79.
L’essenza del nichilismo secondo Emanuele Severino
Nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che il non-niente è niente.
E. SEVERINO, Essenza del nichilismo (1972), p. 137.
Sul nichilismo dell’Occidente si è espresso da noi Emanuele Severino con una tesi, a mio giudizio, più radicale di quella di Jaspers e di Heidegger. Per Jaspers, infatti, il nichilismo dell’Occidente risiede nell’assolutizzazione della realtà empirica o della sua oggettivazione a opera del sapere scientifico, dovuta all’incapacità di cogliere nei dati empirici, o in quelli oggettivati, altrettante cifre che rinviano a un’ulteriorità. Per Heidegger, invece, il nichilismo dell’Occidente risiede nell’oblio dell’essere che avvenne quando Platone, invece di lasciar essere all’essere le sorti dell’ente, in modo che l’ente dipendesse dall’essere quanto al suo accadere, sottrasse l’ente all’essere per affidarlo alla garanzia di un Ente supremo, per cui, per tutto il corso dell’Occidente, dell’essere ne è stato nulla.
A differenza di Heidegger, Severino ritiene che Platone non è responsabile tanto dell’oblio dell’essere, quanto del suo annullamento avvenuto in occasione dell’affermazione del mondo. Il mondo, infatti, è il luogo in cui Platone accetta tranquillamente che gli enti divengano, nascano e muoiano, siano e non siano. In seguito, trasgredendo l’enunciato di Parmenide secondo cui: “L’essere è, il nulla non è (ésti gàr eînai, medèn d’ouk éstin)”,1 ciò che la filosofia medioevale attribuisce all’Ente supremo che crea, e ciò che la filosofia moderna attribuisce all’uomo che opera con la scienza e con la tecnica è la capacità di nientificare l’ente o di far essere l’ente dal niente. Questa capacità è pensabile solo se si parte dalla metafisica di Platone che, ponendo il mondo, pone il luogo in cui l’ente è niente. In questo senso, scrive Severino:
Nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che il nonniente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose al niente: affermando che escono e ritornano nel niente, afferma che sono state e tornano a essere niente. Il “mondo” è la dimensione in cui il nonniente è niente, e ove Dio o l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del niente.2
L’abisso che separa Severino dall’interpretazione jaspersiana e heideggeriana del nichilismo dell’Occidente è così radicale da includere nella sorte del tramonto il pensiero dello stesso Jaspers e dello stesso Heidegger, la cui “verità dell’essere”, accostata a quella indicata da Severino, appare come la formulazione teoretica più rigorosa della negazione di detta verità. E come per Heidegger Nietzsche resta catturato dal nichilismo dell’Occidente, che pure per primo in termini chiari aveva denunciato, così, per Severino, Heidegger annuncia come verità dell’essere ciò che in realtà è il compimento della sua negazione.
Questo fatto non è un fraintedimento accidentale, ma è la dimostrazione che l’alienazione dell’Occidente è giunta a un livello così profondo che le parole del nichilismo possono essere intese come parole di verità, giusto come accade a tramonto inoltrato, quando le ombre e le luci si confondono, perché le tenebre ormai sono incombenti. Infatti, scrive Severino:
Con la comparsa della metafisica i linguaggi storici si trovano per la prima volta a confronto con la testimonianza del senso dell’essere e del niente. Nel confronto, il senso di ogni parola metafisica subisce una trasformazione essenziale. Alla luce dell’essere e del niente la vita, la nascita e la morte, il sì e il no, il dolore, l’amore, la terra e il cielo vengono sottratti al loro senso primitivo e affidati a un altro senso, inaudito. Con la metafisica non sopraggiunge semplicemente un mondo nuovo, ma sopraggiunge il mondo. Il mondo non è una phýsis originaria e nemmeno il dono di un dio, ma è l’éthos dell’Occidente. La metafisica greca ha portato alla luce la dimora in cui abita l’Occidente, e questa dimora ha dato il proprio senso a tutto ciò che in essa si è andato compiendo.3
Il mondo, infatti, non è la phýsis, ma è il luogo in cui si accetta che l’ente nasca, cresca, muoia, in una parola: che l’ente sia e non sia. Pensare che l’ente non sia, significa pensare che l’ente è niente: e questo è appunto quanto pensa Heidegger quando, ponendo come verità dell’essere la “differenza ontologica”,4 pone come verità dell’essere la separazione tra l’ente e il suo è, quindi la nientità dell’ente. In questo senso la verità dell’essere indicata da Heidegger è l’essenza più rigorosa del nichilismo.
