68.
Nietzsche e la decostruzione della ragione
Come è venuta al mondo la ragione? Come è giusto che arrivasse, in un modo irrazionale, attraverso il caso. Si dovrà indovinare questo caso, come un enigma.
F. NIETZSCHE, Aurora (1881-1887), fr. 123.
All’ascesi di Schopenhauer Nietzsche rivolge la stessa accusa di impotenza sul mondo che Schopenhauer aveva rivolto all’etica di Kant. La critica non toglie nulla all’“educazione” schopenhaueriana, che ha condotto alla contemplazione della contraddizione e del conflitto, perché l’educazione è solo inizio, non compimento. Il passo successivo sarà quello di vivere la verità della contraddizione che Nietzsche così descrive:
Due impulsi contrari, che tendono in direzioni opposte, sono qui costretti, per così dire, a procedere sotto un solo giogo. L’impulso che vuole la conoscenza è costretto senza posa ad abbandonare il terreno su cui vive l’uomo e ad avventurarsi nell’incertezza, mentre l’impulso che vuole la vita, si vede costretto a cercare senza posa, a tentoni, un nuovo luogo abbastanza sicuro in cui stabilirsi. [...] Quella lotta tra il vivere e il conoscere diventa tanto più violenta – e quel procedere sotto un solo giogo diventa tanto più strano – quanto più possenti sono i due impulsi, cioè quanto più piena e fiorente è la vita, e quanto più insaziabile, d’altro canto, è il conoscere, che si spinge con più forte desiderio verso tutte le avventure.1
Schopenhauer, l’“educatore (Erzieher)”,2 ha “condotto fuori” dall’inganno prodotto dall’apparente positività della ragione. La libertà raggiunta è però una libertà che non vuole, mentre l’autentica libertà, scrive Nietzsche: “preferisce volere il nulla piuttosto che non volere”.3
La prospettiva nichilista che accompagna l’analisi nietzscheana della libertà non è dettata dall’ipotesi che sia illusorio il fare che essa permette, ma dalla coscienza che il fare non dipende dalla libertà, ma dalla necessità inderogabile del volere da cui non ci si può liberare. Libertà e volontà non si compongono come vuole la metafisica della ragione, ma si oppongono in modo così radicale che, per liberarsi della volontà, non resta che l’ascesi del non-volere (Schopenhauer) o l’accettazione incondizionata della necessità del proprio destino che libera dalle mistificazioni della libertà. Dal riconoscimento della necessità del volere nasce la “tragedia”.
L’Occidente, che ha tentato di superarla con la forza della ragione, non ha fatto altro che ribadirne l’ineluttabilità. Per quanto abbia tentato di mistificarla con il nome di Dio e con quello dei supremi valori, l’Occidente è venuto in chiaro con quella volontà di potenza che sta alla base della sua storia bimillenaria e che ha animato e sostanziato ogni epoca del suo tempo. Se l’ascesi schopenhaueriana liberava dal tempo, la volontà di potenza riconosciuta da Nietzsche vi riconduce come a ciò che ripete eternamente se stesso. Nell’eterno ritorno dell’identico ogni forma di libertà è definitivamente superata. Per questo Nietzsche può scrivere:
Stemma della necessità!
Dell’essere costellazione suprema
che nessun desiderio raggiunge,
che nessun no contamina,
eterno sì dell’essere,
eternamente io sono il tuo sì.4
Ma c’è di più, l’eterno ritorno non libera dalla contraddizione come l’ascesi di Schopenhauer, non concilia come la dialettica di Hegel, non consola, non spera, non accorda, semplicemente ribadisce. Il conflitto, la contraddizione non sono parentesi provvisorie superate dall’armonia della ragione. Il conflitto è degno di ripetersi. Questa è la parola della tragedia. Questo dice Dionisio.
