Introduzione

Nell’attuale povertà del mondo, questo è necessario: meno filosofia e più attenzione al pensiero; meno letteratura e più cura nella lettura delle parole. [...] Il pensiero, infatti, col suo dire, questo solo fa: porta al linguaggio la parola inespressa dell’essere. Ed è per questo che il linguaggio è insieme la casa dell’essere e la dimora dell’essenza dell’uomo. [...] Il pensiero, allora, dovrà scendere nella povertà della sua essenza provvisoria e raccogliere il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nella campagna.

M. HEIDEGGER, Lettera sull’umanismo” (1946), pp. 314-315.

Sta forse giungendo a compimento il senso espresso da più di duemila anni dalla nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora, con Nietzsche, e poi con Heidegger e Jaspers, comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa davvero finisce proprio oggi quando sembra che tutto il mondo insegua senza esitazione la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’Occidente e soprattutto la sua distanza dall’Oriente? Finisce la fiducia che l’Occidente ha riposto nella sua via, perché, dopo averla percorsa, ne ha avvertito l’essenza nichilistica che fin dall’inizio l’animava.

Nichilismo significa che l’essere è niente, o è pensato e trattato come se fosse niente. Lo stesso disinteresse che oggi l’uomo occidentale rivela nei confronti del problema del senso dell’essere, rispetto per esempio al problema dei valori, della vita, del mondo, della storia, di Dio, dimostra che continua non a misurare, ma a essere misurato dal nichilismo, ossia dalla persuasione che l’essere in sé è niente, perché è qualcosa solo nell’ente che vale, che vive, che è utile, che diviene, che è causa di altri enti o di tutti gli enti. Ebbene, scrive Heidegger: “Nella dimenticanza dell’essere promuovere solo l’ente; questo è nichilismo”.1

Il nichilismo quindi non annulla l’essere, ma considera l’essere come un nulla perché considera l’ente come il tutto. Questa considerazione, che Heidegger chiama ontica (in contrapposizione a ontologica) e Jaspers ontologica (in contrapposizione a periecontologica), ha deciso il modo di pensare e di fare civiltà dell’Occidente. Se il nichilismo non è la negazione dell’essere, ma la sua dimenticanza, anche la storia che avviene nella più grande indifferenza nei confronti dell’essere è storia dell’essere, è storia della sua assenza, del suo starsene nascosto, custodito in quel nascondimento (léthe) di cui la verità è manifestazione (a-létheia). La non-verità accoglie quindi l’Occidente e le opere a cui l’Occidente s’è affidato, dopo averle “poste in essere” lontano dall’“essere”.

La dimenticanza dell’essere ha determinato la dominazione dell’ente. L’ente è grazie all’essere, ma là dove l’essere è obliato si rende necessaria la ricerca di un Ente superiore in grado di garantire la dominazione dell’ente sul nulla. Nasce il Superente (Dio) che fonda, causa e si fa garante dell’essere della totalità degli enti (mondo). L’idea di Dio è il primo grande evento che caratterizza la storia dell’oblio dell’essere. A generarla è il bisogno di sicurezza, è la volontà indiscussa dell’uomo che, nell’oblio dell’essere, va alla ricerca affannosa di un Ente superiore capace di assicurare l’essere dell’ente, in assenza dell’essere! La proclamazione nietzscheana della morte di Dio è la denuncia dell’impossibilità di un simile tentativo, che ha le sue remote origini nell’idea platonica di Bene (Agathón) che nel mondo iperuranico presiede la gerarchia delle idee.

Il significato del termine “Bene” non è da affidare a un contesto morale, ma a un contesto metafisico, volto alla ricerca della causa prima da cui ogni cosa dipende. “Tò agathón significa in greco ciò che è atto (taugt) a qualcosa e che rende atto (tauglich) a qualcosa.”2 Se dunque agathón significa “ciò che è buono a”, l’idea del Bene si riferisce a “ciò che è buono a” far essere e a far apparire ogni cosa. Il Bene è Bene in quanto causa, il suo valore (bonum) consiste nell’essere causa di tutto ciò che è.

L’introduzione del rapporto causale muta la prospettiva ontologica, nel senso che nel pensiero aurorale, o, come lo chiama Jaspers, nel periodo assiale dell’umanità, l’essere era inteso come lo stesso presentarsi degli enti, come il loro incondizionato accadere e il loro presentarsi nell’accadimento, ora invece l’essere è inteso come un ente, l’Ente supremo, il cui valore (bonum) consiste nel causare gli enti, che “sono”, finché l’azione causante li mantiene e li conserva. La filosofia successiva si limiterà a discutere il carattere di “necessità” (come prevede il concetto di “emanazione” di Plotino) o di “libertà” (come prevede il concetto di “creazione” di Tommaso d’Aquino) che caratterizza quel processo causale che afferma la dipendenza degli enti da un Ente supremo, senza più ripercorrere il significato originario dell’essere come libero accadere dell’ente. Questo significato, obliato, si assenterà nel corso del pensiero occidentale, rendendo così possibile la dominazione metafisica dell’ente.

A questo punto le metafisiche che nascono dall’oblio dell’essere, per quanto trattenute dal giogo dell’idea suprema, non possono evitare l’esito nichilistico, perché, nella dimenticanza dell’essere, anche l’idea suprema non è in grado di giustificare la sua superiorità che la “rende buona a” (agathón) far essere e non essere tutte le cose. L’impostazione ontologica di Platone non subisce sostanziali modifiche in Aristotele. La sua metafisica si presenta infatti come lo studio dell’ente in quanto ente (òn hêi ón), ossia dell’ente nella sua entità, da intendersi come determinazione dei caratteri generali dell’ente e come determinazione dell’Ente supremo. Nascono l’ontologia e la teologia. L’una e l’altra non sporgono dal piano ontico e quindi sottintendono l’oblio dell’essere.

