77.
Il nichilismo secondo Heidegger
Nella dimenticanza dell’essere, promuovere solo l’ente, questo è nichilismo.
M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica (1935-1953), p. 207.
Coerentemente alla propria interpretazione di Nietzsche, Heidegger osserva:
Se Dio come causa ultrasensibile e come fine di ogni realtà è morto, se il mondo sovrasensibile delle idee ha perso la sua forza normativa, e soprattutto la sua forza di risveglio e di elevazione, non resta più nulla a cui l’uomo possa attenersi e secondo cui possa regolarsi. Per questo Nietzsche scrive: “Non andiamo forse errando in un nulla infinito?”. L’espressione “Dio è morto” è la constatazione che questo nulla dilaga. “Nulla” qui significa assenza di un mondo ultrasensibile e vincolante. Il nichilismo, “il più inquietante fra tutti gli ospiti” batte alla porta.1
Annunciare la morte di Dio significa dunque annunciare la fine di quel mondo sovrasensibile o realtà prima che pretendeva di porsi come condizione e norma del mondo sensibile. Se non che, osserva Heidegger, il “no” di Nietzsche ai valori della tradizione corrisponde al “sì” pronunciato a favore della nuova posizione di valore rappresentata dalla volontà di potenza, sicché, accanto alla prospettiva negativa, propria del rifiuto di tutti i valori affermati, c’è la prospettiva positiva del loro capovolgimento nei rispettivi contrari. Alla verità come certezza soggettiva, che assicura l’ente-oggetto della rappresentazione dell’uomo, succede la verità come volontà soggettiva che verifica la sua potenza nel progressivo dominio della totalità dell’ente.
In base a questa analisi, Nietzsche, pur denunciando il nichilismo dell’Occidente, non lo oltrepassa, ma lo porta a compimento, indicando nella volontà di potenza il vero fondamento dei valori che Platone aveva fatto valere nell’iperuranio. Per superare veramente il nichilismo è necessario addentrarsi profondamente in esso, sì da poterne cogliere la vera essenza che risiede nell’oblio dell’essere. Per questo, non basta distruggere l’iperuranicità dei valori (la sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”), ma occorre distruggere anche la volontà di potenza, quale ultima espressione di quella metafisica dell’Occidente che pretende di far valere l’ente senza l’essere. Infatti, scrive Heidegger: “Nella dimenticanza dell’essere, promuovere solo l’ente, questo è nichilismo”.2
Per Heidegger quindi c’è nichilismo quando l’ente è considerato come il tutto, sicché dell’essere ne è nulla. In questa prospettiva, pensare per valori è solo un modo di non lasciar essere l’essere; altri modi sono: il primato della determinazione teologica, il soggettivismo dell’età moderna, la scienza, la tecnica, la volontà di potenza. Ad accomunare tutte queste espressioni, in cui si è articolata la metafisica dell’Occidente, è sempre la stessa domanda a cui segue sempre la stessa risposta:
Che ne è dell’essere? Dell’essere ne è nulla! E se proprio qui si rivelasse l’essenza del nichilismo finora rimasta nascosta?3
L’essenza nichilista dell’Occidente è rimasta finora nascosta perché, se qualcosa ha voluto l’uomo occidentale in tutta la sua storia, questo qualcosa è proprio l’essere dell’ente, la cui conquista coincide con l’allontanamento definitivo del nulla: “il più inquietante fra tutti gli ospiti”. Ma in questo tentativo il pensiero prometeico dell’Occidente s’è messo su una strada impraticabile, a partire dalla convinzione che nulla poteva resistere alla sua conquista, e che la conquista era tanto più degna quanto più realizzava la sicurezza dell’ente, quanto più sottraeva l’ente alla precarietà sua propria.
Animato da questa convinzione, l’Occidente, giunto alla sua sera, avverte che: “il nichilismo batte alla porta”. La situazione inquietante ha la sua remota spiegazione nel fatto che, a partire da Platone, l’Occidente ha pensato di assicurarsi l’essere dell’ente dissolvendo l’essere e privilegiando l’ente, onde sottrarre quest’ultimo a quella insicurezza e a quella problematicità tra essere e non-essere che avrebbe reso precario il dominio dell’uomo. Nato dal problema dell’essere, il pensiero occidentale è così giunto alla sua negazione, che non consiste nell’annullamento dell’essere, ma nella considerazione dell’ente come tutto, per cui dell’essere ne è nulla.
