37.

Cusano: la coincidenza degli opposti e il recupero della differenza ontologica

Dio è complicazione ed esplicazione di tutte le cose. In quanto complicazione, tutte le cose in lui sono lui stesso. In quanto esplicazione, egli in tutte le cose è quell’essere che esse sono.

N. CUSANO, La dotta ignoranza (1440), II, 3.

Nel far propria la metafisica di Niccolò da Cusa (“La nostra esposizione ha voluto delineare la sua metafisica che facciamo nostra”),1 Jaspers osserva che:

Le vette del filosofare si sono palesate nelle figure di Parmenide, di Eraclito, di Plotino, di Spinoza e dei pensatori asiatici. I pensatori invece “che hanno continuato la creazione filosofica”, come noi chiamiamo Platone, Agostino, Kant, sono anch’essi dei metafisici nel loro pensare onnicomprensivo, ma l’ampiezza del loro pensiero non ce li fa collocare tra i metafisici veri e propri, perché, per loro, la metafisica servì solo da strumento. Cusano invece è un “metafisico originario” e soltanto questo. Egli è un termine insostituibile della serie dei grandi metafisici, perché ha delineato una grande personale immagine dell’essere, una cifra che ha la sua consistenza anche senza il rivestimento cristiano.2

La parola “metafisica”, qui assunta nella sua accezione originaria, è quel pensare, oltre gli enti (metà tà physiká), la trascendenza dell’essere, è quell’interrogare l’essere al di là di ogni sistemazione ontologica, in quello spazio periecontologico3 che si dischiude ogni volta che si riscatta l’essere dal sistema, per lasciarlo nella problematicità che lo caratterizza in quanto trascendenza.

Nella concezione di Jaspers, infatti, della metafisica non si dà un sapere, perché in questo caso l’essere sarebbe trasceso e compreso dal sapere. La metafisica è possibile solo come domanda inesauribile, che si ripropone in termini sempre più radicali, al di là di ogni risposta raggiunta. Il naufragio di ogni risposta diventa, per la coscienza umana, cifra della trascendenza dell’essere. In questi pensieri si raccoglie, a parere di Jaspers, il senso della dottrina della docta ignorantia, da cui Cusano parte per il suo itinerario metafisico, che non ha nulla da dividere con quello scientifico, la cui natura è congetturale e ipotetica.

Limitato all’ambito circoscritto dalla scissione soggetto-oggetto (Subjekt-Objekt-Spaltung), l’intelletto umano, che aveva celebrato i suoi trionfi nell’epoca medioevale, viene riconosciuto da Cusano come organo del finito, capace di distinguere (distinctio), paragonare (comparatio) e misurare (mensuratio) ente con ente, secondo i criteri ipotizzati da quella conoscenza congetturale che non sa instaurare relazione di sorta tra il finito e l’infinito in cui dimora la verità. Infatti, per Cusano, la situazione fondamentale della nostra conoscenza è questa: “L’infinito non ha proporzione col finito (finiti ad infinitum nulla est proportio)”4; prenderne coscienza è quanto basta per evitare l’assolutizzazione del nostro pensiero e l’applicazione incondizionata della logica che lo presiede.

L’affermazione della sproporzione tra finito e infinito non è una peculiarità di Cusano; è presente in tutta la speculazione medioevale come cosa ovvia, e, come tutte le cose ovvie, è stata anche trascurata, dal momento che non si è esitato a estendere le strutture della finitezza all’infinito, sino a rendere analogo Dio al mondo. Di questo Cusano è consapevole e lo denuncia con estrema chiarezza:

Quando si parla di Dio ponendosi sul piano dell’intelletto, che è inadeguato al concetto di Dio, allora sottoponiamo Dio alle leggi dell’intelletto affermando una cosa e negandone un’altra. Questo è il modo con cui procedono perlopiù i teologi.5

Alla presunzione dell’intelletto, “che come una prostituta si concede a tutte le cose”,6 Cusano contrappone la docta ignorantia, ovvero quel non sapere (ignorantia) che scaturisce dalla consapevolezza (docta) della sproporzione esistente tra finito e infinito, e che soprattutto ne tiene conto. L’esito di questo capovolgimento è molto illuminante. Col depotenziamento dell’intelletto si assiste infatti in Cusano a un recupero del senso dell’essere nei termini in cui era stato intuito dal pensiero aurorale e poi smarrito dal progressivo imporsi della determinazione intellettualistica e volontaristica nell’epoca medioevale.7

