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Tommaso d’Aquino e la determinazione intellettualistica dell’essere
Pensare si dice in latino intelligere, ed è affare dell’intellectus. Se è nostra intenzione combattere l’intellettualismo occorre, per combatterlo veramente, che impariamo a conoscere l’avversario; occorre cioè considerare che l’intellettualismo non è se non un proseguimento, un prolungamento attuale, alquanto scadente, di quel primato del pensiero che è stato da gran tempo preparato e perfezionato con i mezzi della metafisica occidentale.
M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica (1935-1953), p. 131.
Dalla traduzione latina della parola greca emerge da un lato il primato dell’ente sull’essere, dall’altro il risolversi dell’essere in mera concettualità. Appartiene infatti alla speculazione medioevale la riduzione dell’essere a notio entis,a ratio communissima, da cui ogni schema concettuale prende le mosse e su cui originariamente si fonda ogni ratio.
L’origine di tale riduzione, che a sua volta sta alla base di tutto il razionalismo successivo, dal cogito di Cartesio all’idea di Hegel, è da rintracciarsi ancora una volta nel mondo greco e precisamente nell’interpretazione platonica della phýsis come idéa. Il senso di questa interpretazione non è nella semplice assunzione da parte dell’idéa della peculiarità della phýsis, ma nel rapportarsi della phýsis al vedere (ideîn). In quanto così rapportata la phýsis, come idéa, sta di fronte all’ideîn, gli si oppone come un oggetto a un soggetto. La phýsis cioè non è più definita dal suo originario dispiegarsi e stare in manifestazione, ma è definita dallo stare-di-contro (ob-jectum, Gegenstand) a un vedere (ideîn) che si pone come condizione del manifestarsi della phýsis. Da originario rivelarsi, la phýsis è rivelata dall’ideîn a cui si rapporta.
Il soggetto che ospita l’ideîn è sub-jectum nel senso letterale della parola. È infatti “ciò che sta sotto”, come condizione che rende possibile la rivelazione dell’ente che gli si oppone a guisa di oggetto. Il momento manifestativo dell’ente, che il pensiero aurorale aveva affidato all’essere come phýsis, ora, con l’interpretazione platonica della phýsis come idéa, passa alla soggettività che, spodestando l’essere, gli subentra nella funzione manifestativa. La conseguenza è che l’ente, da momento epifanico dell’essere, diventa oggetto di un soggetto, e l’essere, da phýsis originaria, diventa notio entis, ratio communissima, astratta intellettualità.
Ciò che così si è perso è l’identità parmenidea di pensiero ed essere, quindi la verità come alétheia, sostituita dalla verità come adæquatio.1 Lo stesso può dirsi per l’intimità del lógos con la phýsis, dalla cui separazione è nata la “logica” che, a differenza del lógos, non “raccoglie” più gli enti nel loro essere, ma le categorie necessarie alla loro oggettivazione. Alla presenza si sostituisce la rap-presentazione, al libero stare dell’ente nell’essere, lo star di contro dell’oggetto al soggetto nelle modalità vincolanti dell’ordine categoriale presieduto dalla logica, a proposito della quale Heidegger scrive:
La logica è un’invenzione dei maestri di scuola, non dei filosofi. [...] Come enucleazione delle leggi del pensare e come istituzione delle sue regole, la logica non ha potuto nascere se non dopo che la separazione fra essere e pensare si era già compiuta, e invero in un modo determinato e secondo un particolare punto di vista. Ed è per questo che la stessa logica e la sua storia non possono in alcun modo fornire un chiarimento sufficiente circa la natura e l’origine di questa separazione dell’essere e del pensare. La logica ha bisogno essa stessa di spiegarsi la sua origine e di giustificare la legittimità della sua pretesa a costituire l’interpretazione determinante del pensiero.2
Lo spostamento di prospettiva, avvenuto a seguito della separazione del lógos dalla phýsis, non determina solo lo smarrimento dell’originaria coappartenenza dell’essere e del pensare, ma anche un distacco tra pensiero ed ente o, meglio, un modo distaccato di considerare l’ente. Infatti pensare l’ente non significa più mettersi alla sua presenza, ma sottoporlo alla soggettività.
Su questo modo di intendere il rapporto all’ente la speculazione medioevale non ha più alcun dubbio se è vero, come dice Tommaso, che: “Qualcosa può dirsi presente a qualcuno, in quanto soggiace al suo cospetto (Aliquid potest dici præsens alicui, in quantum subjacet eius conspectui)”.3 Ciò significa che la presenza dell’ente non è più un evento dell’essere, ma un prodotto della soggettività. Si consolida così quello che Heidegger chiama il pensiero rappresentativo (vorstellendes Denken), la cui caratteristica è quella di porsi dinnanzi (vorstellen) l’ente, di assumerlo come quello che sta di contro (Gegenstand), di considerarlo in questa oggettività (Gegenständlichkeit), di esaminare la cosa dall’esterno e ritenere, così facendo, di apprenderla nella sua intrinsecità.
