61.

La logica della ragione: controllo e dominio

La logica vale solo per le verità fittizie create da noi. Essa, infatti, è il tentativo di comprendere il mondo vero secondo uno schema dell’essere posto da noi, o, più esattamente, di renderlo da noi formulabile e calcolabile.

F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, fr. 9 (97), p. 48.

L’intero apparato della conoscenza è un apparato per astrarre e semplificare – non orientato verso la conoscenza, ma verso il dominio delle cose.

F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1884, fr. 26 (61), p. 149.

Il controllo e il dominio appartengono all’essenza della logica che è nata in Grecia proprio per determinare e definire, quindi per controllare e dominare ciò che, annunciandosi, si sottraeva a ogni controllo e a ogni dominio perché ápeiron, indeterminato e indefinito. La connessione tra concetto e controllo è particolarmente evidente in Platone e in Aristotele. Per il primo con il concetto universale il pensiero è in grado di controllare i casi particolari, per il secondo la conoscenza delle cause prime, in quanto conoscenza dell’universale, è la più efficace e sicura delle conoscenze, perché disporre delle cause significa disporre dei loro effetti. Scrive infatti Aristotele:

Conoscibili in massimo grado sono i primi princìpi e le cause. Infatti mediante essi e muovendo da essi si conoscono tutte le altre cose, mentre, viceversa, essi non si conoscono mediante le cose che sono loro soggette. [...] È chiaro dunque che occorre acquistare la scienza delle cause prime: infatti, diciamo di conoscere una cosa, quando riteniamo di conoscerne la causa prima.1

La funzione strumentale della logica non sfugge ad Aristotele e alla filosofia successiva che denomina Organon, ossia “canone”, “strumento”, l’insieme delle regole logiche che consentono di controllare e calcolare il reale, di raggiungere l’armonia mentale, di eliminare le contraddizioni che l’apparenza del reale di volta in volta sembra manifestare. Sotto il controllo della logica formale si costruisce un ordine universalmente valido di pensiero, neutrale per quanto riguarda il contenuto materiale. I concetti, definiti dal principio di identità e dal principio di non contraddizione, diventano strumenti di predicazione e di controllo di quella molteplicità che, senza l’unificazione concettuale, resterebbe irrelata e incomprensibile.

Nell’unificare, nell’assumere, nel comprendere, la logica rivela la sua funzione di controllo e di dominio della realtà, che nell’apparenza si offre irrelata, contraddittoria e quindi incomprensibile. In questo modo la logica formale diventa il primo passo di quella lunga strada che conduce al pensiero scientifico.

Molto tempo prima che la ragione scientifica, e poi tecnologica, si ponesse come unico soggetto di controllo e di calcolo della totalità del reale, l’intelletto fu messo in grado di accogliere la totalità del reale in generalizzazioni astratte e ordinabili in un sistema privo di contraddizioni o con contraddizioni suscettibili di riduzione. Si distinse la dimensione universale, calcolabile, oggettiva, da quella particolare, incalcolabile, soggettiva. Si elevò la prima al rango di ciò che si impone (epistéme) e si relegò la seconda nell’ambito diminuito dell’apparenza ingannevole (dóxa).

La successiva logica scientifica, per quanto si differenzi dall’antica logica formale, non ne contraddice l’intento che è quello di controllare e dominare il reale. Per questo rimuove dall’ordine logico le cause finali che sono incontrollabili, traduce le qualità in quantità che si lasciano calcolare e misurare, elimina la tensione tra “essere” e “dover-essere”, che potrebbe sovvertire l’universo dato dal pensiero scientifico che vuol essere oggettivo e universalmente valido. La verità non è più, come in Platone “bella e buona (kalokagathós)”, ma semplicemente “esatta”, cioè ottenuta (ex-acta) dalle anticipazioni matematiche, che non attendono l’accadimento del reale, ma pongono le condizioni del suo accadimento. Anche la riduzione degli attributi della verità avviene in vista di un più efficace controllo e dominio.

