73.
L’essere come gioco e come eterno ritorno dell’uguale
Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l’essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l’anello dell’essere. In ogni attimo comincia l’essere; attorno a ogni “qui” ruota la sfera “là”. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità.
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883-1885), “Il convalescente”, pp. 265-266.
Per riconciliarsi con la terra dopo la lunga alienazione è necessaria una metamorfosi dello spirito che Zarathustra annuncia nel suo primo discorso e che contiene il senso di ogni successivo svolgimento:
Tre metamorfosi dello spirito io vi nomino: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo.1
Il cammello è lo spirito ubbidiente che non vuole la propria volontà perché si sottopone alla volontà di Dio, è lo spirito che sopporta il peso della trascendenza e che si riconosce nei comandi che da questa provengono. Prigioniero di un immutabile mondo di valori egli sottostà rassegnato e docile al comando del “Tu devi”.
Oppresso da questo carico, si affretta il cammello verso il deserto, dove il suo spirito si trasforma in quello del leone, che divora ogni rispetto di Dio per catturare nel proprio deserto la sua preda, cioè la libertà di esser se stesso. Il leone trasforma così il “Tu devi”, imposto dalla trascendenza di Dio e dai valori, nell’“Io voglio” che esso stesso pronuncia, e che gli consente di diventare padrone di sé, perché comanda a se stesso ciò che vuole.
Ma nel deserto non c’è nulla da volere, la libertà che si afferma è solo negativa, è la libertà che dice “no”, che rifiuta Dio, e con Dio l’alienazione bimillenaria della morale oggettiva, della cosa metafisica in sé, dell’illusione dei valori. Essa è soltanto libertà da, non libertà di, e tuttavia, avverte Nietzsche, è necessaria: “Crearsi la libertà è un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone”.2
Ma la negazione della trascendenza dei vecchi valori, l’emergere dell’esistenza umana dall’alienazione, non è ancora una nuova creazione, un’umanità liberata per qualcosa di nuovo. L’“Io voglio” che il leone contrappone al “Tu devi” del cammello è ancora chiuso nell’ostinazione, nella caparbietà, nella rigidità del no. La volontà che esprime è libera per il nulla, in quanto preferisce volere il nulla piuttosto che non volere, ma, così volendo, conclude se stessa nel nichilismo, nel “deserto” dove nulla nasce e nulla vive.
Per “un nuovo inizio” si richiede una terza metamorfosi, quella che dall’“Io voglio” del leone conduce all’“Io sono” del fanciullo cosmico, perché, scrive Nietzsche:
Il fanciullo è innocenza e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota che gira da sola, un primo moto, un sacro dir di sì. Sì, per il gioco della creazione, fratelli, occorre un sacro sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista da sé il suo mondo.3
Il fanciullo dell’ultima metamorfosi, che contiene un implicito riferimento polemico al messaggio cristiano del regno di Dio, a cui possono accedere solo coloro che credono come fanciulli,4 si rifà in senso positivo al fanciullo cosmico eracliteo, che crea e distrugge, con il suo gioco innocente: “Il tempo (aión) è un fanciullo che gioca, spostando i dadi: il regno di un fanciullo”.5 Il fanciullo è “oblio” perché vive in ogni istante completamente nel presente, è “innocenza” perché il suo gioco non ha ragioni a cui ricondursi, non ha scopi da perseguire. Senza ricordarsi e senza pentirsi, senza attendere quel che accadrà nel futuro e senza sperarvi, il fanciullo gioca. Il suo gioco è nell’innocenza cosmica dell’essere perennemente diveniente.