Dall’esterno, il mondo viene scomposto nei suoi elementi, per essere poi ricostituito in edifici intellettuali. Un procedimento anatomico in cui le cose, rappresentate, si dissolvono nel loro aspetto formale; con questa aggravante rispetto al platonismo, che l’aspetto (eîdos) era per Platone la presenza della cosa stessa, mentre per la speculazione medioevale è l’immagine rappresentata della cosa, o come dice l’espressione tomista, la similitudo rei.
Scrive infatti Tommaso: “Rappresentare qualcosa è contenere la sua immagine (Repræsentare aliquid est similitudinem eius continere)”.4 L’idea platonica è diventata così il duplicato rappresentativo della cosa, il suo corrispondente mentale. Da qui si inaugura ogni forma di dualismo fra pensiero e realtà, soggetto e oggetto, uomo e mondo, spirito e natura, fra l’intelligibile e il sensibile, il concettuale e l’empirico, in cui la filosofia successiva si dibatterà per tutta l’epoca moderna, fino ai giorni nostri.
Il dibattersi è senza via d’uscita perché, una volta che l’essere è distanziato dal pensiero, non sarà più possibile trovarsi nelle sue prossimità con i mezzi del pensiero. Nella lontananza dall’essere il pensiero resta circoscritto nella solitudine della sua clausura, nata dal fraintendimento e dal cattivo uso del pensiero stesso. Scoprirne l’origine, ripercorrerne le tracce, è l’unico modo per uscirvi. Infatti, scrive Heidegger:
Pensare si dice in latino intelligere, ed è affare dell’intellectus. Se è nostra intenzione combattere l’intellettualismo occorre, per combatterlo veramente, che impariamo a conoscere l’avversario; occorre cioè considerare che l’intellettualismo non è se non un proseguimento, un prolungamento attuale, alquanto scadente, di quel primato del pensiero che è stato da gran tempo preparato e perfezionato con i mezzi della metafisica occidentale.5
Nato nello spazio aristotelico come primato della noesi, l’intellettualismo giunge alla sua massima espressione con Tommaso d’Aquino che, proprio in questo spazio, ha organizzato il suo impianto metafisico che risulterà decisivo per la successiva speculazione. Nonostante l’intuizione, la tematizzazione e la teorizzazione dell’essere debbano tanto a Tommaso, tuttavia è proprio nella razionalità tomista che si perde l’ultima traccia originaria dell’essere che lo spazio aristotelico ancora custodiva.
Scrive infatti Tommaso che “La vita umana si definisce nell’intelletto (Vita humana attenditur secundum intellectum)”.6 All’intelletto si subordina la volontà il cui oggetto è il bonum appetibile, che però è misurato dalla ratio boni che solo l’intelletto è in grado di cogliere. Recita infatti il testo tomista:
L’oggetto dell’intelletto è più semplice e più assoluto dell’oggetto della volontà, infatti è la ragione stessa del bene appetibile (Objectum enim intellectus est simplicius et magis absolutum quam objectum voluntatis, nam est ipsa ratio boni appetibilis).7
Di qui il principio: “Quanto più una cosa è semplice e astratta, tanto più è per sé nobile e alta (Quanto aliquid est simplicius et abstractius, tantum secundum se est nobilius et altius)”.8 Così, per esempio, la forma lapidis, che è nell’intelletto, è “più nobile di quanto non sia in se stessa (nobiliori modo quam sit in se ipsa)”,9 dove è evidente che l’esaltazione dell’astrazione intellettuale nasconde una radicale dimenticanza del senso dell’essere.
