19.
Il lógos di Eraclito
Questo lógos, benché verità eterna, gli uomini non lo intendono mai né prima di udirlo né dopo averlo udito. E sebbene tutte le cose avvengano in conformità al lógos, che è legge del mondo, essi ne sembrano inesperti quando si cimentano a sperimentare tali parole e opere, quali io vado spiegando, distinguendo ciascuna cosa secondo la sua intima natura e dicendo come è. Ma gli altri uomini sono ignari di ciò che fanno da svegli, così come non sanno ciò che fanno dormendo.
ERACLITO, fr. B 1.
Acquisita la posizione di Anassimandro come struttura fondamentale del pensiero metafisico che non si trattiene fra gli enti, ma si prende cura di ciò che, trascendendo gli enti, li mantiene nel suo ambito circoscrivente (periéchein) e li governa (kybernân), il pensiero del periodo assiale, nella sua espressione greca, si raccoglie con Eraclito e con Parmenide intorno all’ápeiron, non per determinarlo, ma per intendere in che cosa propriamente consista l’indeterminabilità dell’indeterminato. Impegnati in questa comprensione ulteriore, Eraclito e Parmenide, che lo schematismo logico successivo presenterà come archetipi di due mentalità opposte, per Jaspers pensano la stessa cosa:
Nell’antichità essi erano considerati antagonisti. Quest’opposizione era concepita sotto questa forma: Parmenide insegna l’essere, Eraclito il divenire. A partire da questo schema sembra che essi avessero risposto in maniera contraria alla stessa questione (quale sarebbe poi?), l’uno ponendo l’essere immutabile eternamente uguale a se stesso, l’altro ponendo il flusso costante delle cose (pánta reî). Ma contro ciò che dice questo schema è vero invece che ambedue pongono tanto l’essere quanto il divenire. All’essere (ón) di Parmenide corrisponde il lógos (o il sophón o Dio) di Eraclito; all’essere non diveniente e imperituro, il lógos che resta sempre uguale; alla separazione parmenidea di verità e apparenza corrisponde l’occultezza eraclitea del lógos. Parmenide colse con l’intellezione (noeîn) l’intera totalità dell’essere, nel presente vide l’assente come compresente. Eraclito prese parte con il suo pensare riflessivo (phroneîn) alla lotta degli opposti in cui è presente e domina il lógos unico. L’antagonismo tra i due pensatori non è tale che il contenuto del pensiero dell’uno debba escludere quello del pensiero dell’altro. Ciò che essi pensano si trova come in una corrispondenza bilaterale, cioè pensano in modo diverso ciò che è sempre. L’uno pensa l’essere nell’identità logica e nella tranquillità trascendente di una perfezione senza cambiamento, l’altro nella dialettica logica e nella tranquillità trascendente del nómos immutabile. L’uno coglie il senso dell’essere nell’unità in cui si annienta la contraddizione, l’altro nella contraddizione che si cancella in virtù dell’unità dei contrari. Per mettere l’uno in lotta con l’altro bisognerebbe che le loro formule pretendessero a una validità assoluta e reciprocamente esclusiva.1
L’incompatibilità tra Eraclito e Parmenide è uno dei luoghi comuni della storiografia filosofica quando procede per schemi superficiali. Sia Parmenide sia Eraclito, infatti, pensano l’opposizione di positivo e negativo, con questa sola differenza: che Parmenide afferma la positività del positivo (l’essere è) come emergente in opposizione alla negatività del negativo (il non-essere non è), mentre Eraclito rileva che se il positivo non fosse messo in relazione al negativo non sarebbe positivo. Eraclito, dispiegando l’opposizione come unico ambito in cui è dato al positivo di affermare la propria positività, rende possibile Parmenide per il quale l’affermazione del positivo è a un tempo l’allontanamento del negativo. Questo ambito onnicomprensivo che ospita l’opposizione è il lógos, a proposito del quale Jaspers dice:
Il lógos è l’indeterminato infinitamente determinabile, è l’unità degli opposti e la totalità onnicomprensiva (Umgreifende) come tutte le grandi parole fondamentali della filosofia.2