La sintesi della ragione che tutto armonizza in maniera apollinea è l’ultima espressione dell’impotenza della metafisica (Wille zur Ohnmacht) che pone ideali smentiti dalla potenza dell’effettiva realtà (Wille zur Macht). Se infatti la sintesi fosse reale, le strutture razionali sarebbero oziose, mentre il loro sforzo di conciliazione, la loro pre-potenza denunciano l’irrealtà della sintesi supposta, e l’inesistenza della presunta armonia. C’è potenza perché non c’è sintesi, c’è volontà di potenza perché non esiste naturale conciliazione, l’una e l’altra si pongono perché esistono avversari che né i seguaci del dovere (sollen) né l’educazione alla rinuncia (Entsagung) riescono a conciliare.
Il trionfo della ragione, elaborato dalla filosofia hegeliana, trova il suo rigoroso ridimensionamento nel pensiero di Nietzsche che riconduce la mediazione razionale e la sintesi dialettica tra quegli ideali non reali in cui già Hegel aveva relegato il “dovere (sollen)” kantiano. Mediazione e sintesi si costituiscono in quanto c’è una realtà antitetica da comporre, in quanto l’esserci non è in pace, ma in conflitto e in contraddizione. Ogni sintesi logica, operata dalla ragione nel tentativo di comporre i fenomeni in determinate categorie, è volontà di potenza che vuole la riduzione degli enti nello schema prestabilito.
Individuata come forma della volontà di potenza, la ragione butta la maschera che le consentiva di apparire perfettamente conciliata con il reale. Infatti, in quanto la sintesi da essa voluta e realizzata è al di là di ogni antitesi reale, la mediazione che offre non si sottrae a quel dovere (sollen) a cui l’essere è da ricondurre. In questo modo Nietzsche liquida ogni mediazione e conciliazione (Versöhnung) dialettica, tentata dalla ragione hegeliana.
La costrizione sintetica della mediazione hegeliana si ripropone nella pro-vocazione della scienza e della tecnica. Il rapporto di causa ed effetto ivi operante è tale solo in base all’idea di un’armonia naturale che consente di ricondurre a unità la molteplicità fenomenica. L’unità così conseguita consente all’intersoggettività di intervenire nel mondo nei termini in cui questo è stato compreso, sì da poterlo modificare a proprio vantaggio. La comprensione scientifica del mondo è volontà di potenza, non verità. Qui trova conferma l’intuizione baconiana che dice: “La scienza coincide con la potenza umana”,5 a cui si aggiunge la considerazione nietzscheana:
La verità è quel genere di errore senza di cui un determinato genere di esseri viventi non potrebbe vivere. Alla fine decide il valore della vita.6
Infatti a determinare il senso delle cose non è il loro incondizionato apparire, ma il loro comparire nello schema precostituito in funzione dell’esercizio del dominio. Per rendercene conto è sufficiente prendere in esame quello strumento indispensabile alla conoscenza razionale che è la “logica”, la quale nasce come mezzo in vista della sua utilità per la vita, e non come mezzo per raggiungere la verità.7 Ne è prova, scrive Nietzsche, il fatto che:
La logica è legata a questa condizione: supporre che si diano casi identici. Ed effettivamente perché si pensi e si concluda logicamente, bisogna innanzitutto che si finga questa condizione. Ciò significa che la volontà di verità logica può attuarsi solo dopo che si sia proceduto a falsificare radicalmente l’accadere. Donde risulta che vige qui un istinto capace di tutte e due le cose, anzitutto di falsificare e poi di svolgere un certo punto di vista. La logica non proviene dalla volontà di verità.8
Senza la supposizione che si diano casi identici (supposizione che si regge sulla falsificazione del reale) sarebbe impossibile formulare giudizi, perché il “giudizio” o “proposizione” è enunciabile solo comparando due casi in cui si scorge un’uguaglianza. Se però quest’uguaglianza non è tanto rintracciabile nel reale quanto nella volontà della logica di coglierla, allora, scrive Nietzsche:
La proposizione non contiene alcun criterio di verità, ma un imperativo rivolto a ciò che deve valere come vero. [...] A questo punto la logica e il principio di non contraddizione che la governa sono un imperativo non per conoscere il vero, ma per porre e ordinare un mondo che deve essere vero per noi. [...] Il divieto concettuale di contraddizione, infatti, proviene dal credere che noi possiamo formare concetti, che un concetto non solo designi, ma anche afferri il vero di una cosa. In realtà la logica (come la geometria e l’aritmetica) vale solo per verità fittizie, che sono state da noi create. La logica è il tentativo di comprendere, o meglio di rendere per noi formulabile, calcolabile, secondo uno schema di essere da noi posto, il mondo reale.9
La logica, quindi, interpreta la realtà secondo uno schema da noi posto, creduto e tenuto per vero. La sua funzione è strumentale al dominio del mondo, ma non ha nessuna parentela con la verità che essa presume di cogliere. Infatti, scrive ancora Nietzsche:
La logica ha senso come facilitazione, come mezzo d’espressione, non come verità. In seguito ebbe l’effetto della verità.10
La sua ideazione è stata utile per sottrarsi all’illeggibilità del mondo che non ne avrebbe consentito il dominio. Ma allora la sua genesi è da ricercarsi nel dominio del caos delle rappresentazioni, senza di cui l’uomo non avrebbe potuto orientarsi nel mondo, quindi nella volontà di potenza, non nell’anelito alla verità. Sparse nei vari frammenti postumi sono le tappe che conducono Nietzsche a queste conclusioni:
Sull’origine della logica: caos originario delle rappresentazioni. Le rappresentazioni compatibili tra di loro rimasero; la maggioranza andò in rovina – e va in rovina.11
A compiere opera di selezione nel profluvio degli stimoli a cui il corpo umano è esposto è la percezione che non subisce passivamente un ordine. Infatti, scrive Nietzsche:
Le percezioni dei sensi proiettate all’“esterno”: “interno” ed “esterno” – comanda qui il corpo? La stessa forza identificatrice e ordinatrice che domina nell’idioplasma, domina anche nell’incorporazione del mondo esterno; le percezioni dei nostri sensi sono già il risultato di questa assimilazione e identificazione in relazione a tutto il passato che è in noi: esse non seguono immediatamente all’“impressione”.12
Dalla percezione al pensiero si giunge attraverso l’immaginazione e il linguaggio:
Dapprima le immagini – spiegare come le immagini sorgono nello spirito. Poi le parole, applicate alle immagini. Da ultimo i concetti, possibili solo se ci sono parole – riassumere molte immagini in una cosa che non si può vedere ma che si può udire (la parola). Quella piccola emozione che sorge con la “parola”, ossia con la visione delle immagini simili per cui esiste una parola sola – questa debole emozione è il tratto comune, la base del concetto.13
I concetti hanno nel dominio delle cose la loro genesi e la loro destinazione:
L’intero apparato della conoscenza è un apparato per astrarre e semplificare – non orientato verso la conoscenza, ma verso il dominio delle cose.14
Nel padroneggiare le cose utili all’esistenza, conoscenza e coscienza rivelano la loro radice biologica:
È improbabile che il nostro “conoscere” possa andare al di là dello stretto necessario per la conservazione della vita. La morfologia ci mostra che i sensi e i nervi, nonché il cervello, si sviluppano proporzionalmente alla difficoltà di nutrirsi.15
E per quanto concerne la coscienza:
La coscienza: comincia in modo esteriore, come coordinamento e accesso alla coscienza delle “impressioni”; in origine è lontanissima dal centro biologico dell’individuo; ma è un processo che si approfondisce, si interiorizza, e si avvicina costantemente a quel centro.16
Le modalità sono così descritte:
Le nostre percezioni, quali noi le intendiamo: vale a dire la somma di tutte quelle percezioni, acquistar coscienza delle quali fu per noi, e per tutto il processo organico prima di noi, utile ed essenziale: ovviamente non tutte le percezioni in generale (ad esempio, non quelle elettriche). Ciò significa: noi abbiamo sensi solo per una scelta di percezioni – per quelle a cui dobbiamo essere adeguati per poterci conservare. La coscienza esiste nella misura in cui è utile. Non c’è dubbio, infatti, che tutte le percezioni di senso sono impregnate di giudizi di valore (utile e dannoso – quindi piacevole o spiacevole).17
