4.
La domanda filosofica in Heidegger e Jaspers
“Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?” Questa è la domanda.
M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica (1935-1953), p. 13.
“Perché in generale si dà qualcosa, perché non il nulla?” È la domanda che Leibniz pose, davanti al cui abisso Kant si intimorì e che Schelling, con uno sforzo che non conobbe sosta, ripropose.
K. JASPERS, Filosofia (1932-1955), p. 172.
Il domandare filosofico si distingue da quello scientifico perché mette in questione la totalità e quindi il questionante stesso in essa compreso. Il suo porsi è così radicale da sottrarre il terreno solido dell’ovvietà e quello garantito della scienza, su cui il questionante fa affidamento ogniqualvolta, ponendo delle domande, mette in questione un settore del reale, lasciando impregiudicata la totalità. Quest’ultima è in gioco solo quando è colta nell’oscillazione massima che contempla la possibilità del suo non-essere. In base a queste considerazioni Heidegger pone la domanda filosofica in questi termini: “Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?”.1
Il senso di questa domanda emerge solo se si sottrae la domanda stessa a quell’impostazione causalistica che abitualmente presiede e regola i nostri procedimenti intellettuali. Qui non si chiede “chi ha fatto essere l’ente preferendolo al nulla”, ma si chiede: “che senso ha che a essere sia l’ente e non il nulla?”. Se ci si limitasse a chiedere la causa dell’essere dell’ente, invece che il suo senso, non ci si muoverebbe sul piano filosofico che mette in questione la totalità, ma su quello scientifico che, lungi dal problematizzare il valore del principio di causalità, lo assumerebbe senz’altro come struttura anticipante al cui interno collocare, e quindi limitare, la portata della domanda. In questo ambito circoscritto l’ente non sarebbe più colto nella sua massima oscillazione, costituita dalla possibilità del suo non-essere, ma sarebbe problematizzato limitatamente alla ricerca della causa che l’ha fatto essere. Il problema cioè sarebbe ridotto all’identificazione di una causa e non esteso al senso ultimo di quell’accadimento che è l’essere del reale invece che il suo non-essere.
Nell’identificazione della causa è raccolto non solo lo sforzo della scienza moderna, ma anche quello della metafisica occidentale che, a partire da Platone, è andata alla ricerca di quell’Ente supremo capace di far essere la totalità degli enti (tò Agathón = Colui che è atto a...). La metafisica occidentale quindi, riducendo la portata e il senso della domanda di fondo, ha impoverito sino all’insignificanza la filosofia, e nello stesso tempo ha presieduto alla nascita della scienza, assegnandole la domanda al cui interno operare, vale a dire: la ricerca delle cause.
In questa luce, l’opposizione tradizionale fra scienza moderna e metafisica classica cade a quel livello inessenziale che si trova espresso nella differenza tra causa seconda e causa prima, in cui non è in gioco l’impostazione causalistica della domanda, ma semplicemente un differente livello di risposta. Quest’osservazione, oltre ad anticipare la direzione del nostro discorso, vuol essere un esempio di come in filosofia la comprensione della domanda sia spesso più importante e decisiva del contenuto delle possibili risposte.
Di fronte alla domanda compresa nella sua radicalità, la scienza si ritiene esonerata, perché considera suo compito quello di occuparsi solo dell’ente. Ma è proprio qui, osserva Heidegger, che la scienza si imbatte nel problema del niente:
“Proprio mentre vuole assicurarsi di ciò che è specificatamente suo, l’uomo di scienza parla, più o meno esplicitamente, di qualcosa d’altro. Egli vuole indagare l’ente soltanto, e del resto niente, l’ente solo e oltre questo niente, unicamente l’ente e al di fuori o al di là di questo niente”.2
Nell’identificazione del suo oggetto, quindi, la scienza si imbatte in ciò che la trascende: il problema del nulla. A liberare il campo dal problema, la scienza ha provveduto con la sua logica, che è poi la logica che ha ereditato dalla metafisica classica, che fin dai suoi primi passi s’è premurata di dissolvere nel non-senso il problema del nulla. Parlare del nulla infatti significa fare del nulla qualcosa, e il semplice rilevamento di questa contraddizione è parso sufficiente per procedere all’eliminazione del problema.
