49.

L’empirismo e la ragione come rendiconto e previsione

Assumiamo come vera la proposizione in cui si manifesta la conformità di una qualunque cosa con la nostra conoscenza, osservazione ed esperienza.

J. LOCKE, Saggio sull’intelligenza umana (1690), p. 746.

Tra le varie distinzioni che nascono dalla scolastica del pensiero figura anche quella, ormai classica, tra razionalismo ed empirismo, che dividerebbe in due solchi il cammino percorso dal pensiero moderno. La prima corrente dedurrebbe il mondo dai principi della sola ragione, la seconda lo indurrebbe dall’osservazione empirica resa rigorosa dall’esperimento. In realtà a monte delle due correnti c’è l’esigenza incondizionata di assicurare all’uomo il possesso stabile e definitivo dell’ente, mediante l’impiego dell’anticipazione matematica della ragione, che agisce come presupposto comune tanto nel razionalismo quanto nell’empirismo.

L’esperimento empirista si differenzia dalla semplice osservazione perché non si limita a considerare il comportamento delle cose, ma verifica la loro rispondenza alle ipotesi che matematicamente sono state su di esse anticipate. L’esperimento è quindi il rendiconto della ragione, ciò in cui si verifica la validità delle sue anticipazioni razionali; e l’empirismo che lo esprime, lungi dal trascurare le sorti della ragione anticipante, si presenta come quella ricerca che assume la ragione come misura del proprio incedere, come ciò a cui bisogna render ragione mediante l’esperimento, che reperisce le necessarie conferme alle ipotesi che sono state dalla ragione matematicamente anticipate.

Nell’esecuzione dell’esperimento, infatti, la ragione indica la direzione e pone le condizioni sotto le quali qualcosa deve essere esperito, per cui ciò che si osserva non è la cosa nel suo libero offrirsi, ma la cosa nel suo corrispondere o non corrispondere all’ipotesi che la ragione ha anticipatamente formulato su di essa. In questo modo la ragione si presenta, ancora una volta, come misura di tutte le cose, come ciò a cui tutte le cose devono rendere conto. Anche in questo contesto, e non solo in quello leibniziano,1 si lascia riproporre la lettura heideggeriana secondo la quale:

La parola ratio è collegata con il verbo reor, il cui senso preminente è “regolare (richten) qualcosa su qualcosa d’altro”. Questo è anche il senso del verbo tedesco rechnen, contare. Tener conto di qualcosa (mit etwas rechnen) significa: non perderlo di vista e regolarsi su di esso. Contare su qualcosa (auf etwas rechnen) significa: aspettarselo, e, nel fare questo, aggiustarselo come ciò su cui si deve costruire. Il senso autentico del verbo rechnen non è necessariamente riferito ai numeri.2

Infatti, sulla relazione che esiste fra la ragione (ratio) e il contare (rechnen) si fonda anche l’assunzione del rendiconto in funzione della sua generalizzazione, che consente all’empirista di “contare” su una legge, e quindi l’assunzione della legge in funzione della previsione, che consente di “contare” sugli eventi futuri.

Per l’empirista, infatti, conoscere significa giungere alla formulazione di leggi la cui essenza è nella generalizzazione, operata dalla ragione, delle esperienze effettuate. Che il fuoco possa essere prodotto sfregando il legno in una certa maniera è una conoscenza derivata per generalizzazione da esperienze individuali che, ripetute, consentono di affermare che con lo sfregamento del legno si otterrà sempre il fuoco. In quel “sempre” è contenuto il senso della legge e quindi della conoscenza, perché, per l’empirista, conoscere significa generalizzare, estendere a tutte le cose l’ipotesi anticipata dalla ragione e confermata dal rendiconto dell’esperimento.

La generalizzazione è possibile solo sulla base del presupposto, non dimostrato, dell’uniformità della natura, e della sua conformità alla struttura matematica impostale dalla ragione che, per questo, ritiene di poter analogare i fatti non osservati su quelli osservati. Senza questi presupposti, che sono posti dalla ragione e non dati dall’esperienza, l’analisi empirica non perverrebbe ad alcuna legge e quindi ad alcuna conoscenza circa la natura delle cose.