Il nichilismo, così specificato, non è solo l’epilogo dell’Occidente, ma è ciò che ha accompagnato l’intera storia del suo pensiero. Nel pensare metafisico dell’Occidente, osserva infatti Heidegger:
Si crede che il rapporto con l’“essere” sia già sufficientemente determinato attraverso il chiarimento della relazione dell’uomo con l’ente. Si considerano entrambi, la relazione all’ente e il riferimento all’essere, come la “medesima cosa”, e ciò anche con un certo diritto. Nella posizione di tale identità si manifesta il tratto fondamentale del pensare metafisico.4
Se la metafisica, come s’è sviluppata in Occidente, consiste nel tentativo di assicurare l’ente, per risolvere così il problema dell’essere, in questo suo tentativo la metafisica denuncia che l’ente per sé non è assicurato. Essa, quindi, si mette in moto perché conosce la precarietà dell’ente, ma il pensiero che promuove non è in vista del suo mantenimento, bensì della sua totale abolizione. Come tale, la metafisica è nichilista fin dalle origini. Nonostante la grandiosità di ciò che pone in atto, essa non mira che a far dimenticare il problema che l’ha originata, mostrando che la possibilità inizialmente apparsa del non-essere dell’ente è in effetti priva di consistenza, dato il legame necessario che essa pone fra l’essere e ogni possibile ente, o, come dice Heidegger: “trattando la relazione all’ente e il riferimento all’essere come ‘la medesima cosa’”.
Per superare il nichilismo, Heidegger propone di riaprire il rapporto essere-ente chiuso dalla metafisica occidentale. La riapertura di questo rapporto richiede che si prenda coscienza che tutti i tentativi messi in atto dal pensiero occidentale per assicurare l’ente, onde sottrarlo alla problematicità in cui l’essere lo lascia essere, non assicurano, ma sono solo il frutto di un’indomita volontà di potenza, che ancora non riesce a pareggiare se stessa nel possesso definitivo dell’ente.
Ripensare l’inefficacia di questi tentativi significa ripensare l’incapacità salvifica di quelle figure a cui finora l’Occidente si è affidato. Il loro nome, come s’è visto, risponde a quello di “teologia”, “umanismo”, “matematismo”, “scienza”, “tecnica”. Smascherare l’intento in esse celato e mostrarne l’inefficacia era assolutamente necessario, perché fin che si crede che l’ente è in qualche modo assicurato, il problema dell’essere non riappare, dal momento che il suo senso è là dove l’ente vacilla, dove nessuna assicurazione più assicura. D’altra parte il non riapparire dell’essere è il permanere del nichilismo, è il trattenersi della verità come a-létheia nella sua solitudine, che è poi il suo nascondimento, la sua léthe.
Il nichilismo sotteso alla metafisica dell’Occidente appartiene alla solitudine dell’essere (Seinsverlassenheit), al suo ritirarsi, al suo rifiutarsi alla manifestazione. Proprio perché l’essere si ritira, è concesso (verlassen) all’ente di emergere, di apparire come ente. La metafisica, come cura esclusiva dell’ente, è inevitabilmente la negazione della verità dell’essere, e quindi nichilismo, ma il nichilismo appartiene alla stessa verità dell’essere come suo rifiuto ad apparire, affinché l’ente appaia abbandonato a se stesso e quindi nella sua più radicale precarietà. In questo senso, scrive Heidegger:
Ciò che propriamente accade è l’abbandono dell’ente da parte dell’essere. L’essere, cioè, lascia l’ente a se stesso e in ciò si rifiuta. Se questo rifiuto (Verweigerung) viene esperito, è già accaduto uno schiarirsi (Lichtung) dell’essere, giacché tale rifiuto non è niente, non è nemmeno qualcosa di negativo, un mancare, un’interruzione (Ab-bruch). È la prima iniziale manifestazione dell’essere nella sua problematicità – in quanto essere.5
Nel pensiero che riflette su questo rifiuto è custodita la possibilità del superamento del nichilismo, ma perché ciò accada è necessario che all’oblio dell’essere non si aggiunga l’oblio dell’oblio che, oltre all’assente, dimentica il senso dell’assenza. Non è infatti l’assentarsi dell’essere a determinare il tramonto dell’Occidente, perché l’assentarsi appartiene al destino (Geschick) dell’essere, come suo advenire (schicken) nell’ente, trattenendosi (verweigern) come essere. Questo ad-venire trattenendosi dischiude la storia (Geschichte) come ventura (Geschick) dell’essere che, nelle varie epoche, si annuncia assentandosi (epoché).