Da ultimo l’articolazione del pensiero e le sue valutazioni attinenti la verità e la falsità di qualcosa, guardate dal punto di vista genealogico, rivelano nella vita e nella conservazione della vita la loro origine e la loro ultima destinazione:
Il giudizio di valore: “io credo che questo e quello sia così” come essenza della “verità”. Nei giudizi di valore si esprimono condizioni di conservazione e di crescita. Tutti i nostri organi e sensi conoscitivi si sono sviluppati soltanto in vista delle condizioni di conservazione e di crescita. La fiducia nella ragione e nelle sue categorie, nella dialettica, quindi l’attribuire valore alla logica, dimostra soltanto la loro utilità, provata dall’esperienza, per la vita, non la loro “verità”. Che debba esistere una massa di credenze; che sia concesso giudicare; che manchi il dubbio riguardo a tutti i valori essenziali: – è questo il presupposto di ogni essere vivente e della sua vita. Quindi è necessario che qualcosa debba essere tenuto per vero – ma non che qualcosa sia vero. “Il mondo vero e il mondo apparente” – questa antitesi viene da me ricondotta a rapporti di valore. Noi abbiamo proiettato le nostre condizioni di conservazione facendone dei predicati dell’essere in generale. Muovendo dalla necessità di esser stabili nella nostra fede per prosperare, abbiamo fatto sì che il mondo “vero” non sia un mondo che muta e diviene, ma un mondo che è.18
Siamo alla “verità”, ma, scrive Nietzsche:
Che cos’è la verità? inertia, l’ipotesi che ci soddisfa; minima spesa di forza mentale, ecc.19
Per Nietzsche, dunque, il pensiero è la forma più alta di esonero, da cui anche un giorno saremo esonerati se dovesse proseguire quell’automazione già verificatasi nell’evoluzione delle funzioni inferiori.20 Per questo, conclude Nietzsche:
La coscienza ha un ruolo di secondo piano, è quasi indifferente, superflua, forse destinata a sparire e a far posto a un completo automatismo.21
Cogliere nella volontà di potenza l’essenza di quanto finora è stato chiamato “razionale” significa liquidare l’idea di una sostanza del mondo e quella del suo Soggetto creatore da cui dedurre la catena causale. La sintesi da loro espressa è solo un mascheramento di quell’unica e vera sintesi che è quella posta in atto di volta in volta dalla volontà di potenza dell’uomo. L’uomo in questione non è l’uomo incluso nella pre-potenza della ragione, a cui non resta che “una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute”.22 Questo, infatti, è l’ultimo uomo che il dì feriale lavora e la domenica crede in Dio; che nel tempo libero organizzato si diverte con i circensi di massa per non venir divorato dall’orribile noia di una vita che non vuole più nulla, perché più nulla può volere, essendo già tutto pre-voluto.
L’ultimo uomo è l’estremo prodotto della metafisica che non osa il pensiero tragico secondo cui tutto è volontà di potenza, ma preferisce pensare che tutto è ordine razionale. Finché dura l’ultimo uomo dura la metafisica, dura la prepotenza della ragione, e per il singolo dura la costrizione ideale del dovere (sollen), la volontà d’impotenza (Wille zur Ohnmacht).
A differenza dell’ultimo uomo, il superuomo supera l’universalità ideale dell’uomo, espressa scientificamente dalla coscienza-ingenerale ed esistenzialmente dalla prepotenza della ragione. Egli non è oltre l’uomo perché più universale, ma perché supera l’astratta universalità dell’uomo e la sua prepotenza mediante l’esercizio di quella volontà di potenza che gli consente di de-situarsi da quella situazione di impotenza in cui è ridotto dalla prepotenza dall’idea astratta.
Il superuomo che così si afferma è inter-esse non inter-soggettività; come tale infrange la logica del sistema, la sua armonia prestabilita, perché ha riconosciuto che ogni espressione della ragione, in quanto universale e onnicomprensiva, è sempre razionalizzazione, quindi volontà di potenza. Il superuomo radicalizza questa volontà e, con essa, oltrepassa la “volontà logica” della ragione e del sistema che di volta in volta la ragione presiede.