L’impressione che se ne ricava è, in un certo senso, la conferma che la manifestazione dell’essere è tanto più originaria quanto più l’uomo si trattiene, mentre si riduce fino ad assentarsi quanto più l’uomo prevarica con il proprio intelletto e le sue pretese conoscitive. C’è, per così dire, nell’essere un donarsi che richiede un’accettazione del dono e quindi una rinuncia alla volontà di conquista. In questo offrirsi a chi si dispone all’accoglimento è racchiuso il senso dell’essere e dell’uomo aperto alla sua manifestazione.

Cusano ovviamente parla dell’essere con una terminologia teologica, ma questo non deve meravigliare, anche i presocratici parlavano dell’essere come del divino (theîon). In seguito il divino divenne l’Ente supremo. Ed è proprio per essersi sottratto a questa determinazione, seguita da quasi tutta la speculazione post-platonica, che Cusano appare a Jaspers come “metafisico originario”, vicino al pensiero di coloro che cominciarono a filosofare.

Il pensiero metafisico prende quota in Cusano a partire dal naufragio dell’intelletto e della logica che lo presiedono. Il principio di non contraddizione, che l’intellettualismo tomista aveva fatto coincidere con Dio, viene qui ridotto a strumento efficace solo nell’ambito del finito, ove si opera la distinzione tra gli enti. Il principio di causalità, che regolava la processione ontologica del mondo da Dio e accompagnava il processo ascensionale della conoscenza, viene relegato nell’ambito delle ipotesi scientifiche, tra le congetture che noi impieghiamo per l’interpretazione del mondo.

Alla base della destituzione del valore assoluto e incondizionato di questi principi non c’è il gusto di una lettura equivoca dell’essere da contrapporre alla lettura analogica in cui si era assestato il discorso di Aristotele e Tommaso, ma c’è il rifiuto a considerare l’uomo e i principi del suo intelletto come misura di tutte le cose, c’è la consapevolezza che la rivelazione dell’essere sarà tanto più vera quanto più l’uomo, facendo violenza a se stesso e alle modalità del proprio pensare, si trarrà in disparte, sì da udire veramente la voce dell’essere e non la propria sovrapposta. Di qui il ringraziamento di Cusano:

Ti ringrazio o Dio di avermi mostrato come sia impossibile mirarti se non là dove si presenta un’impossibilità. Tu mi hai dato il coraggio di far violenza a me stesso sì da riconoscere che l’impossibilità coincide con la necessità. Qui ho scoperto il luogo in cui l’uomo si trova senza velamento.8

Il volto del divino assume così tratti impossibili per l’intelletto e la sua logica, ma anche molto simili a quelli di cui è stato testimone il pensiero aurorale. L’essere come coincidentia oppositorum, di fronte alla quale “l’intelletto entra necessariamente nelle tenebre”,9 richiama da vicino l’armonia ospitale del Lógos di Eraclito in cui tutti gli opposti convengono. Armonia invisibile e quindi trascendente l’armonia visibile e inospitale, la quale, opponendo gli opposti che nel divenire si fronteggiano, li distingue e, nella distinzione, li coglie nella loro identità, secondo quella che dopo Eraclito sarà la logica della non contraddizione. Tanto per la coincidentia oppositorum di Cusano, infatti, quanto per l’armonia invisibile ma ospitale di Eraclito, l’intelletto non serve. Coloro che lo impiegano possono essere annoverati fra quelli che, al dire di Eraclito: “Non comprendono come il lógos con se stesso concordi pur discordando: armonia di tensioni contrastanti come nell’arco e nella lira”.10

L’intelletto infatti ha occhi solo per l’ente, mentre lo spazio occupato dal divino è “più rispetto all’ente (plus quam ens)”,11 che non significa Superente o Ente supremo, ma ciò che sta oltre ogni ente e che, al di là di ogni distinzione, si pone come “perfetta identità di tutte le cose”.12 Ora ciò in cui tutti gli enti convengono è l’essere che Cusano nomina col termine “Stesso (Ipse)”.13