Se il nichilismo è costituito proprio dalla differenza ontologica, che pensa la separazione dell’ente dal suo è, il nichilismo dell’Occidente ha preso le mosse da Parmenide, per il quale l’eternità dell’essere non includeva gli enti, perché questi, divenendo, la contraddicevano. Come tali, gli enti dovevano essere relegati nell’illusione della dóxa in cui Parmenide risolve il “mondo”.
Con Platone il mondo viene recuperato dall’illusione, in cui lo aveva relegato Parmenide, mediante l’introduzione di tò Agathón che fa essere e non-essere tutte le cose. Tò Agathón è un dio mondano, non solo perché è introdotto per la salvezza del mondo, ma anche e soprattutto perché è costruito con le categorie del mondo, cioè con le categorie dell’essere e del non-essere, in cui si raccoglie il suo potere, che è appunto quello di far essere e non-essere tutte le cose. L’essere non appartiene per sé alle cose, ma le cose sono opere del demiurgo, érgon del demiourghós, che miticamente esprime la theía téchne di Dio.
Il cristianesimo, catturato dal platonismo, pensa il linguaggio biblico con le categorie metafisiche, e semantizza la creazione in termini di essere e non-essere. Con l’età moderna la theía téchne diverrà anthropíne téchne, ma lo sfondo mondano della metafisica non muta. “Produzione”, “costruzione”, “distruzione”, “consumo”, ovvero le categorie in cui si esprime la civiltà della tecnica, significano, infatti, possibilità di far essere e non-essere.
Questa possibilità è garantita dal pensiero metafisico che, custodendo la differenza ontologica, cioè la separazione dell’ente dal suo è, acconsente che l’ente possa non essere prima di nascere o esser prodotto dopo la sua fine o la sua distruzione. Pensare che l’ente non sia, e, traducendo in una teologia prima e in una civiltà poi questo pensiero, è vivere e mettere in atto le opere del nichilismo, di cui Dio e la tecnica, che producono e distruggono gli enti, sono le figure emergenti e solidali.
Qui Severino concorda con Heidegger nel ritenere che alla base del nichilismo dell’Occidente c’è la volontà di potenza, ma non è d’accordo sul modo con cui la volontà di potenza realizza la sua opera nientificante.
Per Heidegger, infatti, la volontà di potenza è la volontà di controllo e di dominio sull’ente, che oggi domina come “tecnica” e che in passato ha dominato come “ontologia”, “teologia”, “ragione matematica”. Per conseguire il suo intento, che è quello di assicurarsi l’essere dell’ente, la volontà di potenza lega indissolubilmente l’uno all’altro, risolve l’uno nell’altro e, così facendo, oblia la differenza e quindi il senso dell’essere, che non è l’ente, ma ciò che, in occasione dell’apparire dell’ente, “si sottrae”, “si rifiuta”. Una volta risolto nell’ente, dell’essere “ne è niente”. Di qui il nichilismo che sostanzia la volontà di potenza e il mondo occidentale da essa espresso.
Per Severino, invece, il tentativo di assicurazione dell’ente, in cui si esprime l’opera della volontà di potenza, è fondato proprio sull’accettazione originaria di quella separazione assoluta dell’ente dall’essere, dell’ente dal suo “è” che, nella riflessione heideggeriana, viene invece qualificata come “verità dell’essere”, come “differenza ontologica”, come “problema dell’essere”, come “salvaguardia della precarietà dell’ente”.