Con lo smarrimento del senso del problema è caduto l’ultimo ostacolo che impediva alla scienza di porsi come sapere assoluto. Se infatti a trascendere la scienza è il problema del nulla, vuol dire che non c’è proprio nulla al di fuori delle possibilità della scienza. Il positivismo di fine Ottocento espresse proprio questo significato. L’efficacia di un simile ragionamento, tuttavia, non tarda a rivelare la sua natura sofistica. La scienza infatti può porsi come sapere assoluto solo se anche il suo interrogare è assoluto, cioè sciolto da (solutus ab) ogni condizionamento, ivi compreso il condizionamento della logica che, lungi dall’essere investita dall’interrogazione scientifica, addirittura la presiede.
La scienza cioè interroga secondo i dettami della logica causalistica, senza mettere in questione il valore di questa logica, la cui problematizzazione coinciderebbe con la problematizzazione di ogni procedimento scientifico. Ora il principio di causalità non è un contenuto fenomenologico, ma un’ipotesi di lavoro, non è un “dato” dell’esperienza, ma un’anticipazione mentale in cui i dati dell’esperienza si collocano, o che è lo stesso, “si danno”. Qui Hume è stato chiarissimo:
Quando guardiamo intorno a noi verso gli oggetti esterni e consideriamo l’operazione delle cause, non riusciamo mai, nei singoli casi, a scoprire qualche potere o connessione necessaria, cioè una qualche qualità che leghi l’effetto alla causa e che renda l’uno un’ineffabile conseguenza dell’altra. Noi troviamo soltanto che l’uno, presentemente, di fatto segue l’altra. L’impulso di una palla di bigliardo è seguito dal movimento nella seconda palla. Questo è tutto quello che appare ai sensi esterni. La mente non prova alcun sentimento o impressione interna da questa successione di oggetti; per conseguenza, non c’è, in alcun singolo particolare caso di causa ed effetto, cosa alcuna che possa suggerire l’idea di potere o di connessione necessaria.3
A questo punto procedere all’eliminazione di quei problemi che non sono contemplati da un’anticipazione matematica, qual è il principio di causalità, e con ciò pretendere di possedere l’impostazione assoluta del sapere, al punto da non ammettere altri significati oltre a quelli espressi e compresi dall’ipotesi anticipata, è hýbris, è tracotanza, o, come direbbe Jaspers, è superstizione scientifica (wissenschaftliche Aberglaube). Rispetto all’epoca positivista, la scienza oggi s’è liberata dalla sua superstizione, creando così lo spazio per la filosofia, che si estingue ogni volta che la scienza pretende di porsi come sapere totale. Ora spetta alla filosofia liberarsi da quella logica intellettualistica che ha presieduto alla propria storia e a quella della scienza. Nell’accadere di questa liberazione è custodito l’avvenire della filosofia.