Con l’assentarsi dell’essere dallo sfondo della metafisica occidentale si assiste anche all’assentarsi della verità come “alétheia”, come “manifestazione” di quella presenza. Al suo posto si afferma la verità come orthótes, come “esatta corrispondenza” tra il vedere (ideîn) e ciò che è visto (eîdon). Anche la verità cade quindi sotto il giogo dell’idea che, a questo punto, diventa misura della verità dell’ideîn. Con l’adeguarsi dell’ideîn all’idéa si stabilisce una concordanza tra conoscente e conosciuto che Aristotele chiamerà homoíosis e Tommaso d’Aquino adæquatio. Con questo passaggio la verità, da proprietà dell’essere, diventa proprietà dell’uomo, in quanto non è più l’originario manifestarsi (alétheia) dell’essere, ma il corretto rapportarsi (orthótes) dell’uomo all’ente, ossia l’esattezza del vedere e del giudicare umano. Sotto il giogo dell’idea platonica, accanto alla metafisica degli enti, comincia a delinearsi anche l’umanismo, ossia quella centralità antropologica che troverà la sua massima espressione nell’Ego cogito, inaugurato da Cartesio, che caratterizza il soggettivismo moderno.

A prepararlo è stata, ancora una volta, la valutazione platonica del Sommo Bene. Infatti, assente l’essere, per reggere l’universo ontico, per sottrarlo alla sua precarietà, alla possibile rapina del nulla, occorre far valere un ente che, per effetto di questa valutazione, diventa il Super-ente. Ma la valutazione è l’effetto di una soggettivazione. Platone, facendo dell’essere l’Ente supremo che vale al di sopra di ogni ente, ritiene di conferirgli dignità e perciò dice: “Il Bene non è l’essere, ma, al di là di questo, lo supera in dignità e potenza”3; in realtà lo riduce a mero oggetto di una valutazione soggettiva senza fondamento. Infatti, nell’oblio dell’essere, in virtù di che cosa vale l’Ente supremo? In questo senso Heidegger può dire:

Il colpo più duro contro Dio non consiste nel ritenerlo inconoscibile, nel provare l’indimostrabilità della sua esistenza, ma nell’innalzarlo a supremo valore.4

In assenza dell’essere, infatti, l’unico fondamento possibile per una gerarchia di valori è la valutazione della soggettività umana che non lascia “essere” l’essere, ma lo lascia semplicemente “valere” come oggetto della propria attività soggettiva, sicché al centro non è Dio, ma l’uomo e la sua valutazione.

La determinazione teologica dell’essere, propria della filosofia medioevale, sembra contraddire quell’umanismo che in molti modi si annuncia sotto il giogo dell’idea. La speculazione medioevale, infatti, pur nella varietà delle sue differenze, non esita a porre in Dio (Ipsum esse subsistens) il fondamento metafisico del mondo e il fondamento ultimo di quel valutare umano che, se ha la propria misura veritativa nelle cose (in rebus), è solo perché le cose, a loro volta, sono misurate dall’intelletto divino. Dio, cioè, è il fondamento di quella verità ontologica per cui le cose sono vere (cioè conformi al pensiero divino), e nella loro verità costituiscono il fondamento della verità logica espressa dall’intelletto umano.

In realtà la centralità teologica del discorso metafisico medioevale nasconde un significato mondano. Siccome nel mondo l’essere compete all’ente in modo problematico, sì che gli enti sono, ma potrebbero anche non essere (contingentia mundi), il metafisico medioevale va alla ricerca di Dio per trovare la ragione capace di garantire la prevalenza dell’essere dell’ente sul suo non-essere. Scrive in proposito Tommaso d’Aquino:

La creatura non dispone dell’essere se non partecipato da altro. Lasciata a sé, e considerata per se stessa, essa è nulla. Ne consegue che per natura a essa inerisce prima il nulla che l’essere.5

Dio allora risponde all’esigenza di salvare il mondo, che è il soggiorno dell’uomo, dalla possibilità di non-essere, e realizza questa salvezza ponendosi come lo stesso principio di ragione. L’esistenza di Dio è infatti l’esito di un processo inferenziale che l’uomo ha instaurato per trovare una ragione capace di garantire il prevalere dell’essere nell’ente. Nel Dio-principio-di-ragione, il Dio-valore di Platone viene allo scoperto, presentandosi come colui che garantisce il soggiorno dell’uomo e ne soddisfa l’esigenza conoscitiva. In questo senso anche il primato medioevale della determinazione teologica è al servizio dell’uomo, che solo apparentemente si trae da parte. Infatti, scrive Heidegger:

L’uomo, in aspetti di volta in volta differenti, ma ogni volta deliberatamente, prende posto nel bel mezzo dell’ente, senza per questo essere l’ente più elevato.6

Con l’età moderna la centralità dell’uomo, il suo sostituirsi all’essere nel tentativo di assicurarsi il possesso sicuro e incondizionato dell’ente avviene a carte scoperte. L’umanismo, nato sotto il giogo dell’idea platonica, si affranca dalla soggezione alla determinazione teologica medioevale e si pone come l’incondizionato che condiziona il volto di ogni ente. Quest’ultimo, infatti, è ente solo se è oggetto, ossia se è “posto di contro (ob-jectus, Gegen-stand)” a un soggetto, la cui attività consiste nel rap-presentare (vor-stellen) l’oggetto nel senso di porselo (stellen) davanti (vor). Se conoscere significa “rappresentare”, l’uomo si riconferma, e questa volta esplicitamente, come luogo della verità che, da parte sua, abbandonato il volto realistico dell’adæquatio medioevale (ossia della corrispondenza dell’intelletto alla cosa), assume quello della certezza (Gewissheit), ossia dell’assorbimento soggettivo dell’ente.