L’essere è quella “stessità” che, invece di sollecitare, arresta il pensiero intellettuale che si trova a suo agio solo nella distinctio, nella comparatio e nella mensuratio, ovvero in quelle operazioni che si attuano tra gli enti per distinguerli e quindi identificarli nella loro essenza. Di fronte alla “stessità” il pensiero intellettuale è cieco, perché il suo vedere è condizionato dalla differenza ontica che la stessità dell’essere sbiadisce. Perciò scrive Cusano: “Io ti vedo e non so ciò che vedo, perché non vedo nulla di visibile”.14

L’espressione è rivolta a Dio, ma frasi come questa mostrano la distanza che intercorre tra il Dio-ente dell’ontologia e il Dio-essere che in Cusano si va profilando. Come l’essere dei presocratici, così il Dio di Cusano è reale, ma in un senso incomparabile, non come sono reali le cose del mondo, né come le cose che si possono dedurre partendo da ipotesi, e nemmeno come è reale l’oggetto del pensiero in quanto tale, perché, scrive Cusano: “Dio non è una astrazione dell’intelletto, né una cosa tra le altre”.15 Rispetto alle cose, Dio è altro (aliud).

L’alterità di Dio, che così da vicino richiama la differenza ontologica tra essere ed ente, non ha nulla dell’alterità platonica mediata dalla partecipazione (méthexis). Quest’ultima, infatti, è somiglianza che, riducendo il mondo nel suo “è” a immagine-copia del modello originario, sancisce definitivamente quel dualismo metafisico che, da Aristotele a Tommaso, ospiterà quelle ipotesi causali introdotte dalla logica dell’intelletto nel tentativo di mediarne il rapporto.

Per Cusano le cose stanno diversamente non soltanto perché la stessa categoria del “rapporto” appartiene all’intelletto, ma anche e soprattutto perché l’alterità dell’essere divino non è di natura ontica, tale quindi da determinare quei dualismi così familiari a chi si trattiene esclusivamente fra le distinzioni degli enti. Una volta avvertita l’incommensurabilità tra finito e infinito non è possibile stabilire tra i due termini alcun rapporto misurabile, né passaggio di sorta, sia esso pensato platonicamente come partecipazione (méthexis) o biblicamente come creazione.

Ciò non significa negare qualsiasi relazione tra l’infinità di Dio e le cose finite, perchè il solo fatto che Dio e le cose finite sono pensate insieme in proposizioni come questa ci porta a riconoscere la presenza di un minimo di relazione nello stesso concetto di non-relazionalità. La speculazione non è altro che il tentativo di pensare questa relazione per avere un’esperienza adeguata della sua realtà. Nell’esecuzione di questo tentativo, Cusano si accosta all’antica concezione di Anassagora, per il quale “Le parvenze fenomeniche sono l’aspetto visibile dell’invisibile”,16 e perciò dice:

Tutti i sapienti convengono nell’affermare che il visibile è in verità un elemento dell’invisibile. Il Creatore si può conoscere dalle creature come in uno specchio e per enigma, non già argomentando dal noto all’ignoto. Il nostro sguardo si volge all’indeterminatezza dell’essere, che è modello originario, attraverso le determinazioni dell’essere del mondo, e, solo di fronte a questo argomento, il mondo si dischiude nella sua vera essenza.17

L’alterità non esclude quindi l’identità, la trascendenza non respinge l’immanenza. Dio e mondo sono pensati nella modalità della differenza ontologica, per cui Dio è nel mondo, come l’essere è nell’ente, distinguendosene. In questo ambito di significati è da ricondurre il senso ultimo di quella complicatio ed explicatio per cui il mondo dispiega nella differenza (explicatio) ciò che in Dio è raccolto (complicatio) nell’identità. Scrive infatti Cusano:

Dio è la complicatio di tutte le cose, il mondo ne è l’explicatio. Dio infatti è colui che complica tutte le cose, perché in lui vi sono tutte. Ed è colui che esplica, perché egli è in tutte.18

L’intelletto, per la sua aderenza ontica, non è in grado di seguire questo ordine di pensieri che, trascendendo, conducono dall’ente all’essere, dal finito all’infinito. Là dove l’ente non è più considerato nella sua identità con se stesso e nella sua differenza dagli altri enti, ma nella sua identità-differenza con l’essere, il pensiero intellettuale non vede altro che contraddizioni, ovvero dizioni che non si lasciano assestare all’interno del proprio sistema categoriale.