Il sistema della ragione è volontà di potenza come comprensione e dominio del mondo, come potere che si esercita su uomini e cose, sotto la maschera del dovere e dell’ordine da realizzare in vista di determinati valori. Questi non valgono per sé, ma in quanto sono fatti valere dagli interessi del sistema, le cui valutazioni condizionano ogni successivo valutare. Bene è tutto ciò che favorisce la razionalizzazione del mondo, male è tutto ciò che la ostacola e la impedisce.
Andare “al di là del bene e del male”23 significa andare oltre la ragione (Ratio), perché si è riconosciuto nella razionalizzazione (Rationalisierung) la sua vera essenza. Dell’antico lógos la ratio conserva ancora il senso onnicomprensivo e totalizzante, ma solo perché la sua volontà di razionalizzazione non può tollerare che qualcosa sorga e si costituisca fuori del suo orizzonte, come sua possibile negazione. Il suo progetto di intervento e comprensione del mondo per essere effettuale deve essere totale, il suo potere per essere efficace deve elaborare le forme della volontà (Wille) fino a quelle della potenza (Macht).
Nell’elaborazione avviene il rovesciamento di tutti i valori (Umwertung), il cui “valore” non è immutabile ed eterno, ma è da ricondursi nell’economia espressa dalla forma storica della volontà di potenza. Volendo se stessa e nient’altro che se stessa, la volontà di potenza consuma tutti i sensi espressi dalla ragione per ogni cosa. Il non-senso (Un-sinn) a cui si perviene è tale solo per chi ancora vede le cose con la maschera della ragione, e ancora deve operare quel dis-velamento che dalla ragione conduce alla razionalizzazione, e da questa alla volontà di potenza che l’una e l’altra sostanzia.
Dis-velare è buttare la maschera, è respingere la finzione, è far opera di verità. Le sorti di quest’ultima sono affidate alla consumazione delle apparenze e delle espressioni semantiche che le significano, quindi a quell’assenza di significato che, a consumazione avvenuta, si dis-vela.
Il nostro tempo è tempo di consumazione e quindi di possibile disvelamento. Prima delle cose si consuma il valore che la metafisica della soggettività ha loro assegnato, e ciò avviene a opera dell’ultimo tentativo espresso dalla soggettività per meglio possedere e controllare le cose. La scienza e la tecnica, infatti, se da un lato offrono alla soggettività il più alto controllo delle cose mai finora raggiunto, dall’altro sono incapaci di sintesi. Ordinano e analizzano i fenomeni, ma dall’ordinamento e dall’analisi non sanno esprimere un senso. E così la direzione soggettivistica assegnata da Platone al tentativo sapienziale dell’uomo, scrive Nietzsche, naufraga miseramente. Infatti:
Una volta si credeva all’“anima”, come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale: si diceva, “io” è condizione, “penso” è predicato e condizionato – il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: “penso” condizione, “io” condizionato; “io” dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal pensiero stesso.24
Lo stesso concetto ritorna in un frammento postumo del 1885:
Ciò che mi divide nel modo più profondo dai metafisici è questo: non concedo loro che l’“io” sia ciò che pensa; al contrario considero l’io stesso una costruzione del pensiero, dello stesso valore di “materia”, “cosa”, “sostanza”, “individuo”, “scopo”, “numero”; quindi solo una finzione regolativa, col cui aiuto si introduce, si inventa, in un mondo del divenire, una specie di stabilità e quindi di “conoscibilità”. Il credere alla grammatica, al soggetto e oggetto grammaticale, ai verbi, ha soggiogato finora la metafisica; io insegno ad abiurare questa fede. È il pensiero che pone l’“io”, ma si è finora creduto, come crede il “popolo”, che nell’“io penso” ci fosse qualcosa di immediatamente certo e che questo “io” fosse la causa data del pensiero; secondo un’analogia con questa abbiamo “inteso” tutti gli altri rapporti causali. Per quanto consueta e indispensabile questa finzione possa essere, niente dimostra che la sua natura non sia fittizia. Qualcosa può essere condizione di vita e tuttavia falso.25
Impostata da Platone come definizione trascendentale dell’ambito della soggettività per la sistemazione scientifica dei fenomeni (sózein tà phainómena), la ricerca filosofica si è affermata nell’età moderna come ordinamento categoriale della soggettività per la sistemazione delle scienze. Questa almeno è l’intenzione espressa da Cartesio e da Kant, la cui ragione è palesemente volontà di aver ragione e quindi razionalizzazione.