Ma allora qual è il fondamento della generalizzazione a cui l’empirista riduce l’essenza della conoscenza? La fiducia nell’esperienza e nella sua attendibilità, se non è un dato dell’esperienza, da cosa nasce, e in vista di che cosa? Ancora una volta l’esperienza, che per l’empirista è il fondamento di ogni conoscenza, si rivela come un fondamento infondato per chi si attiene rigorosamente ai soli mezzi messi a disposizione dall’analisi empirica. Hume a questo proposito è stato chiarissimo. La sua critica al principio di causalità, che a suo parere è un’impropria generalizzazione del principio di successione dei fenomeni empiricamente verificati,3 destituisce di valore il fondamento empirico e, come già nel razionalismo di Leibniz, così nell’empirismo rigorizzato di Hume, si offre la possibilità di pensare quel fondamento senza fondo in cui si custodisce il mistero abissale dell’essere.

Questa possibilità risveglia Kant dal “sonno dogmatico”, ma il risveglio è subito assopito dalla logica scientifica, che si proibisce il pensiero dell’essere (noumeno) per limitarsi alla considerazione dell’apparire degli enti (fenomeno), in cui la ragione moderna da tempo aveva preso dimora.

La ragione empirista, infatti, non si limita alla generalizzazione dell’osservazione, né a ordinare quanto osservato nel passato e nel presente, ma sporge verso il futuro ponendosi come previsione. La legge che il fuoco è caldo va al di là delle esperienze passate in base alle quali fu stabilita, essa stabilisce che sempre il fuoco percepito sarà caldo. E così la ragione, incapace da sola di qualsiasi previsione, acquista tale capacità combinandosi con l’osservazione empirica, chiamata a dare conferma a quelle operazioni logico-matematiche precedentemente impiegate per ordinare il materiale percepito e per inferire conclusioni. Bacone colse lucidamente il rapporto tra conoscenza e previsione quando enunciò la sua famosa massima: sapere è potere.4

In vista di questa potenza, la scienza, che nasce dall’anticipazione della ragione combinata con l’osservazione empirica, trova il proprio senso e la propria giustificazione nella capacità di operare simili inferenze, specialmente quando sono in gioco cose più importanti del calore del fuoco. Eppure anche l’induzione inferenziale, su cui si fonda la previsione scientifica, non ha fondamento empirico. L’analisi humiana ha mostrato che l’inferenza, con cui si vuole giustificare l’induzione, risulta a sua volta induttiva. La scienza crede nell’induzione perché finora ha assicurato successo, quindi il valore dell’induzione riposa su un’altra induzione: l’esperienza del successo.

Qui il circolo sembra inevitabile. Hume, nel prospettarlo, pone il dilemma: o essere un empirista radicale e non ammettere altri risultati all’infuori delle osservazioni derivate dall’esperienza, rinunciando a qualsiasi inferenza induttiva rivolta al futuro, oppure ammettere l’induzione inferenziale e con ciò accogliere un principio non derivabile dall’esperienza, con conseguente abbandono dell’empirismo.

L’empirismo classico, da Bacone a Hume, si chiude con il crollo dei suoi principi, postulando, rispetto al futuro, un atteggiamento di ignoranza, sulla cui base l’unico dato noto è che nulla sappiamo dell’avvenire. Ancora una volta, nella storia del pensiero moderno, si offre la possibilità di constatare l’impotenza della ragione umana di fronte all’imprevedibilità dell’accadimento, l’infondatezza della sua pretesa di fondare, di prevedere, di decidere, di assicurare, con l’accadimento dell’ente, il suo senso, il suo impiego, la sua destinazione.

Ma la volontà di potenza non si arresta neppure davanti ai circoli e alle contraddizioni. Di fronte alla possibilità di prevedere e quindi di controllare il futuro è disposta anche a correre il rischio dell’errore, per altro superabile con il progressivo perfezionamento della natura umana. Laplace ha simboleggiato questa concezione nella famosa immagine di un’intelligenza superumana capace di sapere la posizione e il momento di ogni atomo e di risolvere tutte le equazioni matematiche. Per tale intelligenza “il futuro e il passato sarebbero presente”.5 Laplace non sapeva di anticipare in questo modo la conclusione a cui sarebbe giunto Nietzsche, ma soprattutto non sapeva, a differenza di Nietzsche, che a sollecitare l’ipotesi era la volontà di potenza che vuole garantirsi dalla minaccia del nulla, assicurandosi l’ente, sottraendolo alla precarietà che lo caratterizza in quanto evento gratuito dell’essere.

