91.
L’uomo ascolta il linguaggio
L’uomo parla in quanto cor-risponde al linguaggio. Il corrispondere è ascoltare. L’ascoltare è possibile in quanto legato alla chiamata del dire originario da un vincolo di appartenenza.
M. HEIDEGGER, Il linguaggio (1950), p. 43.
Nel linguaggio, il rapporto che lega l’uomo all’essere è un rapporto “ermeneutico”, nel senso appena specificato del termine che dice “portare un messaggio, recare un annuncio”.1 L’uomo è in grado di raccogliere questo messaggio perché è in Bezug con l’essere, perché è Bezug dell’essere. La parola Bezug è qui assunta non nel senso generico di “relazione”, ma in quello più specifico di “acquisto”, come vuole la precisazione di Heidegger:
Noi parliamo di Bezug anche per significare il bisogno e la provvista (das Brauchen und Beibringen), l’acquisto delle merci occorrenti (das Beziehen von benötigten Wahren). Ora, se l’uomo sta nel rapporto ermeneutico ciò non significa che egli sia una merce. Anzi proprio all’opposto, la parola Bezug vuole indicare che l’uomo è usato, impiegato (gebraucht) in ciò che egli autenticamente è, e, proprio nella sua essenza, appartiene a un impiego (Brauch) che si rivolge a lui con autorità e a sé lo rivendica (ihn beansprucht).2
Nel linguaggio l’essere usa l’uomo come proprio messaggero nei due sensi inseparabili del verbo brauchen: lo usa perché ne ha bisogno. Infatti l’essere apre le aperture, dischiude i mondi attraverso l’uomo. Ciò non significa violare l’umanità dell’uomo, al contrario l’uomo è scelto dall’essere come proprio messaggero, perché non è ente intramondano, ma esserci, all’essere per essenza dischiuso. Per questo, scrive Heidegger:
Dell’“essere stesso” diciamo sempre troppo poco quando, dicendo l’“essere”, trascuriamo il suo presentarsi (anwesen) all’essere umano (Menschen-wesen), dando così a vedere di non comprendere che anche quest’ultimo è parte dell’“essere”. Ma anche dell’uomo diciamo sempre troppo poco quando, dicendo l’“essere” (non l’essere-uomo), poniamo l’uomo per se stesso e, dopo averlo così posto, lo mettiamo in relazione all’“essere”. Diciamo invece anche troppo se intendiamo l’essere come ciò che abbraccia in sé tutto e ci rappresentiamo l’uomo solo come un ente particolare fra gli altri (vegetali, animali), per poi mettere i due in relazione tra loro. Gia nell’essenza dell’uomo è contenuta costitutivamente la relazione a ciò che, proprio attraverso tale rapporto (Bezug), che è un rapportarsi nel senso di aver bisogno (brauchen), è determinato come “essere”, e quindi sottratto al suo preteso “essere in sé e per sé”.3
Che l’uomo sia usato dall’essere non significa che sia uno strumento paragonabile ad altri; infatti l’essere non può farne a meno né può sostituirlo con altri. L’essere ha bisogno dell’uomo perché l’essere è annuncio che ha nel pensiero e nel linguaggio dell’uomo la sua rispondenza. L’identità tra essere e pensiero, che, come ci ricorda Heidegger, si annuncia con Parmenide alle origini del pensiero occidentale,4 non appartiene all’essere, ma è piuttosto un’identità a cui l’essere stesso appartiene. Ciò non significa una limitazione o un impoverimento dell’essere, così come il venir “usato” dall’essere non significa un impoverimento dell’umanità dell’uomo.
L’essere sarebbe limitato e impoverito da questo suo “bisogno” di un rapporto necessario con l’uomo solo se fosse concepito, alla maniera della metafisica tradizionale, come la totalità dell’ente. In questo caso sarebbe impensabile che la totalità avesse bisogno di un ente particolare (l’uomo), per darsi. Ma siccome l’essere non è la totalità dell’ente, ma ciò che, presentando ogni ente, si sottrae, l’essere si annuncia nella presenza di ogni ente come altro, come differenza perennemente richiamata in quell’apertura o presenza a cui l’uomo è per essenza dischiuso.