Ridotto l’essere a mera astrazione concettuale, ciò che resta a disposizione dell’intelletto è la sola realtà ontica. Definire quest’ultima, come fa Cusano “figura dell’infigurabile, esposizione dell’inesponibile”19 è per l’intelletto un non senso, perché l’essere, l’infigurabile, l’inesponibile, s’è ormai sottratto alla vista di chi ha occhi solo per l’ente che si espone e offre di sé immagine o figura (l’eîdos di Platone).

Lo stesso dicasi per quell’“origine di tutte le cose che non è da queste distinta né a queste identica”.20 Espressioni simili hanno perduto il loro senso con il progressivo smarrimento del senso dell’essere, di cui sono richiamo ed eco lontana. A esse si affiancano nella stessa sorte alcune fra le intuizioni religiose più alte, come quella di Paolo di Tarso, riferita dall’evangelista Luca e citata da Cusano: “Dio non è lontano da noi, perché noi siamo e ci muoviamo in lui”.21 In epoche in cui il divino è analogato sul mondano, come l’essere sull’ente, simili espressioni sbiadiscono fino all’insignificanza.

Al di là del sapere, la ricerca di Dio avvia lungo sentieri che conducono in prossimità dell’essere. Nel dialogo De Deo abscondito tra un pagano e un cristiano si sviluppa la seguente argomentazione:

Il pagano dice: Che sai tu del Dio che veneri?
Il cristiano risponde: Tutto ciò che io conosco non è Dio e tutto ciò che posso comprendere non è simile a lui. Egli sta al di sopra di tutto.

Quindi il nulla è Dio? Dio è nulla?
Niente affatto. Egli non è il nulla poiché il nulla ha per nome nulla e non Dio.

Se Dio non è il nulla, sarà forse allora qualcosa?
Niente affatto: Dio è tutto piuttosto che qualcosa.

Strano! Affermi dunque che Dio è nulla e non qualcosa?
Tutto ciò non può essere compreso da nessuno. Dio sta al di sopra e del nulla e del qualcosa.22

Nella conclusione di questo dialogo, che non può essere compresa da nessuno che la accosti con la logica dell’intelletto, Jaspers vede prefigurata la propria concezione dell’essere come quel tutto che è nulla di ente, senza per questo essere il nulla assoluto; quel tutto che non può essere compreso perché tutto comprende (umgreift). Anzi, come dice Cusano nel prosieguo del dialogo:

Esso si eleva al di sopra di tutto ciò che è o che non è, e l’uno e l’altro gli sono sottoposti. Egli stesso non è nulla di tutto ciò che viene dopo la sua onnipotenza.23

Qui, secondo Jaspers, Cusano giunge nelle prossimità del senso dell’essere, e il motivo ricorrente della coincidentia oppositorum si chiarisce proprio in questa direzione. Dire infatti che Dio è al di sopra di ciò che è o che non è non significa solo ribadire l’inadeguatezza della logica della non contraddizione per la comprensione dell’essere originario, ma significa affermare che l’essere è al di sopra di ogni cosa dicibile, perché ogni cosa, ogni ente è dicibile solo dopo che l’essere l’ha fatto essere e l’ha accolto nel campo della sua presenza. Solo allora si potrà dire dell’ente che è o che non è, solo allora potrà intervenire la logica della non contraddizione, non prima che l’essere abbia esplicato quella che Cusano chiama “la sua onnipotenza”, perché in questo caso nulla garantirebbe l’essere dalla possibilità di non essere.

Il principio di non contraddizione infatti, come s’è già detto,24 si limita a negare il simul, la coincidentia degli opposti, ma non che l’essere non sia, che il positivo non sia. Dove è evidente che la concessione di questa possibilità significherebbe la nientificazione del positivo, o, per dirla con la logica dell’intelletto, il massimo della contraddizione.

Di ciò Cusano è consapevole e quindi, a proposito dell’essere, elimina la disequazione tra possibilità e realtà che concede all’ente di poter anche non-essere. La coincidenza nell’essere dei due termini è l’esclusione della possibilità che l’essere non sia.