Solo pensando l’ente come precario, solo separandolo dall’essere, si può pensare di manipolarlo, e, più in generale, di offrirlo alla creazione di Dio e alla produzione dell’uomo, perché, là dove l’ente fosse pensato come indissolubilmente congiunto all’essere, varrebbe per l’ente il principio di Parmenide: “l’essere è, il nulla non è”. Se il pensiero si attenesse al principio di Parmenide esteso all’ente, nel nulla vedrebbe precipitare non già l’ente, ma i tentativi della volontà che se ne vuole assicurare il possesso, mascherando se stessa con i nomi più venerabili della tradizione occidentale.
Tali sono gli “Immutabili” a cui l’Occidente è ricorso per assicurare l’ente dalla possibile rapina del nulla. Dal Dio della tradizione giudaico-cristiana all’assoluto dell’immanentismo moderno, dalle leggi eterne della natura all’ordine del diritto naturale, dai valori di produzione dell’economia capitalistica alla società comunista come sbocco della conflittualità umana, dalla razionalità dialettica della storia alla razionalità scientifica della tecnica, l’Occidente non ha mai cessato, in tutti i luoghi in cui la sua cultura si è espressa, di anticipare un Immutabile in grado di predeterminare il senso di tutto ciò che poteva sopraggiungere. Se il nichilismo è la sorte che attende ogni ente immerso nella corrente del divenire, il senso di ogni ente è però salvaguardato dall’Immutabile che, sottratto al divenire, presiede il sopraggiungere e il congedarsi di ogni evento.
Ma per Severino questa è l’estrema illusione degli “abitatori del tempo”,5 i quali sono persuasi di salvarsi dal nichilismo, aggrappandosi a un Immutabile che contrappongono ad altri Immutabili, in quella disputa tra fedi opposte che la storia di ogni giorno testimonia. Così non solo la contesa avviene a un livello inessenziale, ma mobile è anche il terreno su cui si contende e su cui si vorrebbe edificare l’eterna immutabilità del proprio Immutabile.
La tesi di Severino sembra confortata dall’esperienza quotidiana che, per confusa e contraddittoria che sia, una cosa incontrovertibilmente segnala: la caduta degli dèi, di tutti gli dèi. Ma non è su questo che poggia il pensiero di Severino. Se le sue considerazioni nascessero da una fenomenologia del nostro tempo, esse avrebbero il valore di tutte le considerazioni che possono fare “gli abitatori del tempo”, persuasi del divenire delle cose, del loro inevitabile risolversi nel nulla.
Il tramonto degli Immutabili, la Götterdämmerung per dirla con Nietzsche, ovvero la caduta degli dèi, il crollo delle unificazioni che l’Occidente ha via via prodotto per stabilizzare il processo storico, non sono un “fatto” che anche una distratta analisi sociologica può rilevare, ma sono l’evento “inevitabile” che attende gli abitatori dell’Occidente, dal giorno che hanno pensato l’essere come divenire, come storia, come tempo.
Gli “Immutabili”, che sono nati all’interno di questa convinzione per rintracciare il senso del divenire, della storia e del tempo, non possono che contraddire, in quanto “eterni”, il divenire, la storia, il tempo, che quindi si incaricano di distruggerli. Una volta dischiuso il divenire, non c’è più spazio per l’Immutabile, e la legge del divenire che identifica l’ente con il niente non può che nientificare ogni tentativo che, accanto al divenire, vuol far convivere l’eterno.