Da questo punto di vista l’essere si identifica con la differenza pensata come tale di cui parla la seconda parte di Identität und Differenz,5 e l’uomo è uomo in quanto “è chiamato a custodire la differenza”,6 che non si lascia chiarire né in base alla presenza, né in base alla cosa presente, perché, scrive Heidegger:
È la differenza stessa che sviluppa la chiarezza, la radura luminosa entro cui la cosa presente come tale e la presenza si fanno distinguibili per l’uomo.7
Questo offrirsi dell’essere nella differenza e questo custodire la differenza da parte dell’uomo esprime quella cor-rispondenza tra uomo ed essere che è il luogo del linguaggio. Si tratta del linguaggio che non si enuncia in proposizioni (Satz), come quello metafisico che pensa l’essere allo stesso modo dell’ente, ma che, in accordo con il carattere e-ventuale dell’essere, segue la parola-guida (Leit-wort) in cui l’evento si annuncia, disponendo all’ascolto e provocando la risposta (Ant-wort).
Se l’uomo parla in quanto “ascolta il messaggio che lo svelamento della differenza gli assegna”,8 anche la struttura sintattica del discorso ermeneutico deve mutare profondamente. Non si tratta più di comporre frasi con soggetto e predicato, che presumono l’accettazione dello schema metafisico sostanza-accidente, perché simili frasi, grammaticalmente strutturate in modo “metafisico”, nel loro carattere definito, concludono ragionamenti, enunciano soluzioni, ma non restano fedeli al carattere eventuale dell’essere, e quindi alla forma non-conclusiva dell’interpretazione. Lo stesso uso della copula, che istituisce il nesso tra soggetto e predicato, istituisce anche il nesso fra la struttura della proposizione e quella della realtà, per cui la logica classica fa risiedere la verità nel giudizio e non nella parola isolata.
Assunto come copula, l’essere è ridotto a essere dell’ente, e il linguaggio a segno dell’ente. In questa accezione, il linguaggio non dice più niente, non parla, perché non mostra (zeigen), ma semplicemente indica (zeichen) e rinvia alla cosa che si suppone significante per sé, indipendentemente dalla parola che la nomina e, nominandola, le dà l’essere, la evoca dal nascondimento.
Con ciò Heidegger non pensa di dover riformare il linguaggio. Per gli usi della vita quotidiana o per quelli della ricerca scientifica il linguaggio ontico o metafisico va benissimo, ma non altrettanto si può dire per il pensiero che voglia riconoscersi e rimanere pensiero dell’essere, dell’essere nella differenza. Per questo pensiero, andare alla ricerca dell’essenza del linguaggio equivale ad ascoltare il linguaggio dell’essenza, dell’essere, perché, scrive Heidegger:
Questo insieme che ora ci parla – l’essenza del linguaggio: il linguaggio dell’essenza – non è un titolo né la risposta a una domanda. Esso è la parola-guida (Leitwort) che deve accompagnarci lungo la via.9
La parola-guida non dice, non enuncia, si limita a mostrare una connessione, o meglio una vicinanza, una prossimità che custodisce una ricchezza di significati non contenuti dalla parola, ma in cui la parola è contenuta (versammelt). Questa prossimità non si fonda sul rapporto spazio-temporale che dispone le cose una dopo l’altra, ma si fonda sull’originaria apertura di ogni cosa all’altra, perché, scrive sempre Heidegger:
Nel dominio dell’essere l’uno di fronte all’altro (gegen-einander-über) ogni cosa è aperta all’altra nel suo occultarsi, così l’una cosa si protende verso l’altra, si affida all’altra, e ciascuna resta in tal modo se stessa; l’una cosa sovrasta l’altra come vegliandola, custodendola, avvolgendola d’un velo.10
Su questa apertura originaria tempo e spazio non hanno potere, perché da essa nascono: l’uno come ciò che temporalizza portando a maturazione e dischiudendo, l’altro come ciò che spazializza dislocando località e luoghi a cui concede l’accesso. L’uno e l’altro non conoscono il movimento, ma dimorano nella quiete. Infatti, scrive Heidegger:
