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Plotino: l’ineffabilità dell’Uno e il linguaggio della preghiera
Se cerchi l’Uno, non cercare nulla al di fuori di questo Principio. Cerca piuttosto le cose che vengono dall’Uno, ma l’Uno lascialo stare. Infatti ciò che è al di fuori è ancora l’Uno, poiché egli abbraccia e misura ogni cosa (perílepsis pánton kaì métron).
PLOTINO, Enneadi, VI, 8, 18.
C’è una traccia che dall’antichità conduce all’epoca moderna in cui la comprensione dell’essere non è del tutto smarrita, pur essendo la sua manifestazione occultata dall’imporsi dell’intelletto e della volontà.1 È una traccia esile, discontinua, inconseguente. Si annuncia in pensieri isolati che compaiono in sistemi che, pur appartenendo integralmente al tempo dell’oblio, ne contraddicono in un certo modo la logica, quasi un richiamo al senso perduto. Il loro linguaggio denuncia un’incoerenza di fondo con il significato espresso dal tempo: ospita infatti la tautologia, la contraddizione, a volte addirittura il silenzio, l’estinguersi della parola che non osa nominare ciò che sfugge a ogni denominazione. Si tratta perlopiù di pensieri che furono immediatamente confutati.
Di fronte alla tautologia e alla contraddizione l’intelletto ha sempre avuto “buone ragioni” per tradurre nell’insignificanza quanto minacciava di incrinare il perfetto edificio costruito. Ma queste ragioni erano buone per l’intelletto e per la volontà che lo animava, non per l’autentico filosofare che, incurante degli edifici formali, custodisce da sempre il mistero dell’essere. Questi pensieri che, pur nella loro incoerenza e sconnessione logica, vi si riferiscono, sono giunti, custoditi dalla filosofia, fino a noi, per offrirsi al pensiero del nostro tempo come cifre che rinviano a quell’impensato che resta da pensare: il senso dell’essere. Ne I grandi filosofi Jaspers ne ha operato una paziente ricerca individuando quelli che, a suo parere, sono tra “coloro la cui parola attinge all’origine”.2
Nella sua esposizione e nel suo commento alle Enneadi di Plotino, Jaspers afferma che per il filosofo di Licopoli:
Noi dobbiamo trattenerci laddove l’Uno ci si fa presente e dove non c’è nulla di ciò che viene dopo di esso; qui dobbiamo sentire il nostro stupore, qui restare in tranquillità, in contemplazione. Dobbiamo scoprire l’Uno nelle cose che seguono a esso e ne sono il riflesso.3
Affrontato con la logica dell’intelletto, il discorso di Plotino si dissolve; le espressioni assumono la tonalità evanescente della poesia; il principio, che è distanziato nella più esasperata trascendenza, è accostato nell’intima immanenza dell’emanazione (apórroia); le categorie logiche, che nel tentativo di ordinare il pensiero in sistema naufragano, sono affermate per essere immediatamente negate nel trascendimento, il loro impiego si smarrisce nella contraddizione che vorrebbero eliminare. Ma tant’è, in Plotino il discorso è dell’essere, non dell’intelletto umano. L’essere è quel nulla di ente (mè ón) che, pur sostanziando la totalità ontica, se ne distingue secondo quella modalità che solo la trascendenza immanente è in grado di esprimere, per custodire quell’identità-differenza in cui si raccoglie il senso dell’essere e la sua geneticità incondizionata.
L’essere non è l’ente, anzi nei confronti dell’ente è niente. Infatti, scrive Jaspers, Plotino dice che: “Questo è il miracolo che si presenta allo spirito: l’Uno è, ma non è ente”.4 La denominazione negativa conferisce all’essere la positività dell’originario che non soggiace ad alcuna determinazione o categoria del pensiero, perché l’originario non si lascia de-finire. “Esso non è nulla di ciò di cui esso stesso è fondamento originario.”5 Il suo sottrarsi al pensiero è il suo sottrarsi alla parola. Per questo Plotino dice: “Se parli dell’Uno non aggiungere altro nel tuo pensiero, perché se aggiungi qualche altra cosa lo avrai diminuito di tanto quanto vi avrai aggiunto”.6
Il pensiero quindi può accostarsi all’essere solo nel silenzio. L’intimità che vi si realizza non è di tipo conoscitivo, ma, come dice Plotino, è un “trattenersi laddove l’Uno si fa presente”. Il trattenersi rievoca il soggiornare di Eraclito, per il quale: “L’uomo soggiorna presso gli dèi (Êthos anthrópoi daímon)”.7 Soggiornare porta con sé il senso del trattenersi in un’ospitalità concessa. L’ospitalità è dono, è grazia. In questi significati è custodito il rapporto uomo-essere, al di là di ogni intenzione conoscitiva protesa al dominio dell’originario.