La testimone più rigorosa, anche se inconsapevole, di questa impossibilità è la scienza moderna che nella sua espressione tecnica oggi domina il mondo al di là e al di sopra di ogni ideologia. L’incontrastata capacità di dominio della scienza risiede infatti nel suo rigoroso rifiuto di ogni Immutabile, che consente alle sue anticipazioni, solo ipotetiche, quell’assoluta flessibilità all’evento che solo un discorso ipotetico, e quindi sempre disposto a rinunciare a se stesso, dimostra di possedere.6
Dopo la pre-visione teologica, dopo quella naturalistica, dopo quella sociologica, sia nella versione capitalista sia in quella socialista, la previsione scientifica è la forma più adeguata e più coerente all’ontologia greca, nata dalla convinzione che l’ente sorge dal niente e nel niente ritorna, in quella forma che, da Platone in poi, l’Occidente ha conosciuto come verità del divenire.
La scienza è la verità del divenire. A questo punto resta da vedere se il divenire è una verità, se è vero cioè quello che “gli abitatori del tempo” sono quotidianamente convinti di vedere quando, di fronte all’apparire e allo sparire delle cose, decidono che prima dell’apparire le cose sono niente e dopo il loro apparire tornano nel niente.
Questa convinzione è per Severino una persuasione, non una verità. Di questa persuasione si alimenta la prassi che non potrebbe agire sulle cose, produrle e distruggerle, se non abitasse quel niente che precede e segue la loro comparsa. La volontà di potenza sarebbe impossibile senza questa persuasione che, nata in Grecia, all’alba del pensiero occidentale, percorre la nostra storia sotto la forma dell’ovvietà e dell’evidenza.
Tornare all’origine della storia occidentale non è una scelta dettata dal gusto arcaizzante di chi non ha fiducia nel suo tempo, ma dalla consapevolezza che non si giunge al cuore dei problemi se si evita di controllare quell’impianto categoriale da cui i problemi si generano, qualunque poi sia l’aspetto con cui si offrono in quel gioco di simulazione dove l’identico viene affidato alla finzione della contrapposizione degli opposti. Guerra simulata dei contenuti nell’identità della forma. È di questa forma che si occupa Severino, di quel modo platonico di pensare l’ente come niente, rispetto a cui tutto, per diverso e opposto che sia, è inevitabile conseguenza.
Di qui la necessità che l’Occidente divenga consapevole delle proprie condizioni di pensabilità, ossia delle modalità con cui è abituato a pensare. Queste modalità sono greche, per cui “arcaizzante” non è il pensiero di Severino che evidenzia nel mondo greco le modalità occidentali di pensare, ma è l’Occidente che, inconsapevolmente e nei modi più variegati, continua a reiterare quell’antico errore che, pensando l’ente come ni-ente, lo pensa come “producibile”, “distruggibile”, “edificabile”, “realizzabile”, “accrescibile”.
Qui si annida l’essenza della volontà di potenza, che non potrebbe trovare espressione se non fosse ospitata da quella visione del mondo che i Greci hanno inaugurato quando hanno pensato l’azione come forza consapevole che conduce le cose nell’essere e nel niente. E qui è anche la radice dell’antropologia occidentale che non può abdicare alla “volontà di potenza” con la “buona volontà”, perché sia la buona, sia la cattiva volontà hanno le loro radici nella persuasione che le cose siano “producibili” e “distruggibili”, quindi che l’ente sia niente. Le differenze vengono dopo. Per questo Severino può dire:
La “buona volontà” dell’“io” che vuole “mettere in pratica” la verità o agire conformemente a essa è soltanto una maschera della volontà di potenza. Il destino della verità esclude che la verità sia qualcosa che possa essere “messo in pratica”: non perché la verità sia qualcosa di irreale, ma perché il “mettere in pratica” presuppone quella dominabilità degli enti che è appunto ciò che la verità nega. [...] Ma allora che cosa devo fare io? Questa domanda presuppone che l’“io” non sia un errore: è una domanda fatta dall’errore. E a domande errate è impossibile dare vere risposte.7