Temporalizzando, il tempo ci ri-trae dalla sua triplice con-temporaneità (Gleich-Zeitige), in questa si ri-trae nell’atto che ci apporta il suo dischiudersi: l’unità d’esser stato, esser presente, imminente. Ritraendoapportando (entrückend-zubringend), il tempo imprime movimento a ciò che la con-temporaneità fa che sia entro di esso: lo spazio temporale (Zeit-Raum). Il tempo, nella totalità del suo vero essere, non conosce movimento: riposa nella quiete. La stessa cosa è da dirsi dello spazio, il quale disloca località e luoghi, li costituisce come tali, ne concede l’accesso e assume il con-temporaneo, come tempo spaziale (Raum-Zeit). Lo spazio, nella totalità del suo vero essere, non conosce movimento: è nella quiete. Il ritrarre-apportare del tempo e l’atto, proprio dello spazio, di distribuire e costruire luoghi facendone dimore, si riconducono alla stessa cosa, al gioco della quiete.11
Questo gioco si annuncia nel linguaggio che, scrive Heidegger: “come dire originario, che imprime l’interno moto al mondo, è il rapporto di tutti i rapporti”.12 L’uomo parla in quanto appartiene al rapporto e ascolta quanto si annuncia da ciò a cui è rapportato. Il gioco della quiete (o se si preferisce: il rapporto di tutti i rapporti, il linguaggio originario) non enuncia proposizioni in cui soggetti e predicati, mediante la copula, si rapportano, ma dice il rapporto, dice “è”. Nell’“è” tutte le cose sono adunate e raccolte:
Questo adunare con appello silenzioso, in cui si raccoglie il movimento infuso nel mondo dal dire originario, noi lo chiamiamo: il suono della quiete. Esso è il linguaggio dell’essenza.13
Non essendo nell’uomo, ma nell’essere l’essenza del linguaggio, gli uomini parlano in quanto ascoltano. Perciò, scrive Heidegger:
L’uomo parla in quanto cor-risponde al linguaggio. Il corrispondere è ascoltare. L’ascoltare è possibile in quanto legato alla chiamata del dire originario da un vincolo di appartenenza.14
Nel linguaggio, come corrispondenza di appello e risposta, si raccoglie il senso che Heidegger attribuisce alla hermeneía. La parola significa “annuncio”, “messaggio”. Ma proprio perché il messaggero che porta questo messaggio è l’uomo, il suo essere usato e impiegato in tale funzione è già sempre un rispondere al messaggio stesso.
Le modalità diverse di rispondere sono i diversi linguaggi che contrassegnano le diverse epoche storiche, ciascuna corrispondente a un modo di rispondere alla chiamata. A questo punto, i linguaggi non si spiegano connettendo tra loro i vari ambiti culturali in cui si trovano espressi, ma riconducendo ogni linguaggio e ogni ambito culturale da esso espresso a quell’identica chiamata (das Selbe) di cui ciascun linguaggio, che contrassegna un’epoca storica, è risposta.
Rispetto al linguaggio metafisico, che trova il suo senso in una conclusione, in un’espressione, in una definizione, in un enunciato fondamentale (der Satz vom Grund) che regge tutti gli altri, il lavoro ermeneutico, che si propone di ascoltare la parola non come segno dell’ente ma come appello dell’essere, implica un mutamento di piani, richiede non una proposizione fondamentale (Satz) in grado di giustificare le proposizioni che stanno sul suo piano, ma un salto (Sprung), che dal detto risalga al non-detto, dal detto al richiamato, così come ogni ascolto richiama l’appello, ogni risposta l’invito:
Il salto porta il pensiero senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro ambito e in un’altra maniera di dire (Weise des Sagens).15
Quest’altra maniera di dire è il dire dell’essere, che non si esaurisce nella risposta storica dell’uomo, in cui solitamente si trattiene il linguaggio comune e quanti non compiono il salto ermeneutico. Dal momento che il salto deve condurre a pensare l’essere come tale, e dal momento che all’essere non si giunge con le tecniche e l’iniziativa dell’uomo, l’uomo, come dice Heidegger in Brief über den “Humanismus”,16 deve attendere che l’essere gli si rivolga di nuovo, anche con il rischio che nell’attesa si trovi costretto a tacere.