Con Cartesio, quindi, il soggetto si trova a dover svolgere quel ruolo di presentazione dell’ente che, prima dell’accennata deviazione platonica, era svolto dall’essere. Prima di Platone, infatti, l’essere era pensato come condizione del presentarsi dell’ente; ora in questo ruolo è pensato il soggetto che rap-presentando, pone dinanzi (vor-stellt) l’ente che, a sua volta, in quanto posto dinanzi a un soggetto, si chiama oggetto (Gegen-stand). Con l’oggettivazione della totalità dell’ente si apre l’epoca della riduzione del mondo a immagine soggettiva. L’immagine del mondo (Weltbild o Weltanschauung) è l’essenza dell’epoca moderna. Non c’è un’immagine del mondo antica, né una medioevale, perché in quelle epoche è essenziale l’ordine delle corrispondenze come orthótes, homoíosis, adæquatio. Con l’epoca moderna, invece, il mondo viene formato (gebildet) dall’immagine (Bild) o dalla visione (Anschauung) che l’uomo se ne è fatto. “Immagine del mondo” significa quindi che il mondo è così come noi lo vediamo.7

Questo vedere anticipante, che Heidegger chiama mathesis universalis rifacendosi all’etimo di máthema, “anticipazione”,8 è ciò che consente all’ente di presentarsi come oggetto per quel soggetto, l’uomo, che diventa il centro privilegiato di tutti i possibili rapporti. Da questo centro l’uomo dispiega tutta la sua potenza scientifica e tecnica che si esprime nel calcolo, nella pianificazione e nel controllo di tutte le cose. Non a caso la scienza vera e propria nasce nell’epoca del cogito e della sua centralità.

La scienza moderna che progetta l’ente e la tecnica che ne dispone in base al progetto sono quindi in perfetta linea con la metafisica dell’Occidente che, a partire dalla deviazione platonica, ha separato l’ente dall’essere, per affidarlo prima a quel Super-ente che la speculazione medioevale ha chiamato Dio, e poi a quell’ente-soggetto o uomo che, “prendendo posto nel bel mezzo dell’ente”, ha ridotto la totalità dell’ente a sua rappresentazione. Con la scienza e con la tecnica, scrive Heidegger: “L’uomo è divenuto rappresentante d’ente risolto in oggetto”,9 su cui poter ancorare il senso del proprio presente e con cui potersi difendere dall’insecuritas che accompagna l’anticipazione del futuro.

Sotto il dominio della ratio (il cui significato, affidato all’etimo del verbo reor, esprime “stimare qualcosa per quello che è” e quindi “sottoporre qualcosa alla stima o al calcolo di qualcuno a cui il qualcosa deve render ragione”) si stabilisce una continuità che va da Cartesio a Hegel attraverso Leibniz e Kant. Il principio di ragion sufficiente di Leibniz, letto come principium reddendæ rationis, è il principio razionale che assicura l’ente dalla possibilità di non-essere. Per Leibniz questo principio si identifica con Dio, inteso come fondamento ontologico della totalità degli enti, ma un’analisi più approfondita non tarderà a rivelare il risolvimento di questo Dio nella ragione umana. È infatti un’esigenza della ragione calcolante ciò che conduce alla ricerca di Dio, così come è la ragione fatta calcolo ciò che definisce l’essenza di Dio come quella di colui che, calcolando,decide dell’ente nella sua totalità. È di Leibniz l’espressione “Come Dio calcola e mette in atto il suo pensiero, sorge il mondo”.10

Nell’ambito circoscritto della ratio, intesa come soggettività dell’Io-penso, si decide con Kant l’orizzonte del conoscibile e dell’inconoscibile. Le forme a priori dell’Io-penso (intuizioni e categorie) esprimono quella valenza anticipatrice della soggettività umana che, traducendo l’ente in oggetto matematico e fisico, lo circoscrive nell’orizzonte dell’esperienza, intesa non più come presenza dell’ente, ma come costruzione soggettiva dell’oggetto, per cui ciò che si sottrae a questa costruzione affonda nella noumenicità dell’inconoscibile. “Il próteron têi phýsei, ciò che, rispetto al disvelarsi, è precedente, in quanto, essendo ciò che è da sé più manifesto, viene prima di tutto”11 non è più l’essere, ma le funzioni a priori della soggettività che accompagnano ogni costruzione kantiana.12

Con Hegel, infine, assistiamo al trionfo della soggettività che, liberatasi da ogni limite noumenico, si pone come assoluta. In essa l’ente è definitivamente assicurato nella sua positività, mentre il negativo è relegato nell’illusione che il processo dialettico si lascia di volta in volta alle spalle. La continua e sempre positiva vittoria della soggettività sul negativo anticipa la nietzscheana volontà di potenza che, se da un lato annuncia, con la morte di Dio, la fine di quel mondo sovrasensibile, o realtà prima, che pretendeva di porsi come condizione e norma del mondo sensibile, dall’altro rappresenta l’ultima incarnazione dell’antropocentrismo dell’Occidente che, nell’oblio dell’essere, segue il suo destino di terra del tramonto.