L’impossibilità di ridurre la filosofia alle forme espresse dalla logica dell’intelletto emerge dalla semplice constatazione che, per la logica, il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, e come tale è incapace di abbracciare l’oscillazione massima della filosofia la cui domanda si dibatte fra la totalità dell’ente e il niente. Nel tentativo di pareggiare l’orizzonte espresso dalla filosofia, la logica concepisce il niente come negazione, come “non” di quell’ente in cui da sempre il pensiero intellettuale esercita il proprio dominio. Ma, osserva Heidegger, la negazione è una figura del niente, e come tale non è in grado di esprimerne compiutamente il senso. Infatti:
Il “non”, la negatività e quindi la negazione rappresentano davvero la determinazione superiore sotto la quale cade il niente come modo particolare del negato? C’è il niente solo perché c’è il “non”, cioè la negazione? Oppure è vero il contrario, ossia che c’è la negazione e il “non” solo perché c’è il niente? Questo non è ancora stato deciso, anzi, non è mai stata neppure sollevata esplicitamente la questione. Da parte nostra affermiamo che il niente è più originario del “non” e della negazione.4
Per rendercene conto è sufficiente constatare che la negazione logica della totalità dell’ente può esercitarsi solo se detta totalità è data. In questo modo l’essere dell’ente non è colto come una vittoria sul nulla, ma come un dato di fatto che successivamente, a opera della negazione, può cadere in preda al nulla. Ma là dove il nulla è pensato come una possibilità che sopraggiunge all’essere, e non come ciò che è tolto dallo stesso imporsi dell’essere, sfugge a un tempo il significato originario del nulla e il senso profondo dell’essere, che “è” solo in quanto nientifica il nulla.
Dopo quanto s’è detto, l’incapacità della logica a comprendere il senso profondo della questione non decide dell’autenticità della questione stessa. Questa ci sorprende e ci afferra nei momenti di noia, di gioia e di angoscia, in cui tutte le cose perdono o acquistano consistenza, ogni significato si fa oscuro o meraviglioso, esaltante o indifferente. Nell’insufficienza logica, è la struttura dell’affettività che ci avvicina alla questione nella drammaticità del sentire, in cui la totalità dell’ente è messa in gioco quanto al suo essere e al suo significare. Nella noia infatti tutto diventa insignificante, nella gioia tutto esaltante, nell’angoscia tutto si sottrae, sicché resta il niente a cui appigliarsi. L’angoscia non è la paura, che è sempre determinata e rivolta a questo o a quell’ente che minaccia; l’angoscia è indeterminata, è sgomento rispetto alla totalità dell’ente che, sottraendosi, lascia essere il niente che così appare e si svela. Infatti, scrive Heidegger:
Che l’angoscia sveli il niente lo constatiamo noi stessi appena l’angoscia se ne è andata. Nella luminosità dello sguardo sorretto dal ricordo ancor fresco dobbiamo dire: ciò di cui e per cui ci angosciavamo non era “propriamente” – niente. In effetti il niente stesso, in quanto tale, era presente.5
Il niente che si avverte nell’angoscia non è “qualcosa”, e neppure si presenta come un contenuto o un oggetto, per cui nessuna logica oggettivante è in grado di coglierlo. La scienza non ode il silenzio del niente. Raccolta e impegnata nella considerazione dell’ente non è in grado di cogliere quel niente che si determina in occasione dell’assentarsi dell’ente. Per questo di fronte alla domanda filosofica: “Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?” la scienza non avverte l’essenzialità dell’aggiunta “e non il nulla”, ma, trattenendosi nella prima frazione della domanda “perché in generale c’è l’ente?”, s’affretta a cercarne la causa, capovolgendo così il senso e la radicalità della domanda.
Il “non-nulla” non è un chiarimento aggiunto al discorso, ma è ciò che, precedendo il discorso, lo rende significante. L’ente è perché non è nulla. Il “non-nulla” è quindi la rivelazione dell’essere dell’ente. Proprio perché l’uomo, in occasione dell’assentarsi dell’ente, avverte il nulla, l’uomo è aperto alla comprensione dell’essere dell’ente. Il termine “uomo” qui non si riferisce all’Io in generale, che nella sua dimensione intersoggettiva presiede all’ordinamento logico-scientifico degli enti, perché, come s’è visto, questo Io ha occhi solo per l’ente. L’“uomo” in questione è quell’ente aperto alla comprensione della totalità degli enti, aperto al nulla quindi, senza la cui originaria rivelazione l’ente resta incomprensibile quanto al suo “è”. Tanto più l’uomo si affaccenda intorno all’ente, tanto più lo inserisce nella ragione calcolante che “tien conto” solo dell’ente in vista del suo impiego, tanto più l’uomo si allontana dal nulla, dalla cui comprensione dipende la comprensione dell’essere dell’ente.