La scienza e la tecnica rifiutarono il potere teleologico della ragione e la sua funzione sintetica che doveva presiedere e coordinare il sistema delle analisi scientifiche, ma non rinunciarono all’apriori matematico in cui la soggettività ebbe modo di mantenersi e conservarsi. In questo modo la soggettività e il suo ordine, il suo valore effettuale e vincolante, espunto dalla sintesi e purificato da ogni pretesa ideologica, si è consolidato nell’a-priori, al punto da non potersi più distinguere dal sistema che ha voluto realizzare, e che è suo fino in fondo, perché suoi sono i parametri di giudizio con cui, nel sistema, si interpretano tutte le cose. E in effetti, scrive Nietzsche:
Che cos’è “conoscere”? Il riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di familiare. Prima proposizione: ciò a cui siamo abituati non viene più da noi considerato un enigma, un problema. Smussamento del sentimento del nuovo e dello strano: tutto ciò che accade regolarmente non ci sembra più problematico. Perciò quello di “cercar la regola” è il primo istinto di chi conosce, mentre naturalmente per il fatto che si sia trovata la regola niente ancora è “conosciuto”! – Di qui la superstizione dei fisici: dove possono perseverare, cioè dove la regolarità dei fenomeni consente di applicare formule abbreviate, credono che si sia conosciuto. Sentono “sicurezza”, ma dietro questa sicurezza intellettuale sta l’acquietamento della paura: vogliono la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza.26
La cosa non appartiene più all’essere, ma alla posizione che la definisce in relazione al soggetto che la pone. La cosa è ciò che sta di contro (Gegen-stand), non ciò che sopraggiunge (Gegen-über) e, sopraggiungendo, sorprende. L’essere si ritira nell’egoità (Ichheit), il fondamento della cosa non è più nell’essere, ma è nella struttura dell’Anschauung o visione aprioristica della ragione che anticipatamente fissa sensi e significati. Questo fondamento, che la ragione scientifica e tecnica chiamano matematica, per Nietzsche è volontà di potenza.
Infatti se la matematica è posizione anticipata dell’ordine categoriale in cui assumere tutte le cose, senza distinzione alcuna per il loro senso e la loro qualità, se la matematica è legislazione (Gesetzgebung) e definizione (Eingrenzung), se è comprensione piena (Allumfassende), allora è dominio. Il dominio è il fondamento della ragione, la sua extrema ratio. La ragione e la sua logica trascendentale non si limitano più a vedere (ideîn) il mondo per comprenderlo, ma la comprensione è in funzione dell’uso e dell’impiego, che è tanto più completo quanto più è razionale.
La storia della ragione è la storia di questo itinerario che ha condotto dall’essere all’Io, dall’Io all’elaborazione delle forme dell’Io come forme della matematica, quindi alla loro strutturazione trascendentale, e infine al loro uso come fondamento non solo della visione (Platone), ma anche della comprensione-sussunzione del mondo. La soggettività ha preso il posto dell’essere, le cose sono in quanto appaiono al soggetto, il loro essere si risolve nel valore che a loro compete in quanto valutate da quell’Anschauung o visione che ordina, allinea categoricamente, pone e dispone, può.
Sotto l’apparente disinteresse della ragione che procede more mathematico, Nietzsche scopre quella volontà di potenza che anima la metafisica soggettivistica dell’Occidente dal tempo dell’idéa platonica al tempo della scienza e della tecnica. Così facendo, Nietzsche porta la ragione alla fine (zum Ende), perché scopre che fin dal suo sorgere, l’apparenza disinteressata della ragione era la maschera sotto cui si celava la realtà interessata della volontà.
