20.

L’eînai di Parmenide

Non resta ormai che pronunciarsi sulla via che dice: l’essere è. Su questa via ci sono segni indicatori assai numerosi. L’essere, infatti, è ingenerato e imperituro, tutt’intero, unico, immobile e senza fine. Non una volta era, né sarà, perché è ora, tutto insieme, uno e continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare? Come e donde il suo nascere?

PARMENIDE, fr. B 8, 2-7.

L’Umgreifende che tutto comprende, in quanto identità in cui il diverso conviene (l’ápeiron di Anassimandro), e unità in cui l’opposto è ospitato (il lógos di Eraclito) è chiamato da Parmenide “essere”. “Il senso della filosofia di Parmenide,” scrive Jaspers, “è uno solo: ésti gàr eînai, l’essere è”.1 Parmenide non è colui che pensa il puro e semplice essere, ma è colui che istituisce una sintassi dell’essere, ossia un’elaborazione del semantema all’interno di un certo linguaggio che vuol essere quello della verità. L’articolazione di questo linguaggio è “ésti gàr eînai” che la logica successiva intenderà come una mera tautologia, meravigliandosi dello stupore di Parmenide.

Definire tautologica la parola di Parmenide significa avere l’anima già impegnata nel diverso che si afferma nell’oblio dell’identico, significa essere nella dispersione del mondo che dispiega gli enti nella loro dissociazione dall’essere, significa essere altrove rispetto a ciò che è da pensare. In questo senso, scrive Jaspers:

Per la prima volta in Occidente un pensatore si stupisce del fatto che l’essere è, e non si può pensare che sia nulla. La cosa più ovvia e la più enigmatica, eppure la più chiara. L’essere è, e il nulla non è. Questa è per Parmenide una rivelazione del pensiero attraverso il pensiero stesso. Sotto forma di proposizioni che sembrano banali si annuncia il sapere fondamentale che sorregge la vita del filosofo: la presenza dell’essere.2

Alla presenza dell’essere si riduce il pensare, che non è dell’uomo, ma dell’essere. Il pensare è il presentarsi, il manifestarsi, l’esporsi dell’essere. L’essere è verità in quanto presenza, manifestazione, nonnascondimento. In questo senso Parmenide dice: “La stessa cosa è pensare ed essere (tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai)”.3 Commentando questo frammento Jaspers scrive:

I pensieri filosofici fondamentali, in cui pensiero ed essere sono la stessa cosa e in questa unità sono stati pensati, da Parmenide in poi, là dove furono logicizzati, furono profanati.4

La profanazione consiste nell’isolamento di un termine dall’altro. Responsabile di questo isolamento non è il lógos, che pone il pensiero in unità con l’essere, ma la logica nel suo affermarsi come solitudine del pensiero, nella lontananza del suo contenuto originario. Scrive infatti Parmenide:

Queste cose, benché lontane, vedile col pensiero (nóoi) saldamente presenti; infatti non scinderai l’essere dalla sua connessione con l’essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte con cura sistematica, né concentrandolo in se stesso.5

Commentando questo frammento di Parmenide, Jaspers scrive che: “Nel noûs dunque l’essere è presente nella sua totalità. Perciò l’assente è compresente”.6 Non così per la logica che, attenta alla disgregazione, alla distinzione, alla separazione e alle connessioni da essa operate, ha come suo campo d’azione la molteplicità del diverso e non l’unità dell’Uno, per la cui comprensione ricorre a espressioni che suonano come vuote tautologie nella ripetizione dell’identico, o come indicazioni insignificanti per un pensiero che ritrova se stesso solo nella connessione del diverso.