A questa coincidenza degli opposti Cusano dà un nome nuovo: “possest”, che non significa, come fu inteso, che Dio è realmente ciò che può essere, ma che l’essere divino non ospita la possibilità di nonessere, e, fuori del linguaggio teologico, che l’essere, proprio perché è l’essere e non l’ente, non può non-essere. Il possest di Cusano riconduce così all’enunciato di Parmenide e richiama le catene della giustizia (díke), che all’essere non concede la possibilità di non-essere. Scrive infatti Parmenide: “Per questo né il nascere né il perire gli concede díke, allentando le catene, ma lo tiene ben fermo”.25

Sottratto all’alterità che distingue gli enti, Dio è il “non altro (non aliud)”,26 come l’essere che, non avendo nulla a cui contrapporsi, non cade nella distinzione o nella separazione su cui opera l’umano intelletto in quanto distinctio e mensuratio. Per questo l’essere sfugge a ogni comprensione e a ogni attribuzione. Enunciarlo è impossibile senza l’alterità e la dualità e, quindi, scrive Cusano: “Non c’è nome che possa convenirgli, anche il termine Uno non gli si adatta in modo proprio”.27

Sebbene l’inesprimibilità sia qui affermata in senso letterale, essa non ha come conseguenza il silenzio della speculazione. Al contrario, la tensione di quest’ultima verso il Deus absconditus richiama da vicino la tensione del pensiero aurorale verso l’essere che è léthe. Di fronte a esso lo spirito umano è impotente, e se qualcosa gli è dato scorgere è solo per il sottrarsi dell’essere al nascondimento, è per il suo offrirsi come verità, nell’accezione greca di s-velamento (alétheia). Di qui la considerazione di Cusano: “Quanto più chiara è la verità tanto più facilmente la si può cogliere, ma io credo che si possa meglio trovarla nell’oscurità”.28

La verità dunque, anche per Cusano, è la luce del nascosto. A essa non si accede con “il pensiero intellettuale che si placa in ciò che può essere compreso”, ma con il pensiero filosofico che è éros, che è tensione verso “quell’intelligibile che si conosce come talmente intelligibile da non potersi mai comprendere”.29 A questo intelligibile Cusano ha dedicato uno dei suoi ultimi scritti: Caccia alla sapienza30 (che non è la scienza), dove anche nel titolo è sottolineato il momento tensionale (caccia) del pensiero filosofico, che non si conclude mai in un possesso definitivo.

Nessuno meglio di Cusano ha colto la differenza tra il momento tensionale della filosofia e il momento esplicativo della scienza. A differenza della filosofia, infatti, la scienza è esplicativa per il semplice fatto che il suo termine non è l’essere, ma l’oggettivazione del mondo, che essa stessa provvede a edificare con la propria conoscenza congetturale e ipotetica. La differenza tra scienza e filosofia è tutta qui: la scienza conosce perché, a differenza della filosofia, crea da sé il suo oggetto e lo trattiene nell’ipotesi matematica anticipata dalla congettura.31 Il suo obiettivo non è l’essere, che si svela sottraendosi a ogni spiegazione, ma è l’ente e la sua ipotetica costruzione. Prima di Galileo, e a un livello più profondo, Cusano ha colto la differenza che distingue, nell’essenza, scienza e filosofia.

Seguendo da vicino il De mente, si legge che “conoscere è misurare”. La misurazione è possibile solo se applicata al finito. Siccome la verità è commisurazione di finito e infinito, la conoscenza scientifica non ospita la verità.32 Nel De coniecturis, quasi in un proseguimento ideale, Cusano dice che la conoscenza è una congettura ipotetica creata dall’uomo con le ipotesi matematiche: “Le congetture scaturiscono dal nostro spirito come il mondo reale dalla ragione divina”.33

Non avendo l’oggetto matematico “altra realtà al di fuori di quella che possiede nel nostro spirito”, non si potrà procedere alla sua assolutizzazione e così cadere nella superstizione scientifica che scambia le proprie ipotesi per verità. La verità delle ipotesi matematiche non è nel loro significato enunciato, ma, dice Cusano, nel “significato translativo”,34 ovvero nel loro farsi cifre di quel pensiero trascendente che le impiega per quel tanto che in esse il divino si palesa in speculum et ænigmata.

A questo scopo è necessario leggere le figure matematiche non nell’ambito della finitezza in cui sono state congetturate, ma in quella proiezione infinita che determina la coincidenza di quanto, nel finito, si oppone e si distingue. Così il poligono e il cerchio sono figure opposte che non si identificano, ma proiettate all’infinito il poligono infinito è identico al cerchio. Il cerchio, a sua volta, proiettato all’infinito, diventa una retta dove gli archi coincidono con le corde.35 Così proiettati, gli oggetti matematici servono al pensiero trascendente come immagini, il cui senso è di significare quella coincidentia oppositorum che per la matematica del finito è pura e semplice contraddizione.