Nietzsche, che vive profondamente l’esperienza del mondo moderno, in cui si assiste all’esplosione dell’umanismo che si era annunciato sotto il giogo dell’idea, non può fare a meno di cogliere nella volontà di potenza, che spinge l’uomo ad assicurare gli enti e se stesso tra gli enti, la matrice di quell’idea metafisica che ha condotto alla posizione di Dio che tutti li fa valere. Andare al di là del bene e del male, misconoscere i valori, proclamare la morte di Dio significa riconoscere l’impossibilità di affidare a un mondo sovrasensibile di enti o a un Ente supremo il compito di salvare l’ente dal nulla.

Questo compito appartiene all’essere il cui destino (Geschick) è appunto quello di far accadere (geschehen) l’ente. Strappare all’essere il suo destino, per affidarlo a un ente privilegiato, è oblio dell’essere e, a un tempo, ricerca affannosa di qualcosa che assicuri durante la sua assenza. Proclamare la morte di Dio significa dunque riconoscere l’impotenza radicale del mondo sovrasensibile nei confronti di quello sensibile, significa aprirsi la possibilità di un recupero del senso dell’essere. In Nietzsche non assistiamo a questo recupero, ma alla continua affermazione della volontà di potenza. Volontà di potenza significa “volere sempre di più”. Ciò che si vuole è ciò che l’Occidente ha sempre voluto: la sicurezza dell’ente, l’eliminazione della sua precarietà.

Ma se la volontà vuole sempre di più significa che, per sé, l’ente è ancorato sempre meno all’essere, per cui dire volontà di potenza equivale a dire impotenza dell’ente a essere garantito dalla possibile rapina del nulla. Identificare infine la volontà di potenza con l’eterno ritorno dell’uguale significa sancire, una volta per tutte, l’impotenza dell’ente a garantirsi da sé, e quindi l’inutilità di tutti i tentativi occidentali volti in tal senso.

Concludendo, possiamo dire che il merito di Nietzsche consiste nell’aver colto nella volontà di potenza, che assicura l’uomo nella ricerca affannosa della propria sicurezza, l’unico valore incondizionato che condiziona ogni iniziativa etica e teologica, mentre il limite consiste nel fatto che Nietzsche, dopo il rifiuto di tutti i valori e di tutte le ipotesi teologiche, ha fatto della volontà di potenza il valore supremo, e, del luogo lasciato libero dalla morte di Dio, la dimora del superuomo, espressione ultima della soggettività quale si è costituita a partire da Platone. In questo modo Nietzsche resta prigioniero della sua stessa vittoria, e con lui naufraga l’ultimo tentativo dell’Occidente volto a far essere l’ente, a sottrarlo alla rapina del nulla, in assenza dell’essere!13 Scrive Nietzsche:

Vidi una grande tristezza invadere gli uomini. I migliori si stancarono del loro lavoro. Una dottrina apparve, una fede le si affiancò: tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto fu! Abbiamo fatto il raccolto: ma perché tutti i nostri frutti si corrompono? Cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? Tutto il nostro lavoro è stato vano, il nostro vino è divenuto veleno, il malocchio ha disseccato i nostri campi e i nostri cuori. Aridi siamo diventati noi tutti [...]. Tutte le fonti sono esauste, anche il mare si è ritirato. Tutto il suolo si fenderà, ma l’abisso non inghiottirà! Ah, dov’è mai ancora un mare dove si possa annegare: così risuona il nostro lamento sulle piatte paludi.14

La tristezza che invade è la tristezza del tramonto, quando il sole cede il posto a una luna che è malvagia perché giunge a concludere un giorno in cui il lavoro è stato vano, perché la terra si è disseccata, i frutti non hanno risposto alle attese, le fonti si sono estinte e nessun abisso s’è dischiuso a inghiottire l’uomo che, dunque, resta testimone dell’aridità della terra, del niente che ne è stato. Il nichilismo conclude la “terra della sera” e custodisce il senso del tramonto.

Da questo breve excursus sulla storia d’Occidente, indispensabile per comprendere il perché di un ritorno, emergono due indicazioni. La prima è che l’essenza del nichilismo è costituita dall’oblio dell’essere, la cui radicalità è da rintracciarsi nella stessa instaurazione del punto di vista umano che fa di ogni filosofia e, più in generale, di ogni espressione culturale dell’Occidente, un’antropologia. L’uomo, infatti, giunge al centro di ogni discorso solo quando dal centro ha spodestato l’essere, per porre se stesso come principio di tutte le cose.

La seconda è che, per realizzare il suo tentativo adamitico o prometeico, l’uomo occidentale ha impostato il proprio pensiero esclusivamente in termini causali, cercando di ogni cosa il “perché”, o la “ragione sufficiente” a garantirne l’essere, piuttosto che il senso del suo “è”. In tal modo ha evitato di porre le cose nella massima oscillazione, che è poi quella compresa tra essere e nulla, da cui solamente può emergere il senso dell’essere. Stando così le cose, acquistano particolare rilievo da un lato il teorema jaspersiano e heideggeriano della finitezza dell’uomo, che non è compiacenza pessimistica di gusto decadente, ma spazio per l’essere e per il suo rivelarsi; dall’altro la trasformazione della domanda filosofica fondamentale (der philosophische Grundfrage) che, in Jaspers e in Heidegger, non è più ricerca di cause, ma ricerca di senso. Ossia non ci si chiede più: “Chi ha fatto essere l’ente preferendolo al nulla?” (teologismo), o “Come si fa a far essere l’ente sottraendolo al nulla?” (scientismo), ma ci si chiede: “Che senso ha che a essere sia l’ente e non il nulla?”.

