17.

La mediazione storiografica come mediazione cifrale

La filosofia ha bisogno della sua storia. Il pensiero presente si ritrova nel suo passato. Il modo in cui esso si riferisce al passato è notificato dalla sua stessa essenza.

K. JASPERS, I grandi filosofi (1957), p. 115.

Partendo dalla consapevolezza della “situazione spirituale del nostro tempo”,1 l’impegno filosofico di Jaspers si esprime come impegno storico volto a recuperare, nei tempi in cui si espresse, il senso dell’essere che si è sottratto alla comprensione del nostro tempo:

Noi attingiamo forza dalle fonti storiche e vorremmo farci eco della profondità di ciò che una volta venne pensato, onde agevolarne l’appropriazione. Vorremmo fondarci originariamente sulla verità eterna e ascoltare ogni realtà il cui linguaggio ci porti a un salto. Vorremmo partecipare al passaggio nel mondo nuovo, ancora sconosciuto, che si sta rapidamente avvicinando – uccelli solitari fra quelli che volano verso la nostra epoca, gli esploratori, i cacciatori. Nel crepuscolo del nostro tempo, ci troviamo infatti sulla via del tramonto della filosofia europea e all’aurora della filosofia mondiale.2

Finché non sorge la nuova metafisica, che sia “nuova” nel senso di essere veramente “meta-fisica”, cioè cura dell’ulteriorità dell’essere e non ontologia o mera sistemazione degli enti, la filosofia non può esprimersi se non nella ricomprensione storiografica, dove alla risposta subentra la domanda, alla parola l’ascolto. Si tratta di ascoltare la verità espressa dai grandi filosofi, che non risiede in ciò che hanno detto, ma nella trascendenza che si lascia cogliere attraverso ciò che hanno detto. Grandi sono, per Jaspers, quei filosofi che, sotto le apparenze del differente, dicono lo stesso (das Selbst):

Essi stanno nel tempo al di là del tempo. Ognuno, anche il più grande, ha certo il suo posto storico e porta il suo rivestimento storico, ma il contrassegno della sua grandezza è che egli non appare legato a questi rivestimenti storici, ma assume un carattere sovrastorico. Grande non è colui che coglie il suo tempo in pensieri, ma colui che tocca, con ciò, l’eterno. [...] Quando si rappresentano questi filosofi nella loro connessione si evidenzia un movimento nella “cosa stessa”.3

Se l’attenzione è per la stessa cosa da pensare, non esistono situazioni storiche o geografiche che possano condizionare accostamenti e richiami. L’ermeneutica jaspersiana non soffre di simili limitazioni. Se la storia è il diverso manifestarsi dell’identico, la cura del filosofo deve essere per l’identico, non per il diverso. L’unica cosa che si richiede è l’Einführung, che corrisponde all’homologheîn heideggeriano,4 ovvero quel sentire-con i filosofi del passato la parola dell’essere che esige con-senso.

Le differenti parole in cui si trova espresso il senso dell’essere sono cifre che conducono a quell’ulteriorità che è intraducibile nella logica del pensato, perché questa si esprime in termini oggettivi universalmente comunicabili. La mediazione storiografica, scrive Jaspers, lungi dall’allineare le parole dei filosofi come parti di un’unica verità complessiva”,5 si pone come mediazione cifrale che, intendendo la parola come cifra, ovvero come a un tempo lumeggiante e adombrante, custodisce la distanza tra ciò che è direttamente detto e ciò che dal detto è a un tempo adombrato. Nella cura di questa distanza è mantenuta l’essenza della metafisica, come consapevolezza della povertà dell’uomo che non comprende (umgreift) l’onnicomprensività dell’essere (Umgreifende).

La metafisica, che si annuncia “nel crepuscolo del nostro tempo come tramonto della filosofia europea e aurora della filosofia mondiale”, nasce dalle ceneri della logica dell’Occidente, che ha preteso di pensare l’essere in concetti, onde poterlo ordinare nei propri sistemi e significati. Da questi era bandita la contraddizione e quindi la grandezza della filosofia che si lascia cogliere proprio là dove produce le massime contraddizioni, rivelando, nella tensione logica, l’impossibilità di concludere a una teoria finita che è negazione della trascendenza.

La tensione appartiene al filosofare, non all’essere a cui il filosofare si applica in modo infinitamente inadeguato. L’antinomico è, al limite della filosofia, come annuncio della trascendenza dell’essere. Filosofare non significa conciliare le antinomie, ma trascendere attraverso ogni antinomicità creata dalla filosofia a testimonianza dell’ulteriorità dell’essere che annunciandosi si sottrae. Lungo questa via il concetto deve cedere il posto alla cifra, la pretesa di comprensione alla consapevolezza dell’incomprensibile.