Per questo Zarathustra non accetta l’invito della scimmia all’ingresso della città. Per passare oltre, egli vuole la città.27 In questo modo Zarathustra porta a compimento la potenza della volontà. Solo dopo il suo completo e manifesto dispiegamento sarà possibile “passare oltre”, senza lasciarsi ulteriormente ingannare dalle “apparenze”, che sono poi le cosiddette “esigenze della ragione”. Con esse, infatti, la potenza della volontà si maschera per rendersi universalmente accettabile.
1 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1875-1876; tr. it. Frammenti postumi 1875-1886, in Opere, Adelphi, Milano 1975, vol. IV, 1, p. 175.
2 Id., Unzeitgemässe Betrachtungen. Drittes Stück: Schopenhauer als Erzieher (1874); tr. it. Considerazioni inattuali, III, Schopenhauer come educatore, in Opere, cit., 1972, vol. III, 1.
3 Id., Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift (1887); tr. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 2, p. 299.
4 Id., Dionysos-Dithyramben (1882-1888); tr. it. Ditirambi di Dioniso, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 4, p. 61.
5 F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, I, 3, p. 552: “Scientia et potentia humana coincidunt, quia ignoratio causæ destituit effectum. Natura non nisi parendo vincitur, et quod in contemplatione instar causæ est, id in operatione instar regulæ est. (La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo a essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell’operazione pratica ha valore di regola)”.
6 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1884-1885; tr. it. Frammenti postumi 1884-1885, in Opere, cit., 1975, vol. VII, 3, fr. 34 (253), p. 182.
7 Su questa tema si veda il saggio di K. Galimberti, Nietzsche. Una guida, Feltrinelli, Milano 2000, capitolo I: “La volontà di potenza come conoscenza”.
8 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, cit., fr. 40 (13), pp. 319-320.
9 Id., Nachgelassene Fragmente 1887-1888; tr. it. Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, cit., 1971, vol. VIII, 2, fr. 9 (97), pp. 46-48.
10 Id., Nachgelassene Fragmente 1888-1889; tr. it. Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, cit., 1974, vol. VIII, 3, fr. 18 (913), p. 327.
11 Id., Nachgelassene Fragmente 1882-1884; tr. it. Frammenti postumi 1882-1884, in Opere, cit., 1986, vol. VII, 1, fr. 24 (5), p. 313.
12 Id., Nachgelassene Fragmente 1885-1887; tr. it. Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, cit., 1975, vol. VIII, 1, fr. 2 (92), p. 94.
13 Id., Nachgelassene Fragmente 1884; tr. it. Frammenti postumi 1884, in Opere, cit., 1976, vol. VII, 2, fr. 25 (168), pp. 49-50.
14 Ivi, fr. 26 (61), p. 149.
15 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, cit., fr. 36 (19), p. 237.
16 Id., Frammenti postumi 1885-1887, cit., fr. 7 (9), p. 281.
17 Ivi, fr. 2 (95), pp. 95-96.
18 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit., fr. 9 (38), pp. 14-15.
19 Id., Frammenti postumi 1885-1887, cit., fr. 2 (126), p. 112.
20 Questo motivo nietzscheano dell’“esonero” verrà tematizzato da A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940); tr. it. L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983. Per un commento all’opera di Gehlen si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 16: “Per una rifondazione della psicologia. Un modello: L’uomo di Arnold Gehlen”.
21 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., fr. 14 (144), p. 118.
22 Id., Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1973, vol. VI, 1, p. 12.
23 Id., Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (1886); tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, cit., 1972, vol. VI, 2.
24 Ivi, p. 60.
25 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, cit., fr. 35 (35), p. 203.
26 Id., Frammenti postumi 1885-1887, cit., fr. 5 (10), p. 177.
27 Id., Così parlò Zarathustra, cit., pp. 214-217.