Se ci si limita a chiedere la causa dell’essere dell’ente, invece che il suo senso, non ci si muove sul piano filosofico che mette in questione la totalità, ma su quello scientifico che, lungi dal problematizzare il principio di causalità, lo assume senz’altro come struttura anticipante, al cui interno collocare, e quindi limitare, la portata della domanda. In questo ambito circoscritto l’ente non è più colto nel massimo pericolo, costituito dalla possibilità del suo non-essere, ma è problematizzato limitatamente alla ricerca della causa che l’ha fatto essere. Il problema, cioè, è ridotto all’identificazione di una causa e non esteso al senso ultimo di quell’accadimento che è l’essere del reale invece che il suo non-essere.

Nell’identificazione della causa è raccolto non solo lo sforzo della scienza moderna, ma anche il senso della metafisica occidentale che, a partire da Platone, è andata alla ricerca di quell’Ente capace di far essere la totalità degli enti. La metafisica occidentale, quindi, riducendo la portata e il senso della domanda di fondo, ha impoverito fino all’insignificanza la filosofia e, nello stesso tempo, ha presieduto alla nascita della scienza, assegnandole la domanda al cui interno operare: la ricerca delle cause.

In questa luce, l’opposizione tradizionale fra scienza moderna e metafisica classica cade a quel livello inessenziale che si trova espresso dalla differenza tra causa seconda e causa prima, in cui non è in gioco l’impostazione causalistica della domanda, ma semplicemente un differente livello di risposta. A questo punto perché meravigliarsi della fine della filosofia? Se la sua ricerca è nella direzione delle cause, a questa ricerca ha dato ampia soddisfazione la scienza ogni volta che di una cosa ha indicato il perché. Questa osservazione, oltre ad anticipare la direzione del nostro discorso, vuol essere un esempio di come in filosofia la comprensione di una domanda sia spesso più importante e decisiva del contenuto delle possibili risposte.

Oggi la filosofia può risorgere solo se è in grado di riproporsi, al di là di tutte le risposte, come domanda radicale, alla ricerca non più della causa, ma del senso dell’essere delle cose. Solo così potrebbe ridestare l’uomo attualmente assopito da quella serie di rimandi causali escogitati dalla scienza per la spiegazione di ogni cosa, e, ridestandolo, potrebbe metterlo di fronte a quell’assenza di senso che si determina quando la ragione, ormai abituata a spiegare il come di tutte le cose, tace impotente di fronte al perché del loro accadimento: “Perché c’è qualcosa in generale e non il nulla?”. Qui, per rispondere, non basta indicare la causa di ogni cosa, qui la domanda chiede: “Che senso ha l’esserci di ogni cosa con o senza la sua causa?”. “Perché il suo accadere, invece del suo astenersi?”

Se la legge causale è un vincolo che l’angoscia dell’uomo impone all’originario phýein della phýsis, se è una profonda difesa dell’uomo che tenta di controllare, mediante il potere del concetto, il tormentoso enigma dell’evenire di tutte le cose, l’enigma si fa ancora più assillante per un intelletto ormai dominatore, che dal senso di questo enigma si sente contraddetto. Per risolvere l’enigma non basta ricondurre le cose alle loro cause, dando così a ciascuna il proprio nome. Chiamare qualcosa col suo nome significa esprimere potere su di essa, e ciò fa parte essenziale delle arti magiche primitive. Un tempo si dominavano le potenze malvagie chiamandole col loro nome, si indeboliva o si uccideva il proprio nemico eseguendo determinati procedimenti magici sul suo nome. Con la nascita della scienza queste estrinsecazioni primordiali dell’angoscia primitiva riapparvero in quella tendenza volta a eliminare quanto risultava inafferrabile alla concettualità intellettuale, che espresse la sua potenza nominando tutte le cose secondo la quantità. Respinto così l’inaccessibile, la scienza ridusse la natura alla propria immagine logica, e la filosofia seguì la scienza nella concezione di un’immagine meccanica e rigorosamente deterministica del mondo.

Con la necessità logica in possesso dell’uomo ci si difese dalla necessità del destino, con la magia della concettualità dalla magia del mistero, il cui volto inaccessibile ha generato nel pensiero aurorale un timoroso rispetto, e nel pensiero moderno un’angosciata e perciò prepotente reazione. Alla contemplazione del primo è subentrata la volontà del secondo di assoggettare, meccanizzare, dominare. Ma l’essere, che come destino (Geschick) destina ogni evento, la cui successione compone la storia (Geschichte), destina anche quell’evento, la ragione scientifica, che tenta la soppressione del destino e del mistero in esso racchiuso.

Questa terminologia heideggeriana, che richiama il linguaggio religioso, non deve far pensare alle porte dell’inferno che non prevarranno (Portæ inferi non prævalebunt), perché qui l’inferno non è l’antitesi, ma il volto attuale dell’essere, ciò che l’essere lascia essere di sé in occasione del suo assentarsi: l’assenza di senso e quindi la domanda che lo richiede. Raccogliendosi in questa domanda, la filosofia può riprendersi dall’alienazione in cui è caduta quando, nell’epoca della nascita e del trionfo della scienza, che ha coinciso con la moderna epoché o sospensione della manifestazione dell’essere, s’è presa cura della sorte o destino (Geschick) dell’ente, invece che della sorte o destino dell’essere.