A determinare il tramonto dell’Occidente non è dunque l’assenza dell’essere, ma l’oblio dell’assenza, per cui si crede che l’ente possa sussistere da sé indipendentemente dall’essere. Questa persuasione estingue il problema e rende insensata ogni domanda relativa al senso. Che senso ha, infatti, chiedere il senso di ciò che è, perché un calcolo o un progetto l’ha posto in essere? Non ha nessun senso se non quello dell’ignoranza del calcolo e del progetto.
L’unico pensiero in cui si riconosce oggi l’Occidente è quello che stabilisce la corrispondenza di ogni cosa al suo calcolo e al suo progetto, e poi misura la bontà del calcolo e del progetto sulla rispettiva capacità di far essere la cosa. In questo efficientismo, riscontrabile a tutti i livelli, si concludono le possibilità di quel pensiero che ha evocato a sé, sottraendolo all’essere, il compito di far essere e non essere tutte le cose.
La civiltà che ne deriva è quella della produzione e del consumo, della costruzione e della distruzione, che reciprocamente si richiamano e si implicano in un circolo vizioso così stretto e rigoroso da non tollerare spazi vuoti o tempi morti, perché non avrebbero alcun “senso”. Senza senso è anche chiedere il senso dell’efficientismo, perché ogni domanda si pone all’interno del circolo e non investe mai il circolo, che dunque risulta insensato, non perché privo di pensiero, ma perché ha talmente sviluppato il calcolo per assicurarsi l’ente, che nulla più resta di indeciso e di problematico, e quindi nulla più di aperto all’acquisizione del senso dell’essere dell’ente.
L’oblio dell’essere e l’oblio dell’oblio hanno così portato la nostra epoca all’insensatezza, in quanto l’hanno privata della possibilità di cogliere il senso dell’essere, l’apertura della sua verità. Là dove è già deciso che vero è “ciò che è buono a” far essere l’ente, e falso è ciò che non dispone di questa capacità, occuparsi della verità non potrà aver altro significato se non quello di far corrispondere ogni cosa al suo progetto e ogni progetto al criterio dell’efficienza.
E non è forse questo l’ambito in cui si trova inserito l’uomo che appartiene alla civiltà occidentale, ovvero alla civiltà della scienza e della tecnica? E non è stato questo l’ambito dischiuso dalla metafisica platonica che ha cominciato a misurare il senso di ogni cosa su tò Agathón, su “ciò che è buono a”, invece che sulla verità, come originaria e incondizionata apertura all’essere? Non è tutto ciò conseguente e, nella sua assenza di senso, terribilmente sensato? Heidegger, a proposito della connessione tra l’eliminazione platonica della problematicità dell’ente e l’insensatezza (Sinn-losigkeit) della nostra epoca, fa la seguente considerazione:
Il senza-senso (das Sinnlose) è ciò che è privo della verità (dello schiarirsi) dell’essere. Ogni possibilità di un tale progetto è negata entro la metafisica in base all’accantonamento dell’essenza della verità. Dove è già decisa perfino la domanda circa l’essenza della verità dell’ente e del rapportarsi a esso, tanto più deve mancare la riflessione sulla verità dell’essere, in quanto domanda più originaria dell’essenza della verità.6
Il senso dell’essere, dunque, la sua verità, può trovare spazio solo là dove la domanda sull’essere non è resa insignificante dalla determinazione aprioristica che ha già tutto deciso circa l’ente, perché in questo caso non resterebbe più nulla da chiedere e più nulla da decidere. Forse l’ultimo senso dell’Occidente si raccoglie proprio in questo nulla che assume il significato di un congedo, il congedo dell’essere dalla terra del tramonto.
1 M. Heidegger, Nietzsches Wort “Gott ist tot” (1943); tr. it. La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 198-199.
2 Id., Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 207.
3 Id., La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, cit., p. 238.
4 Id., Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 703.
5 Ivi, pp. 560-561.
6 Ivi, pp. 554-555.