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Dalla teoria alla prassi: il capovolgimento di un êthos
Êthos significa soggiorno, luogo dell’abitare. La parola nomina la regione dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza.
M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo” (1946), p. 306.
Se êthos, come vuole Heidegger, significa “soggiorno (Aufenthalt)” il modo greco di soggiornare nel mondo non è il modo occidentale, per il diverso significato che il termine “mondo” possiede nelle due culture. Se il mondo è phýsis che “dischiudendosi si manifesta”, l’uomo si lascia sorprendere dallo stupore proprio di chi si meraviglia di fronte allo spettacolo cosmico che si dispiega. Stupirsi è possibile solo di fronte all’incomprensione del sorprendente.
Per superare questa incomprensione l’uomo comincia a riflettere. La riflessione su quanto stupisce è puro theoreîn, è desiderio di vedere (theáomai), di comprendere perché qualcosa in generale sia, e sia così come si manifesta. Questo vedere che indaga, sollecitato dallo stupore, è il vedere tipico della filosofia in quanto epistéme theoretiké, il suo theoreîn è senza scopo, prescinde da qualsiasi intenzione, è puro amore dell’intendimento.
Con lo smarrimento del senso cosmico della phýsis e con la sua riduzione a mondo da utilizzare, l’intendimento teoretico ha ceduto progressivamente il posto a quello pratico, a cui non interessa il mondo nella sua totalità, ma le cose utili che il mondo offre. Il passaggio dalla filosofia alla scienza moderna è tutto qui.
La scienza non vive lo stupore teoretico, il suo pensiero è disincantato, il suo intento è di ricondurre ogni cosa alla sua causa in modo che ogni evento non stupisca, ma si lasci in qualche modo prevedere, come qualsiasi effetto in presenza della causa. Se poi qualche evento sortisce imprevisto, la scienza riformula se stessa in maniera da non lasciare nulla fuori di sé. In questo modo Umgreifende non è più la phýsis, ma il sistema scientifico delle anticipazioni che controllano il divenire della phýsis ormai ridotta a “natura”.1
Come la coscienza storica,2 anche la scienza e l’intendimento pratico che la caratterizza sono nati in Occidente. La coincidenza non è casuale. Infatti la conoscenza pratica si interessa solo di ciò che ha importanza ora e nel prossimo futuro, mentre è tipico dell’intendimento teoretico occuparsi, come dice Aristotele, “di ciò che è sempre (aeí) o perlopiù (tò polú)”.3
Il pensiero giudaico-cristiano, nella contrapposizione Dio-mondo, ha nettamente diviso ciò che è sempre da ciò che ha un’origine e una fine, per cui il concetto greco di theoría ha continuato a vivere nel concetto cristiano di contemplatio, ma limitatamente alla conoscenza di Dio. Nella concezione giudaico-cristiana, infatti, il mondo non è da contemplare, ma da utilizzare, e chi dovesse attenersi esclusivamente al mondo (contentus mundi), come dice Agostino, perderebbe di vista Dio (non cognoscit Deum).4 A questo punto, siccome l’uomo soggiorna nel mondo, diventa estremamente conseguente al discorso giudaico-cristiano il programma baconiano delle scienze naturali e quello marxiano delle scienze umane. Entrambe infatti innalzano la prassi a criterio di verifica della teoria.
Mutata la concezione del soggiorno (êthos) muta anche il modo di soggiornare (tà ethiká), se l’êthos non è più la phýsis, ma il mondo, ciò che si impone non è più la contemplazione, ma la sua trasformazione. La storia dell’Occidente è appunto la storia della trasformazione del mondo e della sua utilizzazione in vista di ciò che all’uomo importa ora e nel prossimo futuro. Su questa base si spiega come mai la filosofia da pura teoria, come era concepita da Aristotele, diventi, con l’età moderna, indagine del mondo naturale e quindi filosofia morale e politica. La distinzione baconiana tra filosofia naturale e filosofia umana tenderà progressivamente a ridursi, fino a giungere alla subordinazione della prima alla seconda, in base alla concezione giudaico-cristiana che prevede, tra tutte le creature del mondo, la posizione privilegiata dell’uomo in quanto imago Dei.
Per i Greci l’opera suprema della natura non era l’uomo mortale, ma, come dice Aristotele, gli astri con il loro eterno movimento circolare.5 Per Pascal, invece, e quindi per l’età moderna, l’intero universo non può reggere al confronto di un solo pensiero dell’uomo, perché l’uomo ha coscienza di sé e del mondo, mentre questo non sa nulla né di sé né dell’uomo.6
Il primato della coscienza, che in termini così decisivi viene alla luce all’inizio dell’età moderna, fino a diventare la forma della filosofia che la presiede, si lascia spiegare presupponendo, alle spalle di quest’ultima, quella cultura giudaico-cristiana che privilegia l’uomo distanziandolo dal mondo e accostandolo al divino. Non a caso il problema della coscienza e dell’autocoscienza compare per la prima volta proprio nella speculazione cristiana di Agostino, riappare in quella di Lutero e di Pascal, per estendersi, infine, come forma del pensiero moderno, dal cogito cartesiano al concetto sartriano dell’être pour soi.7
Se il divino non è più un carattere del cosmo, ma è un soggetto di fronte al mondo, che guarda il mondo come sua creatura, e se l’uomo non è più un essere naturale fornito di linguaggio, ma “fatto a immagine e somiglianza di Dio”,8 sarà facile, nell’età moderna, il passaggio alla costruzione del mondo a opera dell’uomo che, avvalendosi della scienza, imita l’originario progetto divino del mondo.