Con ciò Severino non dà un contributo alla “distruzione del soggetto” che è uno dei temi centrali della cultura contemporanea, perché:
Da un lato il “soggetto” è messo in ombra o scavalcato da “apparati”, “istituzioni”, “strutture” ritenute più idonee alla dominazione della terra; dall’altro lato al soggetto non si assegna alcun sostituto perché si arretra al puro “lasciar essere” il divenire, con la convinzione di aver con ciò esorcizzato la volontà di potenza, che nel primo di questi due lati raggiunge invece il suo culmine. [...] L’“apparato” (“istituzione”, “struttura”) non sostituisce l’“io” in quanto “principio d’azione”, ma è il modo dominante e decisivo in cui nel nostro tempo si costituisce il “principio d’azione”. L’“apparato” accantona soltanto l’“io” che crede di poter dominare indipendentemente dall’“apparato” (e cioè dalla tecnica). Non dunque una “distruzione”, ma il potenziamento estremo del “soggetto”. Dall’altro lato, il puro “lasciar essere” il divenire del mondo, che vorrebbe liberarsi dal “soggetto” e dalla “volontà di potenza”, non si avvede di appartenere all’origine stessa della volontà di potenza e del “soggetto”. Anche qui, la negazione del “soggetto” nega semplicemente la conseguenza dell’origine del “soggetto”, non nega l’origine del “soggetto”.8
In questo modo Severino capovolge l’ordine delle domande, perché all’essenza della verità non appartiene la domanda: “Che cosa si deve fare?”, ma la domanda: “Che cosa è destinato ad accadere?”. Rispetto all’accadere, scrive Severino:
Il “volere” è il “volersi del destino”. Ma il destino è l’essenza non sorta e non tramontabile del mortale, il fondo che consente e sorregge lo stesso accadimento della volontà di isolare la terra dal destino, e che quindi consente e sorregge lo stesso accadimento dell’“io” e dei “popoli”; la verità è l’“inconscio” dell’errore. L’apparire del destino della verità non pone quindi la “volontà” di fronte a un compito che essa può assolvere o lasciare ineseguito: l’apparire del destino è la stessa “volontà” che “vuole” il destino. Domandare che cosa è destinato ad accadere significa dunque domandare che cosa è destinato a essere “voluto”: che cosa i “popoli”, al di sotto di ciò che essi credono di volere, sono in verità destinati a “volere”.9
Guardate dal destino le promesse della politica, dell’economia, della teologia, della scienza si aggrovigliano nella dimenticanza che l’uomo è già da sempre salvaguardato dalla verità, e che tutte le proposte di salvezza nascono solo perché in Occidente si è dimenticato questo sguardo per abitare il sogno del mondo, dove appaiono mali da redimere, beni da raggiungere, mete da conquistare, per effetto di quell’illusione della volontà che crede che l’essere sia ancora da fare.
E così, nel tentativo di ot-tenere, di tenere tra le mani, strappando dal contesto del Tutto, ciò che si vuole, la volontà strappa gli uomini dalla gioia in cui già si trovano, per proporre loro quelle mete che nascono e si costituiscono solo nel gioco illusorio creato dalla volontà. Ma, scrive Severino:
La volontà è isolamento. Nello sguardo del destino, la volontà non riesce a essere volontà: riesce a esserlo solo nel proprio sguardo isolante, cioè nel proprio sogno.10
Il profilo è alto e le obiezioni che nascono dagli “abitatori del tempo” non raggiungono e non contrastano la verità dell’essere indicata da Severino, perché sono figlie della persuasione, sono espressioni che non sporgono dal suo ambito e non la mettono in gioco. Per questo il pensiero di Severino è soggetto ai più svariati fraintendimenti, perché la lettura avviene perlopiù a livello di contenuti dove solitamente si concentrano le attese, mentre il discorso si muove prima dell’evento contenutistico, là dove la forma ha già in qualche modo giocato in anticipo tutti i contenuti prima del loro accadimento, prima della trama domanda e risposta dove solitamente si concentra la folla.