L’unità degli opposti non deve essere intesa come sintesi o somma, ma come “opposizione” che, opponendo le cose l’una all’altra, consente a ciascuna di pervenire alla propria identità. Infatti, scrive Jaspers:
Noi conosciamo ogni cosa per mezzo dell’opposizione: non conosceremmo il giusto se non ci fosse l’ingiusto. L’unità degli opposti, lo dice chiaramente Eraclito, è “L’unione antagonista come nell’arco e nella lira” (fr. B 51). “Ove le forze contrastanti si compongono ivi è la più bella armonia” (fr. B 8). Essa domina con potenza tranquilla, perché “L’armonia invisibile è più forte di quella visibile” (fr. B 54).3
Dall’accostamento di questi frammenti emerge che a unificare la molteplicità che si manifesta è l’unità degli opposti. Quest’ultima è intesa da Eraclito come quell’opposizione che consente l’individuazione del molteplice, altrimenti confuso nell’indeterminato. Senza opposizione non c’è realtà. A questo punto Eraclito distingue un’armonia visibile che unifica gli opposti nel processo del divenire (“non si è giusti se non si esce dall’ingiustizia”, ha appena ricordato Jaspers) e un’armonia invisibile che non è riscontrabile nel vistoso processo della generazione delle cose, ma che, trascendendo il divenire che unifica le determinazioni più diverse, ospita, non impedita dalla successione temporale, la totalità degli opposti. L’armonia visibile che si manifesta è inospitale perché, all’insorgere di un ente, determina la morte del suo opposto; l’armonia invisibile, che ama nascondersi, è ospitale perché, non compresa dai singoli divenire immanenti, tutti li comprende, e, comprendendoli, li ospita come suoi accadimenti.
Il lógos, come armonia invisibile, accoglie l’unità degli opposti, che si realizza in una pluralità di situazioni concrete, ciascuna delle quali, pur esprimendosi in un divenire che esclude gli opposti, non decide della loro esclusione dall’ambito dell’opposizione trascendentale che tutti li ospita. In questo senso il lógos di Eraclito è Umgreifende, come l’acqua di Talete e come l’ápeiron di Anassimandro. A unificare queste figure è il loro carattere a un tempo trascendente e immanente, per cui accompagnano l’accadimento delle cose generate senza identificarvisi.
Nell’incomprensione della trascendenza immanente espressa dalla phýsis che genera gli enti, dall’ápeiron che ne traccia i perimetri, dal lógos che ne unifica l’opposizione, sta l’incapacità della grande metafisica occidentale a comprendere il senso espresso dal pensiero del periodo assiale, custode di quella identità-differenza dal cui oblio anche Heidegger fa dipendere il nichilismo dell’Occidente.4 Ciò deriva dal fatto che, scrive Jaspers, come ci ricorda Eraclito:
“La maggior parte degli uomini (hoi polloí) non intendono il lógos” (fr. B 17), perché “Sono ignari di ciò che fanno da svegli, così come non sanno ciò che fanno dormendo” (fr. B 1). E così si allontanano da quel lógos col quale sono pur sempre in costante comunicazione. Ciò in cui si imbattono quotidianamente sembra loro estraneo. Nemmeno la dottrina di Eraclito può aiutarli. “Essi non la intendono anche se l’hanno udita. Presenti sono assenti” (fr. B 34). “Non la conoscono anche se l’hanno appresa, pur supponendo di conoscerla” (fr. B 17).5
L’accostamento di questi frammenti vuole dissipare un facile fraintendimento che potrebbe viziare la comprensione del senso dell’Occidente. Il fatto che l’uomo occidentale si sia affermato nella dimenticanza dellógos, sopraffatto dalla logica degli enti, e nell’oblio della phýsis, ridotta a semplice natura da dominare, il fatto che non abbia inteso il senso onnicomprensivo dell’essere pur avendone ricevuto l’annuncio, e che in sua presenza si sia comportato da assente, non significa che il lógos, la phýsis, l’essere onnicomprensivo (Umgreifende), la sua presenza siano stati sopraffatti da quella realtà nuova che l’uomo occidentale ha posto in essere, non significa che l’efficacia della realtà espressa da queste parole è oggi annullata dalla storia che ha attestato l’accadimento di una realtà differente, quella appunto che s’è affermata nel loro oblio, perché, scrive Jaspers:
Ciò che accade a opera degli uomini, anche se è dovuto a questa illusione, resta pur sempre conforme al lógos nascosto. Infatti, come osserva Eraclito: “I dormienti lavorano e collaborano alla produzione degli avvenimenti del mondo” (fr. B 75). Di qui il duplice aspetto del mondo umano. Da un canto “Il tempo della vita è fanciullo che gioca spostando di qua e di là le sue pedine: governo di fanciulli” (fr. B 52). “Le opinioni umane sono giochi da ragazzi” (fr. B 70). Dall’altro canto però ciò che per l’ignorante è un caso privo di senso, è in realtà ordine nascosto: “Un mucchio di cose gettate a caso è il più bell’ordine che costituisce il mondo” (fr. B 124).6
Qui siamo in presenza di un’astuzia della ragione (lógos) più sottile di quella che Hegel attribuisce all’Idea,7 perché il gioco dell’illusione non è consumato sui pensieri e sui progetti dei singoli uomini, i quali come polvere della storia sono inconsapevolmente al servizio dell’idea che, determinando l’accadimento storico, decide che cos’è verità. Qui il gioco dell’illusione investe lo stesso accadimento storico che, per il fatto di essere accaduto, è verità non per ciò che ha espresso, ma per ciò che ha trattenuto e, trattenendo, ha custodito.
L’accadimento storico dell’Occidente è verità non perché con la logica, che ha sopraffatto il lógos, ha dominato la natura, invece di attenderne il progressivo svelarsi, ma perché, obliando il lógos e abbandonando la phýsis, ha custodito intatti, sotto l’oblio e l’abbandono, sia il lógos sia la phýsis.
L’Occidente è ciò che è stato, non perché l’uomo si è affermato nella dimenticanza dell’essere, ma perché l’essere s’è sottratto e, sottraendosi, ha lasciato essere la vicenda dei dormienti che scambiano la realtà del sogno con quella della veglia, che si pensano lontani dal lógos pur essendone in costante comunicazione, che si comportano da assenti pur essendone alla presenza, che pensano di costruire il mondo perché spostano di qua e di là le cose come i fanciulli per gioco. L’illusione non è dei singoli uomini giocati dall’Idea occidentale (hegelianamente intesa) che astutamente li asserve, ma è dell’Idea occidentale giocata dal lógos che Eraclito definisce: “Unico saggio che i più non intendono” (fr. B 108). E Jaspers a commento: “E come potrebbe uno sottrarsi di fronte a ciò che mai tramonta?”.8
1 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 741.
2 Ivi, p. 721.
3 Ibidem.
4 In ordine al concetto jaspersiano di “trascendenza immanente” e la sua corrispondenza alla concezione heideggeriana della “differenza ontologica” si veda il capitolo 6: “Heidegger: la differenza ontologica e il passo indietro” e il capitolo 7: “Jaspers: l’Umgreifende e l’operazione filosofica fondamentale”. Questo stesso motivo è ripreso nel capitolo 86: “La legge del giorno e la passione per la notte”.
5 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 724.
6 Ibidem.
7 Scrive a questo proposito Hegel: “La ragione è tanto astuta quanto potente. L’astuzia consiste in generale nell’attività mediatrice che, facendo in modo che gli oggetti operino l’uno sull’altro in conformità alla loro natura e facendoli logorare dal lavorio dell’uno sull’altro, senza immischiarsi direttamente in questo processo, tuttavia non fa che portare a compimento il proprio fine”. G.W.F. Hegel, Encyclopädie der philosophischen Wissenschaften in Grundrisse (1817); tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Utet, Torino 1981-2000, Parte I: “La scienza della logica”, § 209, p. 434. Il brano è riportato da K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie (1867-1883); tr. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1964-1968, Libro I, capitolo V, p. 213.
8 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 724.