Eppure Tommaso è un pensatore cristiano, e per il cristianesimo, che si esprime nel mistero della grazia e della carità, Dio e l’uomo emergono come amore. Nell’amore l’uomo trova la sua realizzazione morale attraverso quelle virtù che non esprimono solo un impegno etico, ma si profilano come determinazioni di quell’amore salvifico che è la carità. Ciononostante Tommaso, che segue da vicino il razionalismo di Aristotele, stabilisce, come Aristotele nell’Etica nicomachea, la superiorità della vita contemplativa, il cui fine è la “considerazione della verità (consideratio veritatis)”,10 mentre la vita attiva è pensata in ordine all’“attività esteriore (exterior operatio)”.11 Per Tommaso, infatti, le virtù intellettuali sono superiori alle virtù morali, e questo perché:
La virtù morale appartiene all’ambito razionale per partecipazione, mentre la virtù intellettuale vi appartiene per essenza. Ora se è vero che è più nobile la virtù che ha l’oggetto più nobile, è evidente che l’oggetto della ragione è più nobile dell’oggetto dell’appetito, perché la ragione apprende qualcosa nella sua universalità.12
In questo modo l’universalità e l’astrattezza dell’intelletto possiedono quel primato, sulla concretezza ontica, che il pensiero aurorale aveva affidato all’essere, ora rifluito nell’intellectualis natura, nel cui raggiungimento è riposta la beatitudine o “Bonum proprium atque perfectum”.13
Con Tommaso d’Aquino il primato dell’intelletto raggiunge la sua espressione più alta e prepara quella pretesa universale della ragione che, crescendo per tutto il corso del Medioevo, raggiungerà la sua piena affermazione nel pensiero moderno. In corrispondenza, il concetto dell’essere, sempre più universale, sempre più si svuota, sino a diventare pura forma senza corrispettivo, pura espressione verbale, o come vuole Nietzsche: “L’ultimo fumo di una realtà che svanisce”.14
A questo ha condotto la separazione tra lógos e phýsis, da cui è nata la scissione soggetto oggetto, all’interno della quale l’uomo ha oggettivato il mondo con le funzioni logico-conoscitive a sua disposizione. Ma proprio a questo punto è opportuno rilevare che quelle funzioni logico-conoscitive, che sono oggettive per quanto concerne il riferimento all’oggetto, sono sempre soggettive perché al soggetto appartengono. In altri termini, il razionalismo intellettualistico nasconde il soggettivismo che lo genera e lo determina nei modi e nelle direzioni che stanno a cuore al soggetto.
La decadenza dell’essere a pura intellettualità è quindi la decadenza dell’essere a volontà soggettiva, le cui funzioni logiche sono altrettanti strumenti per ordinare l’essere nelle modalità desiderate. Non a caso in Leibniz la percezione è strettamente congiunta all’appetizione, anzi l’appetizione ne è, al principio, motore e incentivo, per cui la monade o soggetto è una vis primitiva activa, che fin dal suo nucleo originario implica un’intrinseca volitività.15
Da Leibniz la filosofia moderna procede attraverso Kant ed Hegel, dove l’uomo si volge al mondo perché il mondo è costruito dalla razionalità dell’Io penso e dal suo ordine categoriale. Il processo si conclude con Nietzsche per il quale la razionalità cede alla volontà di potenza che l’ha promossa, e che ha potere sulle cose perché queste, sradicate dall’essere, sussistono in quanto volute. La volontà che vuole subentra così allo svelamento dell’essere e all’accoglimento della sua verità.
1 Cfr. il capitolo 26: “La gnoseologia dell’adeguamento come mutamento del luogo della verità”.
2 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 130.
3 Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ (1259-1273), Editiones Paulinæ, Roma 1962, Parte I, questione 8, articolo 3.
4 Id., Quæstiones disputatæ. Quæstio I: De veritate (1256-1259), Marietti, Torino 1959, questione 7, articolo 5.
5 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 131.
6 Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ, cit., Parte II, Sezione seconda, questione 179, articolo 2.
7 Ivi, Parte I, questione 82, articolo 3.
8 Ibidem.
9 Tommaso d’Aquino, Quæstiones disputatæ. Quæstio I: De veritate, cit., questione 22, articolo 11.
10 Id., Summa theologiæ, cit., Parte II, Sezione seconda, questione 180, articolo 2.
11 Ivi, Parte II, Sezione seconda, questione 181, articolo 1.
12 Ivi, Parte II, Sezione prima, questione 66, articolo 3. Recita il testo latino: “Virtus moralis est in rationali per partecipationem; virtus autem intellectualis in rationali per essentiam. Illa virtus nobilior est quæ habet nobilius objectum. Manifestum est autem quod objectum rationis est nobilius quam objectum appetitus: ratio enim apprehendit aliquid in universali”.
13 Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles (1269-1273); tr. it. Somma contro i Gentili, Marietti, Torino 1967, III, 26.
14 F. Nietzsche, Götzendämmerung, oder: Wie man mit dem Hammer philosophiert (1889); tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI, 3., p. 71. Questa citazione di Nietzsche è riportata da M. Heidegger in Introduzione alla metafisica, cit., p. 46.
15 G.W. Leibniz, Principes de la nature et de la grâce (1714); tr. it. Princìpi della natura e della grazia, in Scritti filosofici, Utet, Torino 2000, vol. III, § 2: “Qualità e azioni interne della monade: percezione e appetizione”, pp. 444-445.