Le tappe che hanno condotto alla dimenticanza del senso dell’essere, in cui si raccoglie l’essenza del nichilismo, sono per Jaspers: la riduzione dell’apertura periecontologica alla clausura ontologica, con il conseguente smarrimento del senso dell’essere che, da comprendente (periéchon) la totalità dell’ente, è stato assorbito e compreso, da Umgreifende è stato ridotto a leere Begriff, a vuoto concetto; quindi la riduzione della totalità ontologica all’orizzonte dell’intelletto intersoggettivo, che ha fatto di ogni ente un oggetto per quel soggetto che è la coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt). Questa, ponendosi come ragione scientifica e tecnica, ha dissolto nell’illusione, perché non scientifica, ogni ulteriorità che non fosse da essa direttamente verificabile con gli strumenti della propria logica assolutizzata. Il nichilismo dell’Occidente è dunque l’esito del progressivo nientificarsi dello spazio della trascendenza e quindi dell’esistenza e della libertà dell’uomo.

Se il nichilismo nasce dall’oggettivazione della trascendenza, dal suo risolvimento nella ragione immanente, dal nichilismo si potrà uscire solo spezzando (durchbrechend) l’orizzonte circoscritto dell’oggettività, e vivendo quella tensione (Spannung) desituante che libera per l’essere autentico. L’itinerario non ha un significato mistico, perché l’essere non è l’assoluto al di là, ma è, per Jaspers, quella trascendenza immanente che si annuncia nell’apparire storico, nell’accadere ontico, senza peraltro esaurirsi nella storicità degli accadimenti. Il suo apparire è un accadere, l’accadimento rivela ma insieme nasconde l’essere come totalità dell’apparire e dell’accadere. Questa ambivalenza, per cui il rivelare è un nascondere, è ciò che fa di ogni oggetto una cifra che deve essere de-cifrata. Rompere (Bruch), penetrare (Ein-bruch), spezzare (Durch-bruch) l’oggettività dell’oggetto è decifrare la cifra, è dischiudere quello spazio che, per il soggetto che conclude il suo orizzonte nei confini dell’oggettività, è nulla.

L’oltrepassamento di questi confini non avviene sulla scorta di un sapere. La certezza (Gewissheit) che anima la tensione desituante non è di natura scientifica (Gewusstheit), ma di natura fideistica: è l’impossibilità di accettare che l’originario (Ursprung) coincida con l’oggettivamente conosciuto, che l’essere si risolva nella totalità posseduta degli enti. Il meta-fisico, a cui tende la ragione quando supera i limiti dell’intelletto scientifico, il meta-storico a cui tende l’esistenza quando si desitua, non sono l’al di là platonico assolutamente trascendente. Infatti, scrive Jaspers:

Questa duplicazione del mondo non tarda a rivelarsi ingannevole [...] perciò l’al di là come una realtà totalmente altra deve cadere in quanto mera illusione. [...] Il luogo della trascendenza non è né di qua, né di là, ma è confine.15

L’essere, infatti, si annuncia attraverso l’onticità oggettivamente conosciuta e attraverso la storicità oggettivata. “Attraverso (quer)” qui non significa “mediante”, ma significa “essere attraversato” e perciò “pervaso”, “compreso”, come il santo è attraversato dal sacro o come il poeta è attraversato dall’ispirazione che lo pervade e lo possiede. Allo stesso modo la realtà ontica (Realität) e la sua storia (Historie) è attraversata (quer) dall’essere, ossia da quella realtà autentica (Wirklichkeit) a cui ogni realtà ontica (Realität) e ogni evento rinviano. Secondo Jaspers, infatti, il nichilismo nasce quando: “L’ente come essere-oggetto (Gegenstand-sein) vela ciò a cui, in quanto presenza (Gegenwartig-sein) rinvia”.16

Dal nichilismo si esce quando il conoscere (Erkennen), che si arresta all’oggettività dell’ente, scopre l’ente come messaggio dell’essere e, “tra-guardando (quer zu sehen)” l’ente, si realizza come accertamento dell’essere (Seinsvergewisserung, Seinsinnewerden). La logica dell’Occidente, che nell’oblio dell’essere ha assolutizzato l’ente, per poi ridurlo a oggetto per un soggetto, non conosce questo modo di pensare. Incapace di superare la conoscenza oggettiva, essa si proibisce la trascendenza e si trattiene nel nichilismo che nasce ogni volta che non si conosce niente oltre l’ente. Perciò Jaspers conclude:

È nichilista chi non crede a nulla se non a ciò che è percepibile nella realtà, chi ritiene illusorio tutto ciò che non può né vedere né toccare, chi crede di sapere con certezza che cosa sia la realtà, chi non ha la minima idea delle parole goethiane: “Ogni fatto è già una teoria”, chi nega la libertà e considera se stesso un mero esser-ci concluso nel suo “ci”.17

All’analisi jaspersiana si affianca quella heideggeriana per la quale, da Platone a Hegel, l’idea regolativa del pensiero occidentale è quella di un sapere che non abbia presupposti perché tutti li ha risolti in sé. Questa idea è la stessa che sostanzia la metafisica come riduzione di tutto l’essere alla presenza, in modo che nulla sia più nascosto (léthe), ma tutto sia “spiegato” e nel dispiegamento (a-létheia) dimori senza più rimandare ad altro. In questo modo l’essere, il nascosto, si risolve nella totalità dispiegata, che è poi la totalità ontica, per cui dell’essere, alla conclusione e al culmine della metafisica, “ne è nulla”.18 E del resto quale altro senso avevano i principi della metafisica, quali il principio di non contraddizione, di causalità, di ragion sufficiente, se non quello di assicurare l’essere dell’ente mediante la disponibilità delle cause e delle ragioni sufficienti a garantire l’essere dell’ente piuttosto che il suo non-essere?