Rispetto al pensiero matematico della scienza che si trattiene nel mondo, il pensiero trascendente, che opera nella filosofia, tratta il mondo come linguaggio dell’essere. L’oggettività matematica diventa cifra, o, come dice Cusano nel De Beryllo, “metafora”, “simbolo”.36 Il senso dell’oggetto si dissolve nel simbolo significato, e in questo modo, come già accadeva in Platone con il mito, si tenta di superare la fondamentale insufficienza del nostro linguaggio finito e la sua incapacità a esprimere l’infinito.

Ma, si chiede Cusano, qual è il senso ultimo di quel matematico progettare che spinge l’attività spirituale dell’uomo a una creazione che imita e riproduce quella di Dio? Che cosa spinge l’uomo, che non è creatore delle cose reali, ad anticipare in uno spazio irreale quei progetti creativi in grado di trasformare ed elaborare una nuova realtà rispetto a quella data?37

La formulazione di queste domande è oltremodo illuminante. Con esse Cusano mostra di aver inteso il senso di quella che sarà la scienza moderna, diretta prosecutrice della teologia medioevale.38 Quest’ultima, infatti, aveva affidato le sorti dell’essere alla “tecnica divina (theîa téchne)”, la scienza la affiderà alla “tecnica umana (anthropíne téchne)”. Alla base di entrambe, osserva Jaspers, c’è “la consapevolezza dell’inconsistenza ontologica del mondo, della possibilità della sua frantumazione, congiunta alla volontà incondizionata di superarla”.39 Anche Cusano non è lontano da questa comprensione. Infatti, nella Lettera al cardinale Niccolò Albergati, Cusano scrive:

Per vivere bene secondo il modo di questo mondo, gli uomini impiegano sempre tutta la loro ragione soltanto come una schiava, per procurarsi la stabilità terrena. Questo possiamo vederlo nelle arti sia liberali sia meccaniche.40

Da questa considerazione possiamo dedurre che Cusano non conosce il sapere aude dei grandi scienziati moderni, ma avverte che la volontà di sapere può anche diventare tracotanza (hýbris), può diventare il peccato dell’Ulisse dantesco, quando, nel consolidamento dell’intelletto e della sua logica, scambia se stessa col sapere assoluto, dimenticando il carattere ipotetico dei suoi procedimenti e quello congetturale dei suoi risultati.

È questo il pericolo che corre la scienza in ogni tempo, soprattutto oggi in cui il prevalere del successo tecnico sembra oscurare la precarietà del metodo scientifico che l’ha generato.41 Cusano, nel cogliere il senso di questo richio, invita a non confondere il progresso infinito della scienza con il progetto della comprensione dell’infinito. L’infinito non è una meta lontana che si lascia conquistare a poco a poco. L’idea di progresso che anima la scienza non ha nulla da spartire con quell’essere-in-cammino della filosofia, che è già da sempre alla sua meta, senza peraltro possederla.

E questo perché la filosofia non crea il suo oggetto, non enuncia un sapere universale, non anticipa il tempo e il modo d’essere nel tempo: a definirla è piuttosto il non sapere, l’éros, la tensione all’essere. La scienza invece elabora un sapere vincolante, basato su un metodo iniziale di cui ha coscienza. Essa ha la pretesa di valere in modo universale, perché i suoi risultati godono di un’universale validità. In realtà, scrive Jaspers, essa è “scientificità universale” perché non c’è nulla che non possa ridurre a suo oggetto da un punto di vista determinato, ma non è “scienza universale” perché non conosce il senso della totalità.42

Incapace di giustificare da sé il proprio significato e il proprio valore, la scienza è, come dice Cusano, “un sapere esteriore basato su relazioni, comportamenti, figure”, un sapere che prevarica quando si pone come progetto della comprensione dell’assoluto in termini di universalità e necessità. Infatti, scrive Cusano:

L’assoluto non può essere conosciuto se non in quanto si mostra da sé. A chi lo cerca esso dà la sua luce senza la quale non lo si potrebbe cercare. L’uomo si ostruisce la via verso la verità quando ritiene come sola verità ciò che può misurare con il proprio intelletto.43

Alla tentazione dell’universale validità non sfugge neppure la religione quando, ponendosi come “cattolicità” (che significa “universalità”), pensa se stessa come unica e vera depositaria della parola di Dio.44 Contro questa posizione Cusano, nella Pax fidei, asserisce un fondamento comune alle diverse religioni al di là della varietà dei riti: “Una religio in rituum varietate”.45 Con questo assunto Cusano non approda a un generico consensum omnium pro bono pacis, ma, in perfetta coerenza con la sua teoria della congettura, esprime la consapevolezza che, se il Deus absconditus si rivela in speculum et ænigmata, nessuno può essere certo di aver inteso la sua parola secondo verità.