In questa linea troviamo Cartesio, per il quale la natura non è la phýsis, ma “l’ordine e la disposizione che Dio ha stabilito nell’insieme delle cose create”. Quest’ordine e questa disposizione Cartesio non li cerca nell’esteriorità del mondo da cui si è distanziato con il dubbio, ma nell’interiorità della res cogitans dove, tra le idee innate, vi sono quelle matematiche “mediante le quali si può costruire il mondo fisico e lo si può dominare per mezzo di questa costruzione”.9
La garanzia della loro verità è in Dio, che il cogito, raccolto nella propria interiorità e senza appellarsi al mondo, è stato in grado di dimostrare. Il circolo vizioso sotteso al procedimento che dal pensiero non-garantito conduce a Dio, garanzia del pensiero, rivela come Dio altro non sia se non un nome volto a significare il perfetto logico, in cui si raccoglie il pensiero umano nel momento in cui si appresta a dare a ogni cosa il suo nome matematico. E, come leggiamo nel Genesi: “quello sarebbe stato il suo vero nome”.10
È vero che, come “perfetto logico”, il Dio di Cartesio è il Dio dei filosofi e non, come osserva opportunamente Pascal: “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”,11 ma è altrettanto vero che l’intimità uomo-Dio, che in Cartesio diventa fondamento della validità del pensiero matematico e quindi della ricostruzione fisico-matematica del mondo, non proviene dalla filosofia greca, ma dalla tradizione giudaico-cristiana. Questo legame si accentua nell’occasionalismo di Malebranche, per il quale “il rapporto tra lo spirito umano e Dio è naturale, necessario e assolutamente indispensabile, mentre il rapporto tra il nostro spirito e il nostro corpo non è assolutamente necessario né indispensabile”.12
Questa indipendenza della coscienza o spirito dell’uomo dal mondo (di evidente derivazione giudaico-cristiana) andrà via via radicalizzandosi fino a diventare il fondamento della concezione meccanicista e costruttivista moderna. Siccome i principi della memoria sono di natura matematica, detti principi hanno la loro dimora nell’uomo che li ha es-cogitati, per cui non stupisce l’affermazione di Kant: “Chi vuole conoscere il mondo deve prima costruirlo, cioè progettarne l’impalcatura fondamentale e proprio in se stesso”.13
Il mondo, che in sé è un’idea regolativa, è così risolto nella coscienza, perché, per Kant, la questione non è che cosa sia il mondo, ma che cosa noi possiamo sapere del mondo. Nella Critica del giudizio un mondo senza Dio parve a Kant tanto impossibile quanto un mondo che non avesse come scopo finale l’uomo. Entrambi i presupposti sono di provenienza giudaico-cristiana, il loro sviluppo non sarà in direzione teologica, ma antropologica. L’uomo sarà pensato come lógos del mondo, e come tale in grado di imporre la sua logica a tutte le cose del mondo.
Qui ritroviamo la filosofia di Hegel. Il suo disinteresse per la natura non deve trarre in inganno. Infatti solo chi, in virtù della coscienza cristiana, si sa libero di fronte al mondo, possiede anche la volontà di dominarlo imponendosi a esso. Certo le modalità del dominio non sono le stesse che si ritrovano in Cartesio e in Leibniz. Con Hegel si rifiuta la ragione matematica onnicalcolante, ma non si rifiuta, anzi si accentua in maniera decisiva, il primato dell’uomo come ragione divina.
Concepito l’essere come essere-cosciente (Bewusst-sein), a esprimerlo non è più il kósmos eterno dei Greci che non conosce se stesso, ma lo Spirito del mondo, ovvero la storia dell’uomo che possiede ed esprime il lógos. Alla phýsis che crea subentra la natura creata dallo Spirito, la natura che vive in quanto l’Idea vi si dischiude. Ancora una volta il depotenziamento della natura implica il potenziamento dell’uomo, riconfermato nella sua dimensione biblica di imago Dei. A questo punto la riduzione feuerbachiana della teologia ad antropologia e la riduzione del mondo a proprietà dell’uomo è logica conseguenza.
L’ipotesi marxiana che subordina la contemplazione del mondo alla sua trasformazione,14 si lascia comprendere solo in un contesto in cui il mondo è dell’uomo e la natura è il materiale messo a sua disposizione. Ancora una volta siamo in un contesto biblico e non greco, dove la natura dominava tutte le cose (natura rerum) e persino gli dèi (natura deorum).
