14.
La filosofia come éros
Ogni interrogare essenziale della filosofia permane necessariamente inattuale. E questo sia perché la filosofia si spinge molto più avanti del suo presente attuale, sia perché essa ricongiunge il proprio presente al suo remoto e iniziale passato: in ogni caso la filosofia permane un genere di sapere che non solo non si lascia attualizzare ma, al contrario, sottopone alla propria misura il tempo.
M. HEIDEGGER, Introduzione alla filosofia (1935-1953), p. 20.
Philosophía è una parola greca. Occuparsi di filosofia è incamminarsi nel mondo greco che è mondo filosofico. Chiedere che cos’è la filosofia significa chiedere il senso della nostra storia iniziata nel mondo greco.
Come s’è visto, solo la lingua greca è lógos, il suo dire è nominare la cosa stessa. Le altre lingue, pur esprimendosi in forma logica, o proprio per questo, hanno smarrito il senso custodito dal lógos; il loro dire è nominare gli enti, nel senso di conoscerli, possederli, sistemarli, ordinarli, utilizzarli.
Tendere al lógos infrangendo le barriere logiche è éros. Animato da questo éros, il filosofo ha un’unica aspirazione: volgersi al lógos dove l’ente è raccolto nell’essere, corrispondergli nel senso dell’homologheîn, che, nel superamento dell’idía phrónesis, consente di parlare come parla il lógos.1
A questo punto chiedere che cos’è la filosofia non significa cercarne l’essenza o l’idea che la definisce, secondo quel procedimento a cui ci ha abituato la logica di Platone e di Aristotele, ma significa chiedere che cos’è lógos, che cos’è sophós, che cos’è èn pánta. A queste domande si può rispondere solo filosofando, ossia entrando in rapporto con i filosofi, dialogando con loro nel tentativo di cor-rispondere (ant-worten) all’essere che ci convoca. Nel corrispondere alla convocazione è l’essenza dell’uomo, in quanto e-sposto e quindi dis-posto all’essere; rifiutarsi è venir meno, non solo alla filosofia, ma all’essenza stessa dell’uomo.
La filosofia nasce dal páthos della meraviglia, che sorge quando ci si sottrae all’abituale considerazione dell’ente. Páthos significa “subire l’azione di”; filosofare è subire l’azione dell’essere. Ciò che desta meraviglia, infatti, non è l’essenza di questo o quell’ente, ma che in generale ci sia l’ente piuttosto che il nulla.2 Per questo la filosofia greca si raccoglie intorno alla domanda che cos’è l’ente in quanto ente, ovvero, in quanto “è”. L’epistéme theoretiké che ne nasce non è scienza teoretica come l’ha definita l’Occidente, ma è quell’essere esperto (epistámenos) a vedere (theoreîn) l’essere che trattiene l’ente dal niente.
Il domandare autentico che nasce dalla meraviglia non prevede di potersi trasformare in risposta. “Essere esperti a vedere” non significa aver esperito una volta per tutte l’essenza della verità, aver tolto definitivamente l’“a” privativa dell’ignoranza come nascondimento (léthe) del vero (a-létheia). Solo il senso comune (Alltagsverstand), che determina ogni abituale visione del mondo, crede che il sapere appartenga a colui che ha finito di imparare; in realtà sa autenticamente solo colui che deve imparare sempre di nuovo (immerwieder).
Per questo, dal punto di vista della sua incidenza nel mondo, la filosofia è un fallimento. Né essa può sperare qualcosa dal futuro, perché un’eventuale occupazione della mondanità da parte della filosofia si accompagnerebbe alla sua banalizzazione. Quando la filosofia comincia a costituirsi in lavoro di scuola è già tecnica ridotta a ruolo di scienza trasmissibile, oppure è moda indebitamente sfruttata per scopi di qualsiasi genere, a essa estranei, e piegata alle esigenze del momento. La filosofia non serve per la costituzione di una civilizzazione, nel senso di facilitare l’edificazione della cultura, di ordinare la totalità dell’ente in una visione sinottica, in un sistema, la filosofia non può essere neppure l’organizzazione ultima delle scienze, perché, scrive Heidegger:
L’essenza della filosofia non è di rendere le cose più facili e leggere, ma al contrario di renderle più difficili e pesanti. E questo, non a caso: infatti il suo modo di comunicare appare inconcepibile e addirittura pazzesco per il senso comune. Il compito autentico della filosofia consiste in realtà nell’appesantimento (Erschwerung) dell’esserci storico e, in ultima analisi, dell’essere stesso. L’appesantimento conferisce alle cose, all’ente, il loro peso (d’essere). E questo perché? Perché l’appesantimento costituisce una delle condizioni fondamentali, essenziali, per la nascita di tutto ciò che è grande: in primo luogo il destino di un popolo storico e delle sue opere. Destino però c’è solo là dove un vero sapere sulle cose domina l’esistenza. Le vie e le prospettive di un tale sapere sono aperte dalla filosofia.3
La filosofia certamente non è cosa comoda. Quando ci si vuole servire della filosofia per sistemare i problemi, allora questo sfruttamento in vista di risultati pratici intende la filosofia come un deposito, come uno scrigno costantemente disponibile per tesaurizzare quegli elementi che possono venire chiamati in causa quando se ne ha bisogno. Eppure nemmeno in questo senso la filosofia ha carattere strumentale, per cui, scrive Heidegger:
È quanto mai esatto e perfettamente giusto dire che “la filosofia non serve a niente”. L’errore è soltanto di credere che, con questo, ogni giudizio sulla filosofia sia concluso. In realtà resta ancora da fare una piccola aggiunta sotto forma di domanda: se cioè, posto che noi non possiamo farcene nulla, non sia piuttosto la filosofia che in ultima analisi è in grado di fare qualcosa di noi, se appena c’impegniamo in essa.4
In noi la filosofia genera l’inquietudine che spezza ogni sapere costituito e disponibile, ogni consorteria, ogni comunanza di idee, addirittura il calore della solidarietà umana che nasce dal “mettersi d’accordo”. La distanza infatti che separa il nostro sapere dal lógos, e che ci impedisce di essere noi stessi il lógos, genera quella perenne tensione, quel lógos platonico, quell’órexis aristotelica, quel “non ascoltate me, ma il lógos” che Eraclito rivolgeva a quanti, curiosi, gli avevano fatto visita per sapere di lui e della filosofia.
Questa tensione non è un difetto rispetto a un’ideale pienezza umana, ma è costitutiva dell’uomo, la cui essenza abita quella distanza che intercorre fra il sapere e la perenne possibilità di errare. In questa tensione è l’éros, un sentimento trascurato nei secoli dalla razionalità occidentale che, impegnata a pensare i prodotti del pensiero, ne ha perso di vista la natura amorosa, che si traduce in quel gravitare di tutto l’uomo sull’essere, quasi preso nella sua cattività.
In opposizione al pensiero come calcolo e produzione, che raccoglie intorno a sé la scienza e la tecnica, il pensiero come amore, che anima la filosofia, vede tradursi il proprio pensare (Denken) in un ringraziare (Danken) l’essere che senza fine (unendlich) si gratifica all’uomo. Nell’infinità del dono è custodita la perennità della filosofia.
1 Cfr. il capitolo 11: “Il pensiero come lógos”.
2 Cfr. il capitolo 4: “La domanda filosofica in Heidegger e Jaspers”.
3 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, pp. 22-23.
4 Ivi, pp. 23-24.