Ma come si deve pensare quel nulla di ente, quel “ni-ente” che si palesa in occasione dell’assentarsi dell’ente? La risposta di Heidegger conduce verso quell’impensato da pensare in cui si raccoglie il senso della filosofia. “Impensato”, perché la filosofia, fin dal suo inizio, si è fatta dominare da quella logica che ha mostrato d’avere occhi solo per l’ente; “da pensare”, perché, non pensato, non consente di pensare ente alcuno. L’impensato da pensare è l’essere nella sua identità col niente.
Per intendere questa identità occorre distinguere nell’ente “ciò che” l’ente è, da “ciò che fa essere” l’ente un ente, piuttosto che un non-ente; ciò che nell’ente, se è un ente, costituisce il suo essere. Questa distinzione era già nota al pensiero greco, che fin dal suo inizio ebbe cura di distinguere gli enti (tà ónta) da ciò che li faceva essere (eînai). A questa distinzione fa riferimento la domanda filosofica fondamentale che, nel chiedere “Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?”, non vuole sapere che cos’è quell’ente che ci circonda, ci trascina, ci costringe, ci incanta, ci riempie, ci esalta e ci delude, ma dov’è in tutto questo l’essere dell’ente, ciò che fa dell’ente un ente e non un nulla.
La domanda sopra formulata potrebbe allora convertirsi in quest’altra: “Che ne è dell’essere dell’ente?”. La logica concettuale e oggettivante, che ha presieduto alla formazione del pensiero occidentale, non è in grado di rispondere, perché l’essere non è né un concetto, né un oggetto, anzi, in occasione dell’apparire dell’ente, l’essere sembra dileguarsi. Tentare di afferrarlo è come stringere il vuoto, perché l’essere non è ente; anzi, rispetto all’ente, è nulla: nulla di ente, ni-ente.
Questa identità tra essere e niente può essere intesa solo da quel pensiero che non riduce il ni-ente al semplice nulla, ma lo trattiene in quel significato riconducibile a quell’estensione che dà a ogni ente la grazia d’essere, senza per questo identificarvisi. Questa estensione, che si estende oltre la totalità degli enti, è la trascendenza. Non la trascendenza di un Ente supremo in grado di fondare la dominazione dell’ente sul nulla, ma la trascendenza dell’essere che, ponendosi “al di là e oltre” l’ente, non è ente, e, proprio in quanto è niente di ente, consente all’ente di apparire come esso è.
Per avvertire l’essere dell’ente, l’uomo deve essere aperto oltre la totalità degli enti, cioè a quel niente di ente in cui l’essere consiste. Heidegger esprime questa apertura col termine “Esser-ci (Da-sein)”:
Esser-ci vuol dire: essere tenuto immerso nel niente (Da-sein heisst Hineingehaltenheit in das Nichts). Tenendosi immerso nel niente l’esserci è già sempre oltre l’ente nella sua totalità. Questo essere oltre l’ente noi lo chiamiamo trascendenza (Transzendenz). Se l’esserci, nel fondo della sua essenza, non trascendesse, ossia, come ora possiamo dire, non si tenesse immerso fin dall’inizio nel niente, non potrebbe mai riferirsi all’ente, e quindi neanche a se stesso. Senza un’originaria rivelazione del niente non c’è un esser-se-stesso, né una libertà. Si è così ottenuta la risposta alla questione sul niente. Il niente non è un oggetto, né in generale un ente. Il niente non si presenta per sé, né accanto all’ente a cui pure inerisce. Il niente è la condizione che rende possibile la rivelazione dell’ente come tale per l’esserci dell’uomo. Il niente non esprime solo il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all’essenza dell’essere stesso. Nell’essere dell’ente avviene il nientificare del niente (das Nichten des Nichts).6