In questa folla incontriamo non tanto e non solo gli uomini della strada, ma gli uomini della religione, gli uomini della politica, gli uomini della scienza, gli uomini della filosofia a partire da quei primi filosofi, i Greci, che hanno inaugurato l’epistéme, ossia quel sapere che sta su da sé e, così stando, è persuaso di resistere al tracollo di tutte le cose in quel niente a cui il divenire le avvia.
Chi, come i sostenitori del “pensiero debole”,11 colloca Severino dalla parte dell’epistéme, e lo inquadra come ultimo difensore del “pensiero forte” non ha compreso che per Severino l’epistéme è il primo tentativo fallimentare di controllare l’ente con un sapere immutabile, allo scopo di arginare l’angoscia che nasce dall’irrompere imprevedibile dell’ente dal niente e nel niente.
Emanuele Severino è senz’altro un filosofo inattuale. Ma la sua inattualità è ben più radicale di quella prevista e inaugurata da Nietzsche, perché ciò che la filosofia di Severino disabita non è il tempo presente a favore di un tempo passato o di un tempo futuro, ma è il tempo come tale, dove dimora la persuasione che le cose divengano, ossia emergano dal niente e nel niente ritornino.
Smascherando questa persuasione, che accetta l’identità dell’ente con il niente, Severino smaschera il senso dell’intera civiltà occidentale, le cui espressioni, da quelle teologiche a quelle scientifiche, da quelle economiche a quelle politiche, non fanno che ribadire l’antica persuasione che ospita il più radicale dei nichilismi. Non si tratta infatti del nichilismo che attende la civiltà occidentale al suo tramonto, ma del nichilismo che la inaugura e la rende possibile.
Dall’enunciato parmenideo: “L’essere è, il nulla non è”, rivisitato da Severino, deve ripartire la filosofia che, se ancora vuol esserci, deve ancorarsi prima della differenza ontologica, evocata da Heidegger, dietro cui si nasconde l’ultima e senz’altro la più raffinata espressione del nichilismo. L’identità dell’essere e dell’ente, contrariamente a quanto dice Heidegger, è infatti l’ultima cosa ancora non pensata dalla filosofia, quindi è ciò che ancora può “sorprendere” e rigenerare la filosofia che, come ci ricordano Platone e Aristotele, proprio nella meraviglia, ha avuto le sue lontane origini.
Il futuro da venire non è nel recupero della differenza ontologica, perché tutto ciò è già fatto da tempo. I veri progetti appartengono a chi non ha separato l’essere dall’ente. Ogni altro spazio è già consumato e compreso nel “riso di Zarathustra”, anche l’heideggeriana “verità dell’essere”.
Proseguire, a questo punto, è arduo. Ma, scrive Severino, se “l’alienazione della verità è così profonda che, ormai, le parole dell’alienazione possono suonare identiche alle parole in cui resta testimoniata la verità”,12 allora è doveroso conoscere sino in fondo il linguaggio dell’alienazione, per non soccombere al suo fascino e rimanerne così catturati.
1 Parmenide, fr. B 6.
2 E. Severino, Il punto di vista comune alle relazioni (1967), in Essenza del nichilismo (1972), Adelphi, Milano 1982, p. 137.
3 Id., Sul significato della “morte di Dio” (1969), in Essenza del nichilismo, cit., p. 253.
4 Cfr. il capitolo 6: “Heidegger: la differenza ontologica e il passo indietro”.
5 E. Severino, Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma 1978.
6 Si veda a questo proposito: Id., Téchne. Le radici della violenza, Rusconi, Milano 1979; e Il destino della tecnica, Rizzoli, Miano 1998.
7 Id., Prefazione (1982) a Studi di filosofia della prassi (1962), Adelphi, Milano 1984, p. 30.
8 Ivi, p. 31.
9 Ivi, p. 32.
10 E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 581.
11 G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983.
12 E. Severino, Presentazione a U. Regina, Heidegger. Dal nichilismo alla dignità dell’uomo, Vita e Pensiero, Milano 1970, p. XIII.