La contrapposizione fra lógos e logica riproduce per Jaspers la contrapposizione parmenidea tra verità e apparenza, alétheia e dóxa. In entrambi i casi si ha a che fare con ciò che si manifesta, con questa differenza: che l’alétheia manifesta l’unità del molteplice, la dóxa la sua dispersione. A presiedere l’alétheia è il lógos che raccogliendo unifica, che pensa l’identico come fondamento del diverso, l’essere come essere dell’ente. A presiedere la dóxa è invece la logica che, generando il linguaggio, nomina diversamente lo stesso, producendo quella molteplicità che poi essa si incarica di unificare, secondo connessioni che non traggono origine dall’essere, ma dai caratteri che gli enti espongono nel loro apparire. In questo senso, fa notare Jaspers:

L’origine del mondo è l’origine stessa dell’apparenza ingannevole (dóxa). Fonte dell’apparenza è la scissione dell’Uno legata all’imposizione dei nomi. Infatti, come dice Parmenide: “I mortali stabilirono di dar nome a due forme, e, ingannandosi, non scorsero la loro unità. Le considerarono opposte nelle loro strutture e stabilirono dei nomi che le distinguessero. Da un lato posero l’etereo fuoco della fiamma che è benigno, molto leggero, a se medesimo da ogni parte identico, e rispetto all’altro invece non identico; dall’altro lato posero anche l’altro per se stesso, come opposto, notte oscura, di struttura densa e pesante. Questo ordinamento del mondo, veritiero in tutto, compiutamente ti espongo, così che nessuna convinzione dei mortali possa fuorviarti” (fr. B 8, 53-61).7

Porre dei nomi diversi per ciascuna cosa significa disperdersi tra il molteplice, che appare nell’oblio dell’Uno che si sottrae onde consentire l’apparire del diverso. L’errore dell’uomo consiste nell’arrestarsi all’apparenza, nel non penetrarla, sì da proibirsi la scoperta dell’Uno. L’apparenza del molteplice accade perché l’Uno lo consente, o, come dice Jaspers: “L’apparenza sorge per opera dell’essere che si immette nella vicenda del mutevole apparire”.8 Anche l’apparenza è dunque inscritta nella necessità dell’essere; il suo carattere fallace non nasce da questa inscrizione, quasi che nell’apparenza l’essere si sciogliesse da quelle catene che non gli consentono di non essere, ma nasce dall’isolamento dell’apparenza dall’essere che la fa apparire.

Assolutizzata nell’isolamento (isolierende Verabsolutierung), l’apparenza attesta la dispersione non unificata, attesta quindi il contrario della verità che, sottraendosi all’attenzione dell’uomo, lascia via libera alla fallacità dell’opinare. Ogni unificazione tentata dalla logica nell’oblio del lógos, vero unificatore, è adikía, ossia ingiusta connessione, perché, scrive Jaspers: “separa la verità dell’apparenza dal fondamento del suo dispiegarsi”.9

Alétheia è dunque sapere l’apparenza come apparenza di un che d’altro. Dóxa è isolare l’apparenza e assolutizzarla nel suo isolamento. Le due vie che così si dischiudono sono rispettivamente quella del pensiero memorativo dell’essere e quella del pensiero che si afferma nel suo oblio. Allora, scrive Jaspers:

La totalità dell’essere è perduta; l’assente non è più presente, il presente è separato dal passato e dal futuro. Col mondo dell’apparenza sorge il mondo fallace delle opinioni, con le opinioni il mondo stesso dell’apparenza.10

Alla base di questo capovolgimento è l’assentarsi dell’essere dalla presenza, per cui presente è l’ente, separato da quel passato e da quel futuro che, sulla traccia di Anassimandro, interpretiamo come il termine a quo e il termine ad quem in cui è raccolta la vicenda dell’ente, in quei limiti d’apparenza che l’essere gli concede.

La via della dóxa è la via seguita dall’Occidente, i cui sentieri errano nell’isolamento dell’apparenza. Da questo isolamento nacque la logica,come struttura del pensiero valida indipendentemente dal contenuto a cui si trova di volta in volta applicata, e con la logica, scrive Jaspers:

Il principio di non contraddizione, che, introdotto da Parmenide per rivelare l’essere stesso, la verità essenziale, fu successivamente impiegato come strumento a disposizione del pensiero logicamente cogente per qualsiasi affermazione esatta. Sorsero così la logica e la dialettica. Più tardi si staccarono dalla totalità originaria di Parmenide, oltre la logica che mette in evidenza l’aspetto formale di ogni pensare necessitante, la speculazione metafisica, non come quel pensare in cui si fa presente la totalità dell’essere, ma come un gioco che rende comunicabile ciò che è profondamente serio, e infine l’immagine estetica dell’essere e del mondo, in certe figure di pensiero che si delineano disinteressatamente nelle loro variazioni senza fine, mediante una specie di gioco intellettuale.11