Ogni tentativo in tal senso è destinato a naufragare perché le categorie impiegate dal nostro intelletto sono del nostro intelletto e come tali non si attagliano all’essere. Per questo, scrive Jaspers:
Ciò che si dice dell’Uno non vale per l’Uno stesso ma solo in rapporto a noi, non in sé ma a partire da noi. Questa è la ragione per cui Plotino dice: “Quando lo chiamiamo causa, non diciamo nulla che accade in esso, ma solo ciò che accade a noi”.8
La denuncia del carattere ipotetico e matematico del principio di causalità mostra con quanta consapevolezza Plotino rifiuti la lettura intellettualistica dell’essere, la sua riduzione alla schematica intellettuale che l’aristotelismo prima e la speculazione scolastica poi impiegarono per fondare la determinazione teologica dell’essere. Ma proprio questo rifiuto consente di cadere in ginocchio e di pregare, di assumere cioè quell’atteggiamento che era impossibile assumere di fronte al Dio causa sui, perché in quel caso sarebbe equivalso cadere in ginocchio davanti alle ipotesi del proprio intelletto. Per questo, scrive Jaspers, Plotino dice: “Noi dobbiamo pregare”.9 E a proposito del come dall’Uno proviene l’ente e del perché l’Uno non rimanga presso di sé, Plotino risponde: “Di ciò si deve parlare nel modo stesso in cui noi invochiamo Dio, tendendo con tutta la nostra anima alla preghiera quando ognuno da solo si fa incontro a lui solo”.10
Affrontare un problema con la preghiera significa disporsi a custodirne il mistero. Nell’universo del linguaggio, infatti, la preghiera non è termine di comunicazione, non è denominazione delle cose, non è indicazione di significati; non serve per intendersi, per trattenersi fra le cose che si conoscono, né per ricercare quelle che non si conoscono; non è insegnamento, dottrina, trasmissione di ciò che si sa. La preghiera è custodia, custodisce il mistero e trattiene l’uomo nelle sue prossimità. La preghiera si esprime per immagini, per analogie, spesso ripete se stessa, come nella carenza del linguaggio rispetto a ciò che si vuole nominare nell’invocazione. La preghiera talvolta indugia nel silenzio, nella coscienza di non sapere e nella volontà di non profanare ciò che è inviolabile. Rispetto alle pretese dell’intelletto e della volontà, la preghiera è agli antipodi. Per la volontà di potenza la sua invocazione è debolezza, per l’intento conoscitivo il suo silenzio è rinuncia. Ma forse è proprio nella coscienza della propria impotenza che all’uomo è dato custodire il mistero dell’essere e gettare uno sguardo nella sua ascosità.
L’invocazione della preghiera trascende in Plotino l’Uno raggiunto dall’intelletto, l’Uno che è fondamento della molteplicità espressa nella dualità di pensante e pensato, nella pluralità dei pensati e nella scissione di soggetto e oggetto. L’unione mistica si dà come forma di superamento di questa scissione incapace di cogliere, come dice Plotino: “l’Uno che, risiedendo in se stesso, è dappertutto. Nessuna cosa, infatti, lo possiede e tuttavia tutte le cose lo possiedono, perché esso le possiede tutte”.11 Qui il rapporto essere-ente è espresso nella figura della trascendenza immanente, che contiene quella relazione di identità e differenza, per cui l’ente, nel distinguersi dall’essere, vi si riconosce identico nel suo “è”.
Identità (tautótes) e differenza (heterótes) sono per Plotino le categorie fondamentali del mondo intellegibile, ma al contrario di quanto accade in Platone e in Aristotele, le due modalità non esprimono la struttura dell’essere, ma il campo del pensabile che si rende necessario come base per il trascendimento. Non è possibile infatti trascendere al di là del pensabile senza i mezzi costituiti dagli oggetti pensati ed effettivamente intuiti. Le categorie del pensiero servono quindi per essere trascese. Il mondo di Plotino, ricco di pensieri logici, non deve essere arrestato a se stesso, il suo senso non è raccolto in ciò che è detto, ma nel naufragio che lo attende in vista dell’indicibile. La parola nomina l’ente. Per l’Uno, che non è ente (mè ón), non c’è parola.