La nostra epoca, che ha estinto la differenza ontologica assicurando l’essere dell’ente all’interno dell’attività tecnica fondata sul calcolo e sulla pianificazione, non è in grado di conoscere per sé alcun autentico futuro, perché l’accadimento di ogni ente, di ogni “novità” è qualcosa di irrimediabilmente passato, perché pre-visto, pre-calcolato, perché anticipatamente voluto. L’epoca della tecnica, come epoca finale della metafisica, assiste così al rovesciamento di quest’ultima nel suo opposto. La meta-fisica cessa di essere tensione oltrepassante il mondo fisico per diventare l’ordine pienamente attuato di questo mondo, il modo di funzionare di una certa struttura storica, di una certa civiltà.19

Risolto l’essere nell’ente, la metafisica non può più sussistere come attività distinta dal mondo, ma si risolve irrimediabilmente in esso, ponendosi come suo ordinamento e sua stabilità. In questa risoluzione la metafisica realizza il suo trionfo e la sua fine, porta a compimento quello che da sempre è stato il suo intento più o meno mascherato: conseguire il dominio dell’ente disponendo incondizionatamente del suo essere. Nella sua versione tecnica, la metafisica si connette così all’essenza della modernità come Neuzeit, che non annuncia un nuovo (neu) tempo (Zeit), ma un nuovo modo più sicuro di vivere il proprio passato. Infatti la modernità è l’epoca della certezza che si autoassicura, è il tempo in cui l’uomo è continuamente alla ricerca di nuovi punti di assicurazione e di stabilità sempre più solidi.

In questa logica il pensiero filosofico è tanto più valido quanto più riesce a non lasciare nulla di infondato, cioè di inespresso, quanto più riesce a portare alla luce dell’enunciazione tutti i suoi fondamenti. L’esigenza di fondare è l’esigenza di assicurare l’ente, di sottrarlo alla precarietà in cui l’essere lo lascia essere. In questa esigenza di fondazione e di enunciazione di tutti i fondamenti si raccoglie l’essenza del pensiero occidentale e l’inevitabile suo tramonto, perché là dove tutto è fondato, e dove ogni fondamento è esplicitato e detto, non resta più niente da dire.

In questo senso il tramonto dell’Occidente è anche il concludersi della sua storia. La storia, infatti, come aprirsi di ambiti in cui le cose vengono all’essere, è storia della verità, cioè dello svelamento, ma ogni svelamento è possibile solo sulla base di un originario nascondimento. Là dove ogni nascondimento è dissolto perché tutto è dispiegato, il pensiero è alla fine, e con esso la sua storia che di ogni Boden ha fatto un Grund, di ogni fondo di nascondimento un fondamento esplicativo.

A questo punto la risposta alla domanda heideggeriana: “Siamo veramente noi quegli ultimogeniti che siamo? O siamo anche, nello stesso tempo, i precorritori dell’aurora di una ben diversa epoca del mondo che ha lasciato dietro di sé tutte le odierne rappresentazioni storiografiche della storia?”,20 è custodita nelle attuali possibilità del pensiero. Cresciuti come siamo in quella terra caratterizzata dal congedo dell’essere, possiamo ancora intendere il senso del linguaggio che lo esprime? Se il linguaggio dell’Occidente serve per esprimere la dominazione dell’ente, non bisognerà far violenza a questo linguaggio affinché la voce dell’essere si tra-duca, cioè giunga a quel tipo d’uomo, l’occidentale, la cui condizione è quella di essere avvolto non solo dall’oblio dell’essere, ma anche dall’oblio di questo oblio? Che cosa deve esprimere il linguaggio? Deve fornire nuove spiegazioni o deve corrispondere all’appello del nascosto? Se il pensiero, che in Occidente s’è sviluppato come spiegazione totale o totale esplicitazione, è giunto al suo trionfo, ma anche alla sua conclusione, se non si vuole che il tramonto della filosofia occidentale coincida col tramonto del pensiero in quanto tale, non c’è che da mutare prospettiva e passare dal pensiero come spiegazione al pensiero come ermeneutica.

L’ermeneutica jaspersiana, che trova il suo linguaggio nella cifra, e quella heideggeriana, che trova la sua espressione nel linguaggio poetico,21 si fondano sul presupposto che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dalla cifra e dal linguaggio poetico non costituisce il limite o lo scacco del pensiero, ma il terreno fecondo su cui, solamente, il pensiero può fiorire e svilupparsi. L’ermeneutica, che così prende avvio, non è mossa dall’ideale metafisico dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre all’interpretazione, e, nell’interpretazione, lascia in libertà (freilassen).

Se l’essere è ciò che sempre “è da pensare”,22 fedele all’essere non sarà quel pensiero che si pone come esplicitazione totale, ma quel pensiero che, rispetto all’ideale esplicativo dell’Occidente, sarà detto “inadeguato”, mentre in realtà è semplicemente consapevole dell’“inesauribilità dell’essere”. In questo senso, sia lo scopo, sia i modi del lavoro ermeneutico di Jaspers e di Heidegger assumono una fisionomia tutta nuova, perché il rapporto essere-pensiero non è più pensato come un processo causalmente strutturato che agisce sotto la spinta del fondamento (Grund) che di ogni cosa chiede il perché, ma è pensato come appello-risposta, come dono-ringraziamento, che caratterizzano il rapporto uomo-essere in quella terra, il Boden, che non si risolve mai nel Grund della metafisica, perché anche l’ambito storico in cui l’esserci si muove e costituisce le sue concatenazioni di cause ed effetti, di premesse e conclusioni è sorretto, dato, reso possibile dall’essere che, come dono, si dà (es gibt) e, come parola, dà (gibt) l’essere agli enti.

