza dell’ente a essere garantito dalla possibilità di precipitare nel nulla. Identificare infine la volontà di potenza con l’eterno ritorno dell’uguale significa sancire, una volta per tutte, l’impotenza dell’ente a garantirsi da sé, e quindi, l’inutilità di tutti i tentativi metafisici volti in quel senso. Per questo Heidegger dice:

La medesimezza espressa nell’unità essenziale di volontà di potenza ed eterno ritorno dell’uguale è l’ultima parola della metafisica.1

In questa prospettiva possiamo dire che il merito di Nietzsche consiste nell’aver colto nella volontà di potenza, che anima l’uomo nella ricerca affannosa della propria sicurezza, l’unico valore incondizionato che condiziona ogni iniziativa etica e teologica, mentre il limite consiste nel fatto che Nietzsche, dopo il rifiuto di tutti i valori e di tutte le ipotesi teologiche, ha fatto della volontà di potenza il valore supremo, e del luogo lasciato libero dalla morte di Dio la dimora del superuomo, ultima espressione della soggettività quale si è costituita, a partire da Platone, sotto il giogo dell’idea. In questo modo Nietzsche resta prigioniero della sua stessa vittoria, e con lui naufraga l’ultimo tentativo dell’Occidente volto a far essere l’ente, a sottrarlo alla rapina del nulla, in assenza dell’essere!

Il richiamo a Nietzsche vuole indicare l’epilogo di una parabola dell’Occidente, che ha assistito al progressivo assentarsi dell’essere in occasione del progressivo affermarsi dell’uomo. Ridotto l’essere a propria rappresentazione, a propria “idea”, l’uomo si è costituito come luogo della verità e come fondamento di ogni valore.

La cura dell’ente non è in vista del suo libero offrirsi, ma del suo oggettivo conformarsi alla soggettività della rappresentazione. Quest’ultima decide del senso dell’ente quanto al suo essere e quanto al suo significare nel tempo. Nel primo caso esprime la natura, nel secondo la storia. Scienze naturali e scienze storiche, prima di profilarsi nell’opposizione che le divide e di contendersi con inutile accanimento il terreno dell’oggettività, dovrebbero badare alla soggettività che le determina in quanto scienze, in quanto espressioni dell’uomo che sa.

Per la scienza, infatti, l’ente è tale in quanto oggettivamente rappresentato. La sua oggettivazione consente all’uomo calcolatore di essere sicuro, cioè certo della sua entità. La certezza della rappresentazione ne definisce la verità. Ma allora la scienza, come fenomeno del mondo moderno, ne rivela il tratto caratteristico nell’esasperato soggettivismo. Infatti, come precisa Heidegger:

Decisivo non è che l’uomo si è emancipato dai ceppi precedenti, ma che l’essenza stessa dell’uomo subisce una trasformazione nel costituirsi dell’uomo a soggetto. Dobbiamo infatti vedere in questa parola subjectum la traduzione del greco hypokeímenon. La parola indica ciò che sta prima, ciò che raccoglie tutto in sé come fondamento.2

Divenendo il luogo dove ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità, l’uomo viene ad assumere in questo modo il ruolo dell’essere. In ciò è la sua tracotanza. Nella tracotanza è raccolto il senso dell’umanismo che caratterizza il mondo moderno.

L’esplicitazione di questo senso avviene con il cogito cartesiano, che fa dell’uomo la misura di tutte le cose, non nel senso protagoreo della misurazione (métron) dell’apertura del non-essere-nascosto dell’essere, ma nel senso tipicamente moderno del progetto gnoseologico, al cui interno deve apparire l’ente per poter essere compreso. Umanismo non è apologia dell’uomo o encomio delle sue qualità, ma è assunzione dell’uomo a misura di tutte le cose.

Questo progetto si realizza con l’imaginatio (donde l’immaginazione trascendentale di Kant), da intendersi come determinazione oggettiva di un mondo concepito come immagine. Con l’umanismo, che ha le sue radici storiche nell’epoca cartesiana, l’uomo diventa il rappresentante dell’ente risolto in oggetto, prende possesso della sfera dei suoi poteri che interpreta come ambito di misura e di dominio dell’ente, e così, da luogo della rivelazione dell’essere (il ci dell’Esser-ci), diventa luogo di aggressione dell’ente.

Alla presa di coscienza segue il processo di liberazione dell’uomo da ogni norma trascendente, in vista di una legislazione autonoma e autosufficiente. Alla certezza della salvezza tramite la rivelazione si sostituisce la certezza della salvezza tramite la scienza che, calcolando, garantisce anticipatamente per il tempo che ha da venire. Il progetto sul futuro non è più un “dischiudersi per...”, ma è un comprendere per afferrare.

Alla scienza segue la tecnica, ovvero il momento operativo in cui si esplica la potenza che, da individuale, diventa collettiva, grazie al superamento della singolarità promossa dalla ricerca scientifica ancorata, fin dal suo nascere, a quell’intelletto intersoggettivo, o coscienza in generale, che si presume identico in tutti gli uomini. Con questa estensione l’io diventa noi, diventa l’umanità dell’umano che domina il mondo, e, scrive Heidegger:

Ciò non fa che rafforzare la soggettività. Nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo raggiunge quel culmine da cui l’uomo non scenderà che per adagiarsi sul piano dell’uniformità organizzata e per installarsi in essa. Questa uniformità è infatti lo strumento più sicuro del dominio completo, cioè tecnico, della terra.3

In questo dominio rientra anche l’uomo che, nella sua singolarità, è ordinatamente compreso nel progetto pianificatore calcolato dall’umanità che vuole. Il suo installarsi nel progetto, il suo acquietarsi tra le cose, è il suo essere ridotto a oggettività calcolabile al pari di tutte le cose. Le scienze psicologiche e sociologiche, oggi così di moda, sono la chiara dimostrazione della cosalità dell’uomo, della sua riduzione a oggetto di indagine come ogni altra cosa.

E così l’umanismo si risolve in una mortificazione dell’uomo che, dopo essere stato elevato dall’incondizionatezza del proprio volere a misura di tutte le cose, è oggi misurato all’interno di un mondo risolto in volontà. Con la traccia dell’essere s’è smarrita inevitabilmente anche la traccia dell’uomo, che il pensiero aurorale aveva colto nella prossimità dell’essere come sua apertura, come luogo della sua manifestazione.4

1 M. Heidegger, Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 552.

2 Id., Die Zeit des Weltbildes (1938); tr. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 85-86.

3 Id., Zusätze (1950) zu Die Zeit des Weltbildes (1938), Klostermann, Frankfurt am Main 1950, Zusatz 9, pp. 102-103.

4 Queste tematiche trovano il loro adeguato sviluppo nella Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanismo”, nella Parte IX: “L’anticipazione della ragione e l’assicurazione dell’ente”, e nella Parte X: “La provocazione della scienza e della tecnica”.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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