Il pensiero che argomenta, sollecitato dalla ricerca del fondamento dell’essere nella sua totalità, giunto in prossimità dell’essere naufraga perché, scrive Jaspers, per Plotino “l’essere e il fondamento dell’essere sono la stessa cosa nell’origine stessa”.12 Quest’idea si presenta all’intelletto come una contraddizione o un circolo vizioso, perché il fondamento non è più tale se deve essere identico a ciò di cui deve essere fondamento. Questa identità dissolve il significato di “fondamento” e quindi il senso dell’indagine intellettuale promossa dalla ricerca del fondamento, capace di assestare la totalità e assicurarla. All’unità del diverso si sostituisce la ripetizione dell’identico, alla spiegazione la tautologia, se è vero, come scrive Plotino che: “Ciò che non è provenuto da se stesso, ma appartiene immobilmente a se stesso, merita che si dica: esso è ciò che è”.13
La dialettica del pensare, che deve tradursi in un non-pensare, compie un’inversione subitanea, per la quale il pensiero si rovescia nell’impossibilità di pensare. Si ha qui un pensiero che si trascende come pensiero, annullando se stesso, e un non-pensiero che, non avendo “qualcosa” da pensare, non per questo non pensa nulla, ma pensa il nulla che è non-ente, pensa l’essere. Questa dialettica, che incessantemente nega se stessa, è un pensare specifico che non dice nulla finché oggettività e intuizione rimangono condizioni del “senso”, ma che è essenziale alla chiarificazione della coscienza dell’essere e del limite umano.
Il senso raccolto nel naufragio del pensiero intellettuale è duplice: da un lato apre l’orizzonte di ciò che si sottrae alle condizioni della pensabilità, dall’altro induce a non porre nel pensato qualcosa di assoluto, di ultimo, di impensabile. Nel naufragio del pensiero, l’immagine si fa analogia di ciò che il pensiero non sa dire, mentre il pensiero, a sua volta, diventa un mito logico.
Come avviene in Platone, la tirannia del mitico è superata dalla potenza sovrana del pensiero che nel mito si esprime. Nascono allora quelle immagini che il pensiero promuove e affida alla libertà della poesia, che si muove in spazi più ampi rispetto a quelli regolati dall’intelletto e vincolati dal suo rigore logico. Così, scrive Jaspers, Plotino parla dell’Uno:
Esso è come una veglia, senza che chi veglia sia diverso da essa, è una veglia che dura sempre, è un pensiero trascendente. Ma la veglia si pone al di là degli enti, del noûs e della vita razionale. Essa è stata sempre e non è già divenuta. Essa è come una sorgente che non ha alcun principio e che a tutti i fiumi si espande senza che i fiumi la esauriscano.14
In queste immagini è assente la capacità logica del pensiero, non il suo slancio teso a quella che Plotino chiama: “La presenza (parousía) che oltrepassa il sapere”.15
Plotino fu assimilato dai pensatori cristiani che inaridirono il senso del suo filosofare. Come già era accaduto con la traduzione latina del pensiero greco, così la traduzione cristiana di Plotino identificò la trascendenza con Dio, nominò la sua ineffabilità, tradusse in attributi i miti logici che la significavano. Non più il naufragio del pensiero, ma la sua forza dimostrativa in grado di giungere fino a Dio. All’essere subentrò l’Ente supremo, alle tre ipostasi (Uno, Spirito, Anima del mondo) si sostituì la Trinità, all’emanazione dall’essere all’ente la creazione del mondo da Dio.
La povertà della filosofia, il suo essenziale non sapere, fu superata con l’ausilio della Rivelazione e assestata nell’ordine sistematico dalla teologia che assegnò al pensiero, consapevole dei propri limiti, un ruolo subordinato e diminuito. La filosofia divenne ancilla theologiæ perché la teologia sa ciò che la filosofia domanda. Ma non è forse il domandare l’atteggiamento più idoneo alla custodia del mistero? Dire di sapere non è in un certo senso violare e profanare? E se il sapere è un dono, non gli si addice, meglio della dottrina, il silenzio di chi non sa (perché non è Dio) se ha inteso secondo verità la parola di Dio? La storia dell’uomo in fondo è piena di profanazioni compiute nel nome di Dio.
1 Cfr. Parte V: “Lo smarrirsi dell’essere in intelletto e volontà”.
2 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 705.
3 Ivi, p. 754.
4 Ivi, p. 775.
5 Ivi, p. 759.
6 Ivi, p. 758.
7 Eraclito, fr. B 119.
8 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 759.
9 Ivi, p. 754.
10 Ivi, pp. 754-755.
11 Ivi, p. 765.
12 Ivi, p. 777.
13 Ivi, p. 780.
14 Ivi, pp. 785-786.
15 Ivi, p. 799.