Nella comunicazione dialogica, infatti, noi sappiamo soltanto ciò che gli altri dicono e ciò che noi stessi diciamo, senza essere certi, nell’un caso e nell’altro, di intendere rettamente. Anche di fronte alla parola scritta la nostra comprensione può travisare il senso della fonte a cui attinge, in ogni caso nulla garantisce che il nostro intendere avvenga nei sensi e nei significati che la parola, nel suo annunciarsi, intendeva affidare.

All’equivocità del linguaggio non si sottrae neppure il Sacro, il suo parlare è per cifre, e nella cifra è il rischio della fede.46 Solidificare una fede, scambiarla per verità assoluta è volontà di potenza, o,come dice Jaspers: “È un mezzo per asservire all’interesse di potenza le forze della fede cui si fa appello”.47

“Fede istituzionalizzata e scienza moderna,” scrive ancora Jaspers, “sono la contropartita della metafisica”,48 ovvero di quella filosofia intellettualistica che ha pensato se stessa come scienza e ha preteso di ordinare l’universo ontico secondo criteri di universale validità. A questa metafisica Cusano s’è sottratto, accogliendo quelle idee che sono paradossali per l’intelletto, ma illuminanti per quel pensiero che è proteso alla meta finale e non all’ordinamento comparativo e incontraddittorio degli enunciati.

Lungo il cammino si incontrano opposizioni e polarità che i metafisici dell’ente scambiano per contraddizioni e quindi s’apprestano a criticare. Ma la critica non raggiunge il suo scopo, perché, quando traduce le figure del pensiero trascendente in affermazioni razionalmente univoche alla portata dell’intelletto in generale, le priva del loro significato, che non si riferisce all’ordinamento dell’ente, ma al senso dell’essere e alla modalità del suo svelarsi dalla sua ascosità.

1 K. Jaspers, Nikolaus Cusanus (1964); tr. it. Cusano, in I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, pp. 1033-1034.

2 Ivi, p. 1034.

3 Sulla differenza tra “ontologia” e “periecontologia” e sul particolare impiego che Jaspers fa di questi termini si veda il capitolo 34: “Necessità del naufragio di ogni ontologia. Ontologia e periecontologia”.

4 N. Cusano, De docta ignorantia (1440); tr. it. La dotta ignoranza, in La dotta ignoranza. Le congetture, Rusconi, Milano 1988, I, 3. Il commento di K. Jaspers a questa citazione, ne I grandi filosofi, cit., p. 851.

5 N. Cusano, De coniecturis (1441-1444); tr. it. Le congetture, in La dotta ignoranza. Le congetture, cit., I, 10; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 870.

6 N. Cusano, De coniecturis, cit., II, 16; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 870.

7 Cfr. Parte V: “Lo smarrirsi dell’essere in intelletto e volontà”.

8 N. Cusano, De visione Dei (1453); tr. it. (con testo latino a fronte) La visione di Dio, in Scritti filosofici, Zanichelli, Bologna 1965-1980, vol. II, § 12; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 853.

9 Ibidem.

10 Eraclito, fr. B 51.

11 N. Cusano, De principio (1459), in Opera Omnia, Meiner, Leipzig-Hamburg 1932-1985, vol. X, p. 11; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 910.

12 N. Cusano, La visione di Dio, cit., § 14; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 914.

13 N. Cusano, La visione di Dio, cit., § 13. La stessa denominazione compare anche in N. Cusano, Trialogus de possest (1460), tr. it. Trialogo sul poter essere, in Scritti filosofici cit., vol. I, § 11.