Stante l’identità di essere e niente, pensata come condizione per la comprensione dell’ente, si capisce come Heidegger possa indifferentemente definire l’uomo, nella sua originaria apertura trascendente la totalità dell’ente, come sentinella del nulla (Platzhalter des Nichts) o come pastore dell’essere (Hirt des Seins).7
La domanda filosofica fondamentale compare in Jaspers formulata in questi termini: “Perché in generale si dà qualcosa, perché non il nulla?”.8 È questa, dice Jaspers: “la questione che ci spinge al fondamento (die in der Grund dringende Frage)”,9 ma subito avverte che per fondamento non si deve intendere il Super-ente leibniziano che, stando al vertice degli enti, ne fonda la serie, perché, in questo caso: “il pensiero rimane dentro il dominio dell’ente, ove tutte le nostre vie procedono all’infinito”,10 mentre:
Se si vuole impostare correttamente la questione è necessario trascendere il pensiero oggettivo con le sue stesse categorie, ma per esprimere un senso che per esse è incomprensibile. In conformità a questo senso, “fondamento” non è più il fondamento ma non-fondamento, “origine” non è più l’origine, ma salto dal nulla (come si intende tutt’oggi nel termine di “esplosione originaria” da cui deve essere sorto il mondo).11
Il merito di superare l’impostazione leibniziana della domanda, a parere di Jaspers spetta a Kant per il quale: “l’intelletto non solo sperimenta la sua incapacità, ma non può nemmeno essere rassicurato intorno a questa questione tanto essenziale per la nostra ragione”.12 Impostando la questione al di fuori della logica oggettivante, Kant, senza rispondervi, l’ha colta nel suo giusto senso, interpretando il fondamento come “vertigine dell’abisso”.13
Schelling, nel riproporsi la questione, avvertì che questa è l’unica domanda che non può essere anticipata matematicamente e categorialmente dall’intelletto, perché non riguarda un ente che può anche non essere, ma mette in gioco la totalità dell’essere.14 Qui fa la sua comparsa un riconoscimento a Heidegger:
Martin Heidegger ha colto il problema di Schelling, considerandolo in una maniera nuova e lo ha elevato a questione principale della metafisica (Grundfrage der Metaphysik). Spero in altra occasione di potermi occupare di questo argomento.15
Qui, la trattazione jaspersiana della questione prosegue in stretta aderenza allo svolgimento heideggeriano. Dopo un’analisi condotta dal punto di vista linguistico sulla parola “essere” nelle sue accezioni greche, latine e tedesche, analisi effettuata in base al principio che “le considerazioni linguistiche sono di estremo interesse quando nella teoria del linguaggio conducono a conoscenze storiche e dirigono l’attenzione ai problemi filosofici”,16 Jaspers affronta la domanda nella sua portata filosofica, mettendo in guardia il lettore dal pericolo di lasciarla scivolare sul piano della logica scientifica che la banalizza e non la intende:
Che significa “è” nella domanda: “Perché in generale c’è qualcosa, perché non il nulla?”. Se significa l’essere del “qualcosa”, di qualsiasi ente in generale, allora la questione è limitata e si sottrae al colpo filosofico che essa sa scansare. Quando si parla del “qualcosa” non si parla né dell’essere, né del mondo, né di Dio, né di me stesso, anche se, in un livellamento che svuota il senso di ogni cosa, si denomina tutto ciò un “qualcosa”. Allora la questione non è formulata in tutta la sua ampiezza nonostante l’aggiunta “in generale”.17
La domanda si rivela in tutta la sua significanza in certi momenti dominati dall’affettività angosciosa che Jaspers, psichiatra, rifiuta di ricondurre al comportamento patologico della nevrosi o della psicosi. Infatti:
Esistono stati psichici, che non si possono dire patologici, in cui continua a rimanere una presenzialità dell’essere che non è vitalistica, sensibile, corporea, materiale, ma esprime il senso di un’essenzialità: io sono nulla e tutto è nulla perché è cosa da nulla e interamente priva di importanza.18
Nella coscienza del nulla l’uomo raggiunge la sua libertà dal dominio dell’ente, e quindi la sua disponibilità per la rivelazione dell’essere. Infatti:
La domanda angosciosa sul perché non sia il nulla produce, con la vertigine, la coscienza più decisiva dell’essere, e in essa la certezza storica dell’esistenza che assume se stessa. L’uomo dice a sé: non è il nulla. Ciò che è deve mostrarsi. Deve rivelarsi. Perciò l’uomo che si desta alla riflessione dice a sé: io non posso essere pervenuto a questo mio esserci invano, per il nulla.19
A questo punto, conclude Jaspers:
Nella chiarezza della nostra coscienza, sulla via che va al di là del pensiero, partendo da ciò in cui è quel “nulla” che è essere, il nostro pensiero viene investito da una luce diversa e la nostra libertà trova la sua soddisfazione.20
Qui Jaspers scorge il punto di incontro fra Oriente e Occidente: “Con questa domanda che chiede ‘perché in generale si dà qualcosa, perché non il nulla?’ noi ci incontriamo con la filosofia asiatica”.21 Il rilievo è molto importante perché elimina il presupposto delle differenze antropologiche che il pensiero oggettivante si compiace di rilevare allo scopo di costruire, nel differente, la propria architettura scientifica. Questa è troppo spesso dimentica di quell’identico che le varie discipline, nelle loro specializzazioni, hanno trascurato e che quindi resta ancora da pensare.
In base al presupposto delle differenze antropologiche c’è chi ha stabilito,22 e ormai è opinione corrente, che filosofia, scienza e tecnica sono prerogative dell’uomo occidentale il quale, di fronte al “problema” e al “desiderio”, fonti rispettivamente dell’infelicità teoretica e pratica, ha proceduto alla risoluzione del primo tramite la filosofia, e alla soddisfazione del secondo tramite la scienza e la tecnica. L’uomo orientale, invece, sempre secondo il succitato presupposto, si comporterebbe diversamente. Di fronte al “problema” procederebbe al dissolvimento dei termini che lo compongono mediante la loro dislocazione, di fronte al “desiderio” procederebbe all’annullamento della brama, mediante tecniche psicosomatiche volte all’annullamento o, quanto meno, alla riduzione della forza del volere.
Tra occidentale e orientale resterebbe, quale elemento comune, il fondamento eudemonologico, ovvero l’impulso a eliminare ogni fonte d’infelicità. In base a questo presupposto, gli uomini sarebbero accomunati solo da un impulso biologico, dal momento che ragione e volontà esprimerebbero il “differente”, ciò che in Occidente si dispiega e in Oriente si annulla. Il presupposto troverebbe conferma nella riduzione della storia della filosofia a storia esclusivamente occidentale.
Sorta in Grecia, la filosofia s’è diffusa in tutte le terre d’Occidente accompagnando passo passo lo svolgimento della civiltà occidentale. L’Oriente ne è rimasto estraneo. Quei motivi che vi compaiono e che presentano qualche affinità con le intuizioni filosofiche d’Occidente vengono senz’altro ricompresi nell’ambito delle religioni nichilistiche d’Oriente che si esprimono nel nirvana, nella noluntas,e in genere in quella “logica del non” che caratterizza l’Oriente e la sua differenza antropologica dall’Occidente.