Oggi la scienza ha rinunciato alla pretesa di dire la verità sulle cose e di prevedere il corso futuro del loro comportamento; sa che causalità e previsione sono abiti linguistici (Hume diceva “abitudini”) apparentemente forniti di significato autonomo, ma di fatto tali solo in quanto traducibili in asserzioni di tipo diverso; sa che la sua verità è un’assunzione, cioè un’asserzione che si prende per vera anche se la si conosce come semplicemente probabile; sa che anche la previsione è un’assunzione, la cui probabilità è misurata dalla frequenza induttiva, dal numero delle volte in cui si è avuta la conferma nel passato; ma ciononostante la scienza, anche se così ha ridotto la pretesa qualitativa del suo dire, anche se sa che le sue conclusioni non sono “asserite”, ma solo “assunte”, continua a fare previsioni, a provare che, nell’ambito ridotto delle probabilità, le sue sono le migliori, e che il formulare è la miglior cosa da fare.

Proseguendo imperterrito lungo la via dischiusa dalla scienza, nonostante l’esplicito avvertimento di quest’ultima circa la propria incapacità a raggiungere il vero, l’Occidente continua a rimuovere la voce dell’essere, per rendere possibile il suo rapporto d’avere con l’ente, in cui risiede la sua sicurezza.

Ma che cosa significa sicurezza? Il termine latino (sine cura) avverte, nella sua ambiguità, che “sicurezza” può essere mancanza di timore, ma anche mancanza di cura, trascurata spensieratezza. Siccome prova timore di fronte all’imprevedibile accadere dell’ente, l’uomo se ne prende cura nel tentativo di dominarlo e di assicurarsene il controllo, ma così facendo trascura l’essere e, questa volta senza averlo previsto, corre il pericolo estremo che attende colui che si assicura tra gli enti nell’oblio dell’essere, radice di ogni passato e quindi di ogni imprescindibile futuro.

Per quanto alto sia il grado di probabilità che accompagna il progetto sull’ente e la previsione del suo impiego, la tensione che si determina non potrà evitare, nella dimenticanza dell’essere, l’angoscia che accompagna la fine dell’ente e il niente che in tal modo si dischiude. La considerazione del niente, che si ripropone in occasione dell’estinguersi di ogni ente e di ogni avere che lo riguarda, sembra oggi la più idonea a ricondurre al pensiero dell’essere e alla ricerca del suo senso.

Nel non-senso finale della scienza c’è infatti la possibilità, per la filosofia, di riprendersi dall’alienazione in cui è caduta quando, nell’epoca moderna, ha pensato se stessa come anticipazione matematica della ragione, da cui è nata la scienza e, con la scienza, il mondo moderno proteso alla cura dell’ente nell’incuria dell’essere.

1 Cfr. il capitolo 48: “Leibniz e la ragione come calcolo e fondamento”.

2 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, Lezione XI, p. 170.

3 D. Hume, An enquiry concerning human understanding (1758); tr. it. Ricerca sull’intelletto umano, in Opere, Laterza, Bari 1987, vol. II, Sezione VII: “Dell’idea di connessione”, p. 69: “Quando guardiamo intorno a noi verso gli oggetti esterni e consideriamo l’operazione delle cause, non riusciamo mai, nei singoli casi, a scoprire qualche potere o connessione necessaria, cioè una qualche qualità che leghi l’effetto alla causa e che renda l’uno un’ineffabile conseguenza dell’altra. Noi troviamo soltanto che l’uno, presentemente, di fatto segue l’altra. L’impulso di una palla di bigliardo è seguito dal movimento nella seconda palla. Questo è tutto quello che appare ai sensi esterni. La mente non prova alcun sentimento o impressione interna da questa successione di oggetti; per conseguenza, non c’è, in alcun singolo particolare caso di causa ed effetto, cosa alcuna che possa suggerire l’idea di potere o di connessione necessaria”.

4 F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, I, 3, p. 552: “Scientia et potentia humana coincidunt, quia ignoratio causæ destituit effectum. Natura non nisi parendo vincitur, et quod in contemplatione instar causæ est, id in operatione instar regulæ est. (La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo a essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell’operazione pratica ha valore di regola)”.

5 P.-S. de Laplace, Théorie analitique des probabilités (1812); tr. it. Saggio filosofico sulle probabilità, Utet, Torino 1987, p. 144.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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