Depotenziati gli dèi e ridotta la natura a materiale d’appropriazione, il compito che attende la filosofia è quello della distribuzione del possesso. Non basta che l’umanità sia divenuta signora della natura, è necessario che l’uomo cessi di essere schiavo dell’uomo. Alla rivoluzione scientifica deve seguire la rivoluzione sociale, e alla filosofia, che a questo punto deve fare tutt’uno con la storia, spetta il compito di studiarne i metodi e le modalità.
Lo Spirito del mondo di Hegel, in cui ancora si raccoglievano le ultime tracce della filosofia come teoria, diventa il mercato mondiale dei mezzi di produzione, ma questi, per quanto materiali, acquistano forza spirituale, perché sono in funzione della liberazione dell’uomo. Al biblico popolo ebreo si sostituisce il proletariato la cui “sete di giustizia”,15 come scrive Marx, non conosce ostacoli.
La trasformazione della teoria in prassi è così giunta al compimento, il suo senso è custodito nel suo inizio, e precisamente là dove ha avuto luogo il mutamento del senso della terra, da cosmo greco a mondo biblico.
1 A proposito della differenza tra la phýsis greca e la natura latina si veda il capitolo 10: “L’essere come phýsis”.
2 Cfr. il capitolo 40: “Dalla phÿsis al mondo come età dell’uomo”.
3 Aristotele, Metafisica, Libro VI, 1026 b, 35.
4 Agostino di Tagaste, In epistolam Iohannis ad Parthos (415), Discorso II, §§ 89; tr. it. Commento alla prima lettera di Giovanni, in Amore assoluto e “Terza navigazione”, Rusconi, Milano 1994, pp. 148-153. Il testo al § 8 recita: “Come potremo amare Dio, se amiamo il mondo? Due sono gli amori; quello del mondo, quello di Dio: se abita in noi l’amore del mondo, non è possibile che entri anche l’amore di Dio. Si allontani l’amore del mondo, e abiti in noi l’amore di Dio (Quomodo poterimus amare Deum, si amamus mundum? Duo sunt amores, mundi et Dei: si mundi amor habitet, non est qua intret amor Dei. Recedat amor mundi, et habitet Dei)”; e al § 9: “Non amate il mondo e neppure le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo l’amore del Padre non è in lui (Nolite diligere mundum, neque ea quæ sunt in mundo. Si quis dilexerit mundum, non est charitas Patris in eo)”. Lo stesso motivo ritorna nel De civitate Dei (413-426), XIV, 28; tr. it. La città di Dio, Rusconi, Milano 1984, pp. 691-692, e In Iohannis evangelium tractatus (414-416); tr. it. Commento al vangelo di S. Giovanni, Città Nuova, Roma 1968, vol. II, 11.
5 Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro VI, 7, 1141 a-b. Recita il testo aristotelico: “Sarebbe assurdo pensare che la politica o la saggezza siano le forme più alte di conoscenza, a meno di non pensare che l’uomo sia la realtà di maggior valore nel cosmo. [...] Di fatto ci sono realtà di natura ben più divina dell’uomo come, ad esempio, i corpi celesti di cui è costituito il cosmo”.
6 B. Pascal, Pensées (1657-1662, prima edizione 1670); tr. it. Pensieri, Rusconi, Milano 1993. Recita, nella numerazione Chevalier, il pensiero 264: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma anche quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale”.
7 J.-P. Sartre, L’être et le néant (1943); tr. it. L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1966.
8 Genesi, 1, 26.
9 R. Descartes, Meditationes de prima philosophia (1641); tr. it. Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. II, Quinta meditazione, p. 65.
10 Genesi, 2, 19.
11 B. Pascal, Pensieri, cit. Recita il pensiero 602: “Il Dio dei cristiani non consiste semplicemente in un Dio autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi, come vuole la posizione dei pagani e degli epicurei. Non consiste neppure semplicemente in un Dio che esercita la propria provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini, per donare una felice serie di anni a chi lo adora, come vuole la posizione degli Ebrei. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani è un Dio d’amore e di consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli che egli possiede; è un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la sua misericordia infinita, che si unisce al più profondo della loro anima, che la riempie di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore; che li rende incapaci di altro fine che non sia lui stesso”.
12 N. Malebranche, De la recherche de la vérité (1674); tr. it. La ricerca della verità, Laterza, Bari 1983, Prefazione, pp. 3-4.
13 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft (1790); tr. it. Critica del giudizio, Laterza, Bari 1960, p. 304.
14 K. Marx, Thesen über Feuerbach (1845), prima edizione in F. Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, Stuttgart 1888; tr. it. Tesi su Feuerbach, in Marx Engels Opere Complete, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. V, tesi XI, p. 5: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, si tratta di trasformarlo”.
15 K. Marx, F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei (1848); tr. it. Manifesto del partito comunista, in Marx Engels Opere Complete, cit., 1973, vol. VI, p. 493.