Ma sia la logica formale, sia la logica scientifica non soddisfano compiutamente la pre-potenza della ragione, perché nell’universalità della loro astrazione e generalizzazione lasciano fuori il contenuto concreto e soprattutto la loro negazione. Hegel scorge nella filosofia critica del suo tempo l’“angoscia dell’oggetto (Angst vor dem Objekt)” e chiede che un pensiero genuinamente scientifico superi questa forma di paura e includa “il logico e il razionale puro (das Logische und das rein Vernünftige)”.2 Solo così la ragione può adeguarsi perfettamente al reale e il reale al razionale.

Nasce la logica dialettica come sintesi di contrari, come razionalità della contraddizione, come composizione delle forze, delle tendenze e degli elementi opposti che costituiscono il reale. La logica dialettica definisce il movimento delle cose da ciò che non sono a ciò che sono. Suo oggetto non è la forma astratta e generale del pensiero che lascia fuori di sé la concretezza del contenuto, né i dati dell’esperienza immediata che, arrestandosi all’apparenza dei fatti, tralascia i fattori che li determinano.

La ragione dialettica comprende il mondo come un universo storico, dove i fatti sono il prodotto della propria potenza e dove le tensioni tra essere e dover-essere, tra giustizia e ingiustizia, tra razionale e irrazionale sono parti integranti del medesimo universo in cui si affrontano le forze presenti e le capacità potenziali. In questo modo il dover essere è, l’ingiusto è anche giusto, l’irrazionale è anche razionale, perché ospitato nell’universo presieduto dalla ragione, e da questa “astutamente” utilizzato per il conseguimento dei propri fini. Per questo i servi sono capaci di spodestare i signori collaborando con loro, e i signori sono capaci di migliorare le condizioni di vita dei servi accrescendo al tempo stesso l’intensità dello sfruttamento.3

Nella realtà sociale presieduta dalla ragione dialettica la base del dominio non si esprime più nella dipendenza personale dello schiavo dal padrone, del servo dal signore del feudo, del feudatario dal donatore del feudo, ma servo e signore dipendono dall’ordine oggettivo delle cose, di volta in volta espresso dalle leggi economiche, dalle leggi di mercato, di produzione, di consumo che l’efficienza razionale del sistema determina e controlla. La maggiore razionalità si rivela nel fatto che lo sfruttamento sempre più efficace delle risorse materiali e mentali si accompagna alla distribuzione su scala sempre più ampia dei benefici tratti da tale sfruttamento. Il limite è nel progressivo asservimento dell’uomo da parte della razionalità dell’apparato, che minaccia la vita di coloro che costruiscono e usano l’apparato stesso.

A questo circolo, che se non depotenzia ancora la vita senz’altro depotenzia, o ha già in parte depotenziato, l’essenza dell’uomo, non è possibile sottrarsi appellandosi a una logica dei valori, perché la ragione che si è affermata proprio in quanto ha matematizzato, oggettivato, quantificato la natura, dopo averla sottratta alle cause finali, e dopo aver separato il reale dall’ideale, la verità dal bene, la scienza dall’etica, rimane sorda ai valori che si vogliono affermare al di fuori o al di sopra della sua razionalità. Ciò che a essi la ragione riconosce è, al massimo, un’astratta e innocua validità, che, non essendo peraltro verificabile, non è neppure realmente oggettiva. I valori possono avere una loro dignità morale e spirituale, ma, non essendo per definizione reali, contano di meno delle strutture della realtà. Più sono al di sopra più sono inefficaci. Qui Nietzsche è stato chiarissimo, e Heidegger, commentando i numerosi passi in cui Nietzsche va alla ricerca dell’origine dei valori, scrive:

Per Nietzsche. “Il punto di vista del ‘valore’ è il punto di vista delle condizioni di conservazione e di accrescimento per formazioni complesse, la cui vita ha una relativa durata entro il divenire. [...] ‘Valore’ è essenzialmente il punto di vista per il rafforzamento o l’indebolimento di questi centri di dominio” (La volontà di potenza, Af. 715).
Poiché Nietzsche intende il valore come il punto di vista condizionante la conservazione e l’accrescimento della vita nel divenire come volontà di potenza, la volontà di potenza si rivela come ciò che pone questi punti di vista. È la volontà di potenza a giudicare secondo valori, per cui essa è il fondamento della necessità della posizione dei valori e l’origine della possibilità della valutazione per valori. Per questo Nietzsche afferma: “I valori e il loro mutamento sono proporzionali all’accrescimento di potenza di coloro che li pongono” (La volontà di potenza, Af. 14).
Dal che risulta chiaro che i valori sono posti dalla stessa volontà di potenza, quali condizioni di se stessa. Solo quando la volontà di potenza si presenta come il tratto fondamentale di ogni reale, cioè si fa vera, e viene concepita come la realtà di ogni reale, si chiarisce quale sia la sorgente dei valori e in virtù di che ogni valutazione di valore trovi fondamento e guida. Il principio della posizione dei valori è ormai identificato.4

Se la Bontà, la Bellezza, la Pace, la Giustizia non derivano da condizioni scientifico-razionali, non possono pretendere quell’universale validità che è propria della ragione scientifica e quindi non possono essere realizzati su scala universale. Il loro carattere non scientifico indebolisce fatalmente la loro opposizione alla realtà scientificamente razionalizzata, per cui diventano meri ideali, ospitati dalla razionalità del sistema per la loro innocuità o per la coesione sociale che determinano e che può essere adeguatamente, cioè razionalmente, sfruttata. Qui torna il monito di Nietzsche: “Dove voi vedete cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane”.5

Non a caso noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo, sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita, il consumo il prezzo della produzione, la rinuncia e la fatica il prezzo del piacere e della gioia. Sappiamo che le alternative sono utopiche, perché questo circolo è la regola del funzionamento del sistema, è l’essenza della sua razionalità.

A questa non ci si può sottrarre con la logica negativa del rifiuto, perché la razionalità del sistema, con il suo procedimento dialettico, è in grado di positivizzare il negativo, di tradurre il proprio negatore in elemento che attiva il sistema. Il costituirsi del negatore del sistema incrementa la struttura difensiva del sistema stesso, e siccome la negazione è un dato permanente, lo strutturarsi del sistema secondo le necessità della propria difesa non è una situazione di emergenza, ma un normale stato di cose. Infine, siccome la negazione non si attenua in tempo di pace non meno che in tempo di guerra, la negazione del sistema viene “razionalmente” inserita nel sistema come forza coesiva.

Con lo spettro sempre incombente della propria negazione, il sistema giustifica razionalmente quei fatti e quegli episodi che, presi nel loro isolamento, potrebbero apparire irrazionali o addirittura folli. La razionalità compone sempre distruzione e produzione e, se deve giocare in perdita, rende la perdita razionale, mettendo a confronto la perdita reale con quella possibile.

Così, la razionalità di una mobilitazione generale è, oltre che nella presenza del nemico, anche nelle possibilità di investimento e di occupazione che si offrono all’industria; la razionalità di una piccola guerra condotta lontano dal proprio paese è nell’evitare la grande guerra che coinvolgerebbe il proprio paese. E così, includendo l’in sé negativo nel per sé che tutto positivizza, la razionalità del sistema non lascia spazio al costituirsi della negazione, che è poi il costituirsi della liberazione.

La prepotenza della ragione concede libertà e liberazione, ma sempre entro il sistema da essa controllato, perché il costituirsi della liberazione fuori dal sistema equivarrebbe alla proclamazione della propria fine. Amleto che interroga con alternative, per le quali la logica a disposizione non è di alcuna utilità, ed Edipo che intravede la soluzione di quei problemi che per gli altri abitanti della città sono enigmi, vengono immediatamente sottoposti a cure psicoanalitiche che, dissolvendo le immagini della trascendenza, reinseriscono i pazienti nella razionalità onnipresente della realtà quotidiana, da cui, per “malattia mentale” o per “nevrosi”, si erano momentaneamente allontanati, inseguendo quei pensieri metafisici che non si lasciano tradurre in alcun linguaggio appropriato”, perché non rispettano la “grammatica” e la “sintassi” della ragione scientifica.6 Tali sono, per esempio, i pensieri che si rivolgono all’essere, e che nessuna “logica” è in grado di comprendere. Da ciò segue, scrive Carnap:

L’impossibilità di ogni metafisica che tenta di trarre inferenze dall’esperienza a qualcosa di trascendente, che sta al di là dell’esperienza e che non è sperimentabile, come la “cosa in sé” dietro le cose dell’esperienza, l’“Assoluto” dietro la totalità del relativo, l’“essenza” e il “significato” degli eventi dietro gli eventi stessi. Poiché non si può mai rigorosamente inferire dall’esperienza al trascendente, le inferenze metafisiche necessariamente trascurano passaggi essenziali. È da ciò che deriva la parvenza di trascendenza. Si introducono concetti che sono irriducibili sia al dato, sia a ciò che è fisico. Sono pertanto concetti puramente illusori che vanno rigettati dal punto di vista epistemologico, come pure da quello scientifico. Sono parole senza senso, qualunque sia il grado in cui sono santificate dalla tradizione o impregnate di sentimento.7

E così, alleandosi con la prepotenza della ragione, anche la filosofia, nella sua edizione neopositivista, ne difende l’ordine, proibendo la ricerca dell’Assoluto dietro la totalità del relativo, e del significato degli eventi dietro gli eventi. In questo modo i concetti capaci di recare i più gravi turbamenti alla razionalità del sistema vengono eliminati, per il semplice fatto che è impossibile darne una descrizione adeguata con gli strumenti offerti dalla logica della ragione. Strutturandosi come epistemologia e come teoria della scienza, anche la filosofia concorre a fornire la giustificazione metodologica richiesta per svuotare di senso l’attività del pensiero, e per negare la possibilità di pervenire a significati trascendenti la ragione scientifica.

In questo modo la filosofia si pone come il riscontro intellettuale del comportamento socialmente richiesto, anzi, come pragmatismo, concorre al suo consolidamento, coordinando idee e scopi con quelli che il sistema dominante esige, respingendo quelli che con esso non sono conciliabili. Lo stesso Marcuse, che pure non è pragmatista, e che denuncia il pensiero “a una dimensione”, non esita a tradurre nell’insignificanza il problema heideggeriano dell’essere, in base a motivazioni di tipo efficientistico. Scrive infatti Marcuse:

Per evitare un malinteso: io non credo che la Frage nach dem Sein (La questione dell’essere) e questioni simili abbiano e debbano avere un interesse esistenziale. Ciò che era significativo alle origini del pensiero filosofico, può ben essere diventato insignificante alla fine, e non è detto che la perdita di significato sia dovuta all’incapacità di pensare. La storia dell’umanità ha dato risposte definite alla “questione dell’essere”, e le ha date in termini molto concreti che si sono dimostrati efficaci.8

A questo punto perché lamentarsi dell’efficacia e dell’efficienza del sistema monolitico, abitato solo da uomini “a una dimensione”, che Marcuse denuncia?

1 Aristotele, Metafisica, Libro I, 982 b-983 a.

2 G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik (1812-1816); tr. it. Scienza della logica, Laterza, Bari 1974, vol. I, p. 31.

3 Id., Phänomenologie des Geistes (1807); tr. it. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1963, vol. I: “Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza: signoria e servitù”, pp. 153-164.

4 M. Heidegger, Nietzsches Wort “Gott ist tot” (1943); tr. it. La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 211-212. Le citazioni di Nietzsche, che Heidegger trae da Der Wille zur Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werte (1906); tr. it. La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori, Bompiani, Milano 1992, hanno le seguenti corrispondenze: l’aforisma 715 corrisponde al fr. 11 (73), p. 247, mentre l’aforisma 14 corrisponde al fr. 9 (39), p. 15 di F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1887-1888; tr. it. Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, Adelphi, Milano 1971, vol. VIII, 2.

5 F. Nietzsche, Ecce homo. Wie man wird, was man ist (1888); tr. it. Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 3, p. 331.

6 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 53, § 6: “L’esposizione dell’anima”.

7 R. Carnap, Die alte und die neue Logik (1930); tr. it. La vecchia logica e la nuova, in La filosofia della scienza, La Scuola, Brescia 1964, p. 26.

8 H. Marcuse, One-Dimensional Man (1964); tr. it. L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 151.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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