14 Id., La visione di Dio, cit., § 12; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 911.

15 N. Cusano, La dotta ignoranza, cit., II, 3; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 911.

16 Anassagora, fr. B 21 a.

17 N. Cusano, La dotta ignoranza, cit., II, 8; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 918.

18 N. Cusano, La dotta ignoranza, cit., II, 3; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 920.

19 N. Cusano, De principio, cit., p. 35; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 919.

20 Ibidem.

21 Luca, Atti degli apostoli, 17, 28.

22 N. Cusano, De Deo abscondito (1443); tr. it. Il Dio nascosto, in Scritti filosofici, cit., vol. II, § 35; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 903.

23 Ibidem.

24 Cfr. il capitolo 33: “La sublimazione di intelletto e volontà nella determinazione teologica dell’essere”, e in particolare il passo a cui fa riferimento la nota 3.

25 Parmenide, fr. B 8, vv. 17-19.

26 N. Cusano, De non aliud (1462), in Opera Omnia, cit., vol. XIII; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., pp. 905-906.

27 N. Cusano, De principio, cit., p 52; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 904.

28 N. Cusano, De apice theoriæ (1464); tr. it. L’apice della teoria, in Scritti filosofici, cit., vol. I, § 8; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 908.

29 N. Cusano, La visione di Dio, cit., § 11; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 857.

30 N. Cusano, De venatione sapientiæ (1462), in Opera omnia, cit., vol. XII.

31 Si vedano a questo proposito la Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanismo”, e la Parte IX: “L’anticipazione della ragione e l’assicurazione dell’ente”. Sulla natura della scienza e sulla sua differenza dalla filosofia ha particolarmente insistito F. Nietzsche, Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne (1873), tr. it. Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, Adelphi, Milano 1973, vol. III, 2, pp. 363-364, dove si parla dell’uomo come “genio costruttore” della concettualità.

32 N. Cusano, De mente (1450), in Idiota, Libro III; tr. it. La mente, in Scritti filosofici, cit., vol. I, § 9; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 862.

33 N. Cusano, Le congetture, cit., I, 3; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 864.

34 N. Cusano, La dotta ignoranza, cit., I, 16; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 894.

35 N. Cusano, La dotta ignoranza, cit., I, 12; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 893.

36 N. Cusano, De beryllo (1458); tr. it. Il berillo, in Scritti filosofici, cit., vol. II.

37 Id., De geometricis trasmutationibus (1445), in Opera Omnia, cit., vol. XXI, capitolo I; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., pp. 938-951.

38 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 33: “L’epoca moderna e il primato della scienza e della tecnica come deriva teologica”.

39 K. Jaspers, Cusano, in I grandi filosofi, cit., p. 947.

40 N. Cusano, Brief an Nicolaus Albergati (1438), in “Akten der Heidelbergs Akademie”, Heidelberg 1955, p. 27; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 948.

41 Qui Jaspers coglie il rischio nichilista che corre la scienza moderna quando, da scienza (Wissenschaft), si trasforma in superstizione scientifica (Wissenschaftsaberglaube). Si vedano a questo proposito il capitolo 57: “La superstizione scientifica e i miti del potere e del progresso”, e il capitolo 76: “Il nichilismo secondo Jaspers”.

42 K. Jaspers, Cusano, in I grandi filosofi, cit., pp. 946-951.

43 N. Cusano, De quærendo Deum (1445); tr. it. La ricerca di Dio, in Scritti filosofici, cit., vol. II, § 3; in K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 955.

44 Sulla pretesa universalistica della Chiesa cattolica si veda K. Jaspers, Der philosophische Glaube (1948); tr. it. La fede filosofica, Marietti, Torino 1973, Lezione IV: “Filosofia e religione”, pp. 108-137, nonché: K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, capitolo I: “Dalla storia della fede della Chiesa: i confini concettuali della fede rivelata”, pp. 43-108. Per un commento a queste pagine si veda il capitolo 85: “La fede come tutela della verità e la fede come dimenticanza e alienazione della verità”.

45 N. Cusano, Pax fidei (1453); tr. it. La pace nella fede, in Opere religiose, Utet, Torino 1993, § 16, pp. 659-662.

46 Sull’equivocità del linguaggio del sacro si veda U. Galimberti, Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, mentre sull’uso jaspersiano della nozione di “cifra” rinvio alla Parte XIV: “Jaspers e il linguaggio della scrittura cifrata”.

47 K. Jaspers, Cusano, in I grandi filosofi, cit., p. 984.

48 Ivi, p. 1013.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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