Simili considerazioni possono nascere solo dalle scienze antropologiche che, dopo aver oggettivato l’uomo secondo quei procedimenti che sono comuni a tutte le scienze, ne hanno perso l’intima essenza, riducendolo a una specie biologica, con l’aggiunta della ragione da “utilizzare” o da “annullare”, a partire da quell’impulso che tende all’eliminazione di ogni fonte d’infelicità, ultima manifestazione di quell’istinto di conservazione che accomuna tutte le specie viventi. E come potrebbero del resto le scienze antropologiche, che come tutte le scienze hanno occhi solo per l’ente, cogliere l’essenza dell’uomo che sta oltre e al di là di ogni ente, in quell’orizzonte trascendente appunto, dove non c’è ente alcuno, perché a dominare e a imporsi è l’essere?
L’essere, avverte Heidegger, si lascia cogliere solo con un salto originario del pensiero, un Ur-sprung, mediante il quale il pensiero, abbandonata la logica ontica che risolve l’essere nell’insieme degli enti, pensa l’essere in occasione del loro assentarsi, del loro scomparire, sì da lasciar apparire quel nulla di ente che è appunto l’essere. Per cogliere l’essere, avverte Jaspers, è necessario un altro pensiero (ein andere Denken), rispetto al quale il pensiero anticipante e calcolante gli oggetti, proprio della ragione scientifica dell’Occidente, è ignoranza, o per dirla con l’Oriente, è “velo di Maya”.
La cifra espressa dal “velo di Maya” sta a significare che l’ente nella sua totalità copre l’essere fino al punto di ridurlo a mero nulla. Ma proprio nella comprensione di questo nulla, che è tale solo per chi è affaccendato esclusivamente tra gli enti, è riposta la possibilità di verità custodita per l’uomo. Di qui l’invito di Jaspers:
Ripresentiamoci ancora una volta lo stato del mondo e del nostro sapere in una cifra che non fu mai tanto decisiva come questo pensiero avvertito nell’India: tutto ciò che è è occultamento. Il sapere mondano, la conoscenza degli oggetti nel mondo inserita nell’azione diretta a un fine, tutto ciò è semplicemente ignoranza, è il velo di Maya. Ciò che da parte del nostro esserci è visto nel Maya come nulla, questo stesso è la verità e la pienezza dell’essere.23
Ma, si chiede Jaspers:
Da dove viene questo velo? Si tratta di una prima illusione originaria o di un processo storico in cui si è oscurato ciò che era chiaro? Oppure si tratta di un incantesimo che crea l’illusione della creazione del mondo? La risposta manca, oppure è data in cifre che ci fanno perdere proprio ciò di cui qui si tratta: l’oltrepassamento di tutte le cifre. Ma la visione dello stato del nostro mondo e del nostro sapere ci permette un altro pensiero (ein andere Denken) che infrange il velame. Quando l’origine dell’apparenza deriva da un rivolgimento (Umwendung), il rivolgimento del rivolgimento è la conversione del primo nell’occultamento della conversione ottenuta.24
Che significa tutto questo? Nulla se si attende la spiegazione da quel “pensiero che non ha familiarità con ‘l’al di là’ perché è pensiero oggettivo, pensiero guidato da rappresentazioni e da immagini, pensiero che si svolge in determinabilità, cioè secondo concetti”.25 Tutto se si ricorre a quell’altro pensiero (das andere Denken) che percorre a ritroso il cammino percorso dal pensiero oggettivo.