Il recupero della verità dell’essere e della sua parola non ancora alienata assume a questo punto il senso di un “ritorno”, il ritorno a quel tempo in cui il pensiero occidentale cominciò a individuarsi e, progressivamente, a separarsi da quello aurorale, in cui l’uomo, al di là di ogni distanza spaziale e culturale, si pensava testimone dell’essere, e dell’ente solo per dono. La difficoltà maggiore che si incontra nell’esecuzione di questo compito, a cui è dedicato questo saggio, è costituita dalla mancanza del linguaggio. Quello offerto dall’Occidente è inadeguato, perché del linguaggio originario è il travisamento o, se si preferisce, il tramonto. Il tramonto tuttavia conserva, nel suo attenuarsi, la luce dell’alba; sarà allora possibile, attraverso la metafisica del tramonto, risalire al domandare che l’ha generata, per ripensarla nella purezza non ancora contaminata dalle risposte che l’Occidente ha di volta in volta fornito. Qui non si tratta di approntare una nuova strada, ma di liberare l’antica, custodendo con la massima cura le orme che vi si trovassero impresse.

Il sentiero che così si dischiude muove dall’essenza dell’alienazione occidentale alla ricerca della terra perduta. Nel tragitto l’uomo erra. Dall’errare può nascere l’errore, come smarrimento fra i sentieri che “disviano”, che cioè conducono “fuori dalla via”, dove l’errare diventa “aberrante”, ma dove anche può trovarsi il sentiero che avvicina, che conduce in prossimità della terra perduta. In questo smarrito itinerare, questo libro non vuole essere una monografia parallela in cerca dei punti di contatto tra Jaspers e Heidegger, ma vuole pensare con Jaspers e con Heidegger al senso espresso dalla loro filosofia che, ponendosi ai limiti di un’epoca storica, va alla ricerca del perché del suo smarrimento.

In questa ricerca il pensiero aurorale non è indicativo per ciò che dice, ma perché il suo dire costituisce la prima risposta all’accadere dell’Occidente. Se quest’ultimo non ha più nulla da dire perché è giunto all’esplicitazione totale, allora l’ascolto dei pensatori aurorali, non ancora compromessi dalla distinzione tra Oriente e Occidente, è il compito fondamentale che attende quanti hanno compreso che l’Occidente è arrivato alla fine. La loro parola è infatti all’inizio, e nasconde, ma in modo non inaccessibile, la verità che dovrà palesarsi a tramonto avvenuto, quella che, secondo Nietzsche, è la filosofia del mattino:

Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante, non un viaggiatore diretto alla meta finale. [...] Quando silenziosamente, nell’equilibrio dell’anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora meditabonda, sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamente sereno: essi cercano la filosofia del mattino.23

1 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 207.

2 M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit (1931-1932, 1942); tr. it. La dottrina platonica della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 182.

3 Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b. Recita il testo greco: “Ouk ousías óntos toû agathoû, all’éti epékeina tês ousías presbeíai kaì dynámei hyperéchontos”.

4 M. Heidegger, Nietzsches Wort “Gott ist tot” (1943); tr. it. La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 238-239.

5 Tommaso d’Aquino, De æternitate mundi contra murmurantes (1270), in Opuscula philosophica, Marietti, Torino 1954, n. 304, p. 107. Recita il testo tomista: “Esse non habet creatura nisi ab alio. Sibi relicta, in se considerata nihil est. Unde prius naturaliter inest sibi nihil quam esse”.

6 M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, cit., p. 190.

7 Cfr. Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanismo”.

8 M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes (1938); tr. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, cit., p. 74. Recita il testo: “Tà mathémata significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”.

9 Ivi, p. 86.

10 G.W. Leibniz, Dialogus de connexione inter res et verba, et veritatis realitate (1677); tr. it. Dialogo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 2000, vol. I, p. 190. L’espressione che in latino suona: “Cum Deus calculat et cogitationes exercet, fit mundus” è ripresa da M. Heidegger, Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 901 sgg.

11 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 127.

12 Cfr. Parte IX: “L’anticipazione della ragione e l’assicurazione dell’ente”.

13 Cfr. Parte XII: “La decostruzione della ragione e la volontà di potenza”.

14 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, 1, p. 175.

15 K. Jaspers, Philosophie (1932-1955), III: Metaphysik; tr. it. Filosofia, Utet, Torino 1978, Libro III: Metafisica, p. 944.

16 Id., Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 197.

17 Id., Chiffren der Transzendenz (1970); tr. it. Cifre della trascendenza, Marietti, Genova 1990, p. 18.

18 M. Heidegger, Nietzsche cit., p. 812. Recita il testo tedesco: “Mit dem Sein als solchem ‘ist’ es nicht: das Seinein Nihil. (Dell’essere in quanto tale non ne ‘è’ niente: l’essere – un nihil)”.

19 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, e in particolare il capitolo 54: “Il totalitarismo della tecnica e l’implosione del senso”.

20 M. Heidegger, Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, cit., pp. 303-304.

21 Per queste vie espressive al di là del linguaggio occidentale si veda il Libro III: Oltre l’Occidente.

22 M. Heidegger, Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, vol. I, pp. 37 sgg.

23 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister (1878-1880); tr. it. Umano troppo umano, in Opere, cit., 1965-1967, vol. IV, 2, p. 304.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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