Sono per Jaspers esempi di cifralità: il mito di Platone che esprime l’impotenza del linguaggio logico e che, velando, lascia intravedere, senza distruggerlo, il mistero dell’inafferrabilità dell’essere; l’Uno di Plotino, che è inafferrabile e trascendente ogni umano pensiero costretto nella scissione di soggetto e oggetto; le dimostrazioni logiche della Scolastica che, come si può constatare in Anselmo, già presuppongono quel Dio che devono dimostrare. Il carattere tautologico del loro argomentare esprime il non-senso contenuto nella pretesa di conoscere Dio.

Così è di Cartesio, che assesta la filosofia nella scienza e, lungi dal crearne l’inquietudine con il dubbio, la tranquillizza con il metodo matematico; ma il circolo vizioso attende questa filosofia alle soglie della trascendenza. Il circolo non deve essere eliminato come vorrebbe la logica corrente, ma deve rimanere come vuole la filosofia, che ha cura dei suoi circoli quando deve esprimere la verità dell’inoltrepassabilità e dell’inafferrabilità dell’essere.

La scrittura cifrata trova le sue migliori espressioni in Kant, la cui filosofia, dopo la liquidazione della psicologia, della cosmologia e della teologia razionale, non ha più alcun oggetto all’infuori dell’oggettocifra che è poi il noumeno inoggettivabile. Con Kant la filosofia comincia dove la logica scientifica incontra il limite che è tale anche per la filosofia, ma questa, a differenza della scienza, lo mantiene come indicazione dell’al di là, di cui salvaguarda la possibilità custodita nelle antinomie delle idee che non sono oggetti per noi. La stessa logica cifrata anima la ragion pratica, che non si fonda sugli imperativi ipotetici condizionati da buone ragioni, ma sull’imperativo categorico, che è senza ragione perché è incondizionato, cioè cifra.

Kierkegaard trae dai limiti kantiani l’amore per il paradosso, per l’espressione indiretta, intesa come forma di verità che si esprime negli pseudonimi, nell’ironia, nell’assurdo per la logica del mondo; infine Nietzsche che, dall’impossibilità di risolvere i problemi ultimi, ha tratto una gioia tragica, auspicando la rinascita del mito contro lo spirito analitico e razionalistico della filosofia occidentale.

Il senso di queste cifre è chiaro: quando cerco di raggiungere la trascendenza non posso mai considerarla come un oggetto. Davanti alla fugacità della sua apparizione nel mondo divenuto cifra naufrago, perché la trascendenza arresta ogni pensiero che si rivolge a essa direttamente. Il naufragio (Scheitern) attende ogni tentativo prevaricante dell’uomo che volesse, penetrando, abbracciare la totalità dell’essere.

La filosofia, allora, è fedele al proprio compito non quando si pone, alla maniera hegeliana, come detentrice della verità totale, ma quando avverte nella negatività del cercare, incapace di pervenire a soluzioni ultime, l’incommensurabilità del cercato, e nella rottura (Durchbruch) di ogni orizzonte l’inafferrabilità dell’essere. Quest’ultimo, sottraendosi a ogni sapere, definisce il limite di ogni esistenza, per la quale ogni ascesa (Aufstieg) è caduta (Abfall), ogni sfida (Trotz) è abbandono (Hingabe), ogni chiarezza razionale che presiede la norma del giorno (das Gesetz des Tages) è oscura fede che si appassiona alla notte (Leidenschaft zur Nacht) che trasfigura gli oggetti del mondo in cifre enigmatiche di ciò che sta oltre.

Non ci fosse la filosofia a tutelare questo limite, l’uomo intenderebbe se stesso come la divinità, e il mondo, da lui scientificamente e tecnicamente dominato, come l’assoluto. Nella difesa di questo limite e nell’indicazione dei pericoli connessi al suo oltrepassamento, Jaspers ha profuso tutto il suo impegno filosofico e storiografico. Filosofare senza i filosofi significa infatti sottrarre alla verità il terreno storico della sua manifestazione. Questa non va colta in ciò che è felicemente assestato dalla logica, ma in ciò che è dissestato dalla strapotenza dell’essere, come intesero i filosofi a noi lontani nel tempo (i filosofi del passato) e nello spazio (i filosofi dell’Oriente).

Ascoltare la loro voce e intenderla significa acquisire quella chiave di lettura che, sconvolgendo il significato della filosofia dell’Occidente nei termini in cui è abitualmente accolto, dispone al suo recupero, in vista della rinascita del senso metafisico, di cui l’epoca occidentale, nonostante le numerose professioni equivocamente affermatesi nel corso della sua storia, è tuttora carente.

1 K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit (1931); tr. it. La situazione spirituale del tempo, Jouvence, Roma 1982.

2 Id., Mein Weg zur Philosophie (1951-1958); tr. it. Il mio cammino verso la filosofia, in Verità e verifica. Filosofare per la prassi, Morcelliana, Brescia 1986, pp. 21-22.

3 Id., Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, pp. 135, 141.

4 Cfr. il capitolo 11: “Il pensiero come lógos”.

5 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 319.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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