La separazione tra logica e metafisica, conseguenza della separazione tra pensiero ed essere, genererà da un lato l’isolamento del pensiero, “a proposito del quale,” osserva Jaspers, “si dubiterà che possa cogliere l’essere, come si avrà modo di vedere in tutta chiarezza presso Kant”,12 e dall’altro l’isolamento dell’essere perché, scrive Jaspers:

Il pensare non è più essere, ma un’attività umana riferita all’essere. L’idea che l’essere stesso sia pensiero assume il valore di una cifra, ma non opera più come una realtà effettiva in carne e ossa.13

Confinato nel suo isolamento, l’essere, osserva Jaspers: “è divenuto, in tutte le forme linguistiche, una generalità vuota priva di contenuto”.14 Per dargli consistenza s’è proceduto all’ipostatizzazione dei suoi significati (sémata) che l’ontologia s’è premurata di organizzare accuratamente, finché la teologia non se n’è appropriata per impostare il proprio discorso su Dio. E così, scrive Jaspers:

Ciò che Parmenide ha pensato come segni (sémata) dell’essere si è trasformato in un campo di categorie, che successivamente dovevano essere riferite a Dio quando sorse il problema di pensare le qualità divine. Da Parmenide provennero quei motivi di pensiero di cui ci si impadronì per pensare il Dio privo d’immagine e accertarsi della trascendenza nel puro pensiero. L’“ontologia” di Parmenide fornì così gli strumenti per la “teologia”. Ma soprattutto la separazione tra verità e opinione, tra essere dell’essere e apparenza del mondo ha generato la cosiddetta teoria dei due mondi, per cui l’apparenza si fece fenomeno e l’essere divenne un “al di là”, un altro essere, un secondo mondo, un mondo nascosto. In tal modo l’essere unitario e il sapere fondamentale di Parmenide si trasformarono nel dualismo di due realtà vere e proprie, che ha permeato di sé, sotto forme diverse, tutta la storia della cultura occidentale.15

Anassimandro, Eraclito, Parmenide scossero il mondo greco con il pensiero dell’Uno che, come ápeiron, lógos, eînai, tutto accoglie e, accogliendo, disvela quel mondo dell’apparenza, che conserva la sua verità solo se non cade nella tentazione dell’isolamento. L’isolamento è prevaricazione, è tracotanza, è dimenticanza dell’origine. In ciò è raccolto il senso della colpa, come volontà di sostituirsi all’origine o, per dirla con il discorso biblico, di essere come Dio.

Sottratto alla cura dell’essere, il mondo è afferrato dalla cura dell’uomo, che alla potenza dell’essere oppone la propria prepotenza, alla contemplazione estatica la fabrilità operosa, all’ascolto della parola il linguaggio che nomina differentemente tutte le cose, al raccoglimento dell’unità identica la dispersione della molteplicità divisa. Dall’incomprensione del momento greco del periodo assiale nasce l’Occidente, ovvero quella terra in cui il mondo si afferma nell’isolamento e l’uomo nella solitudine propria di chi erra senza patria, perché il senso dell’essere è smarrito, e la fabrilità che opera tra gli enti è incapace di ritrovarlo.

1 K. Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen (1919); tr. it. Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950, p. 248. La stessa annotazione ritorna in Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 730.

2 Id., I grandi filosofi, cit., p. 730.

3 Parmenide, fr. B 3.

4 K. Jaspers, Philosophie (1932-1955): III Metaphysik; tr. it. Filosofia, Libro III: Metafisica, Utet, Torino 1978.

5 Parmenide, fr. B 4.

6 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 732.

7 Ivi, pp. 733-734.

8 Ivi, p. 734.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Ivi, p. 737.

12 Ivi, p. 738.

13 Ibidem.

14 Ibidem.

15 Ivi, p. 739.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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