Il rischio dell’ermeneutica, come risposta alla chiamata dell’essere, è proprio questo. Può darsi che gli Um-wege, in cui si articola il lavoro ermeneutico, rimangano tali, cioè digressioni e giri senza senso, e che quindi il pensiero in essi taccia. La loro funzione è preparatoria, ciò che l’uomo può fare è appunto: preparare le condizioni in cui l’essere possa eventualmente rivolgergli la parola.
Ciò è possibile con l’esercizio ermeneutico che conduce al salto, e non con quegli esercizi ontici che, circoscritti all’ambito degli enti, racchiudono nel loro ambito gran parte della vita dell’uomo. Ciò che veramente conta, non in alternativa agli “impegni storici”, ma come cura del loro unico fondo (Boden), è ascoltare la parola,cosa che non dipende esclusivamente da chi ascolta, ma dalla parola stessa.
Siccome il luogo dell’ascolto della parola, in un contesto di appello e risposta, è il dialogo (die Sprache als Gespräch), l’ermeneutica non si garantisce con un sistema di regole, ma si esprime nella libertà dei collegamenti che lasciano parlare la parola senza sopraffarla, senza sopprimere le sue possibilità.
In questo contesto si comprende il senso dell’etimologismo heideggeriano. Ricostruire l’etimologia della parola significa andare alla ricerca dei significati e dei sensi che essa aveva in altri tempi e in altri contesti, significa creare una serie di rimandi che moltiplicano i riferimenti, creando in tal modo le occasioni del salto ontologico a cui tende l’esercizio ermeneutico.
La storia dei significati di una parola, la storia del suo formarsi nella struttura che ora le appartiene, è la storia dell’essere, dei modi con cui l’essere nelle varie epoche si è annunciato. E se leggendo le etimologie heideggeriane, si ha l’impressione che tutte dicono la stessa cosa, ciò non deve meravigliare, perché ogni ricostruzione ci porta in presenza di quell’unico evento che è l’e-venire dell’essere in quella modalità che è il darsi celandosi.
In quanto rinviano a questa struttura, che è poi il modo di offrirsi della verità (a-létheia), le etimologie sono vere anche se non sono esatte; appartengono infatti alla verità perché conducono a pensarla, perché accompagnano in quel luogo (Ort), dove il nascosto si svela. L’etimologia, infatti, raccoglie intorno alla parola detta, che nel nostro vocabolario significa qualcosa di ben definito e preciso, tutta la ricchezza del linguaggio, tutto ciò che nella parola è presente come non-detto, e che dal detto è a un tempo celato e richiamato. Ascoltare l’etimo di una parola, allora, è ascoltare la parola nel linguaggio dell’essere, come modo dell’e-venire dell’evento.
1 Cfr. il capitolo 90: “Il linguaggio parla”.
2 M. Heidegger, Aus einem Gespräch von der Sprache zwischen einem Japaner und einem Fragenden (1953-1954); tr. it. Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 107.
3 Id., Zur Seinsfrage (Über “die Linie”) (1955-1956); tr. it. La questione dell’essere (Sopra “la linea”), in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 356.
4 Id., Identità e differenza, cit., Parte I: “Il principio d’identità”, in “Teoresi”, 1966, p. 12.
5 Id., Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, in “Teoresi”, 1967, pp. 215-235.
6 Id., Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, cit., p. 107.
7 Ibidem.
8 Ivi, p. 113.
9 M. Heidegger, Das Wesen der Sprache (1957-1958); tr. it. L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 140.
10 Ivi, p. 166.
11 Ivi, p. 168.
12 Ivi, p. 169.
13 Ivi, p. 170.
14 M. Heidegger, Die Sprache (1950); tr. it. Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 43.
15 Id., Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 97.
16 Id., Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, cit.