Il pensiero oggettivo è quel pensiero che, nel timore del nulla che avanza col progressivo svanire dell’ente, insegue l’ente per evitare il suo perdersi nel nulla, ma così facendo volge le spalle (primo rivolgimento) a quel nulla di ente che è l’essere vero e proprio. L’altro pensiero, sospinto da quella domanda incalzante che chiede ragione dell’essere dell’ente, procede in senso opposto, ovvero volge le spalle all’ente, a cui il pensiero oggettivo si era rivolto (rivolgimento del rivolgimento), per scoprire quel fondamento abissale che la dominazione dell’ente, di cui ha cura il pensiero oggettivo, ha occultato, e nel cui svelamento dimora la verità. La verità come a-létheia, come s-velamento, non-occultamento, e non come corrispondenza tra rappresentazione del pensiero oggettivante e oggetto rappresentato. Per questo Jaspers dice:
Il rivolgimento e il rivolgimento del rivolgimento è ciò che accade in ogni tempo e non in un certo tempo. Dal punto in cui è la verità si compie in ogni momento la caduta, e verso questo punto si compie in ogni momento il ritorno. Il ritorno accade mediante l’“altro pensiero” che può essere il mutamento meditativo della coscienza, oppure il pensiero speculativo compiuto sempre con l’intelletto, ma inaccessibile all’intelletto come tale.26
Il rivolgimento (Umwendung) invocato da Jaspers corrisponde al passo indietro (der Schritt zurück) richiesto da Heidegger per intendere l’ente nella sua identità-differenza dall’essere. In entrambi i casi si tratta di tornare dal solitamente pensato (l’ente) al solitamente impensato (l’essere), in cui è custodita la risposta alla domanda filosofica fondamentale. La ricerca della risposta non può avvenire nella dispersione degli enti, né tanto meno nell’ambito della logica intellettuale “per la quale – dice Jaspers – la domanda è uno scherzo fatto per ridere”.27
La risposta va cercata là dove la domanda propriamente si manifesta. I tempi, i luoghi, i modi di questa manifestazione sono storicamente, ambientalmente e linguisticamente differenti. Le scienze antropologiche, sorrette dalla logica dell’intelletto, sottolineando queste differenze, le irrigidiscono, generando così l’incomunicabilità tra gli uomini. Se invece si provasse a pensare lo stesso che è sotteso al differente nominare, ci si accorgerebbe, scrive Jaspers, che:
L’essere è, per esempio, lo atman-brahman di Buddha, il nirvana di Nagarjuna, il Tao di Lao-Tzu, l’Uno infallibile di Plotino, la sostanza di Spinoza, il nulla, il deserto, il vuoto, il cháos. Sono infatti storiche le manifestazioni nei cui pensieri, di volta in volta, l’essere parla veracemente, ma è sempre l’uomo il luogo in cui si verifica questo vario manifestarsi, luogo come diversa presenzialità dello stesso.28
1 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 13. Recita il testo tedesco: “Warum ist überhaupt Seiende und nicht vielmehr Nichts? Das ist die Frage”.
2 Id., Was ist Metaphysik? (1929); tr. it. Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 61.
3 D. Hume, An enquiry concerning human understanding (1758); tr. it. Ricerca sull’intelletto umano, Sezione VII: “Dell’idea di connessione”, in Opere, Laterza, Bari 1987, vol. II, p. 69.
4 M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, cit., p. 64.
5 Ivi, p. 68.
6 Ivi, pp. 70-71 (corsivo mio).
7 M. Heidegger, Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 325.
8 Recita il testo tedesco: “Warum gibt es überhaupt etwas, warum ist nicht Nichts?”. Questa domanda compare in K. Jaspers, Philosophie (1932-1955); tr. it. Filosofia, Utet, Torino 1978, p. 57; Existenzphilosophie (1938); tr. it. La filosofia dell’esistenza, Laterza, Bari 1995, p. 56; Von der Wahrheit, Piper, München 1947, pp. 29, 880; Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, pp. 550-564.
9 Id., La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 550.
10 Ivi, p. 563.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 550.
13 Ivi, p. 554.
14 Ivi, pp. 553-554.
15 Ivi, p. 554.
16 Ivi, p. 559.
17 Ibidem.
18 Ivi, p. 561.
19 Ivi, pp. 561-562.
20 Ivi, p. 567.
21 Ivi, p. 566.
22 Si veda a questo proposito G. Bontadini, Conversazioni di metafisica (1971), Vita e Pensiero, Milano 1995.
23 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 564.
24 Ivi, pp. 564-565.
25 Ivi, pp. 565-566.
26 Ivi, p. 565.
27 Ivi, p. 560.
28 Ivi, p. 562.