Nel gioco del fanciullo naufraga la “storia” e la “ragione” dell’Occidente. Appartiene infatti all’Occidente, in quanto giudaico-cristiano, l’interpretazione del tempo come “storia” compresa tra un inizio e una fine, tra una creazione e un éschaton.6 L’uno e l’altro furono in seguito secolarizzati e volgarizzati nell’idea moderna di un progresso indefinito verso stadi di sempre maggiore civiltà. Ma per quanto anticristiani possono sembrare gli esiti della storia cristiana, l’Occidente non ha mai rinunciato a credere in una storia progressiva, che procede da un principio assoluto verso un fine assoluto. Questa visione della storia e questa riduzione del mondo a storia, discende da quel modo di pensare tipico dell’Occidente che è pensare per cause e per ragioni, per cui un mondo senza storia, e una storia senza inizio e senza fine, non avrebbe alcun senso, perché non sarebbe in grado di rinviare ad alcuna ragione.7
Il gioco del fanciullo, che “innocentemente” crea e distrugge, distrugge innanzitutto il senso escatologico del tempo, che viene così sottratto a una creazione intenzionale e a una fine che coincide con un fine ragionevole o quanto meno comprensibile, e inoltre distrugge quel pensare per cause e per ragioni, perché il gioco avviene a caso. Questo gioco ospita il mondo che perennemente sussiste, cioè nasce e perisce senza fine e senza meta trascendenti, quindi senza neppure uno “scopo” inteso come “senso”. La sua antica nobiltà è quella di essere “puro caso”, un caso tanto comprensivo da includere in sé anche il caso “uomo”.
Dall’essere come fondamento (Dio) all’essere come gioco. Questo è il passaggio con cui Nietzsche conclude l’Occidente, la sua storia finalistica e la sua ragione fondante. Come il fanciullo, giocando, crea castelli di sabbia, così l’essere gioca portando alla luce la molteplicità degli enti, come poíesis originaria della vita cosmica. Evidentemente c’era bisogno della morte di Dio perché si rivelasse, nel carattere ludico del fanciullo, il momento dell’essere come creazione libera da ogni valore. All’Ente supremo della metafisica dell’Occidente Nietzsche sostituisce il supremo gioco dell’essere, in cui gli enti non sono più causati, ma compaiono per caso, ossia ac-cadono (casum), senza lasciarsi pre-vedere o pre-comprendere da alcuna ragione.
Per stare nel gioco si richiede una nuova forma di pensiero, che non sia il pensiero rappresentativo o il pensiero che calcola l’ente e il suo accadimento. Nel gioco il pensiero non ha alcun disegno sull’ente, è lontano tanto dalla pre-determinazione divina, che non lascia essere l’ente incondizionatamente, ma lo inserisce nella necessità eidetica, quanto dalla pre-determinazione umana che, con l’anticipazione matematica, lo calcola e anticipatamente lo possiede.
La gratuità del gioco esprime la precarietà di ogni ragione e fondamento. Contro il bimillenario tentativo messo in atto dall’Occidente per assicurare l’ente, prima con la metafisica e poi con la scienza e con la tecnica, il gioco si propone come vicenda senza perché, senza cause, senza fine, senza ragione. Contro il “perché (warum)” del principio di ragion sufficiente che tutto vuole spiegare per garantire e assicurare, c’è il “perché (weil)” del gioco del fanciullo che dura mentre e finché (dieweil) dura. Per spiegare il perché del gioco e la sua differenza dal perché metafisico, Heidegger ricorre al verso di Angelus Silesius: la rosa è senza perché, essa fiorisce perché fiorisce. Il perché del gioco è come il perché della rosa, quindi può essere espresso adeguatamente solo con il weil. Infatti, scrive Heidegger:
Perché il fanciullo scorto da Eraclito nell’aión gioca il gioco del mondo? Gioca perché gioca. Il “perché (weil)” sprofonda nel gioco. Il gioco è senza “perché (warum)”. Il gioco gioca mentre e finché (dieweil) gioca. Esso rimane soltanto gioco: il più alto e il più profondo. Ma questo “soltanto” è tutto, l’Uno, l’Unico.8
Il gioco dell’essere è l’eterno ritorno dell’uguale, un gioco increato, assolutamente autonomo, senza inizio e senza fine. La sua vicenda non è eternità senza tempo (æternitas) come l’eternità del Dio biblico che antecede la creazione, ma è tempo eterno (sempiternitas), tempo cosmico perenne, ciclo eterno del nascere e del perire, in cui si identificano l’immutabilità dell’essere e il continuo mutamento del divenire. La sua vicenda, che si autogenera e in sé ritorna, è senza meta “se non è una meta la felicità del circolo”, senza volontà se non vuole se stesso un circolo che ritorna in sé e in sé si autoconferma.
Del superuomo Zarathustra parla a tutti; della morte di Dio e della volontà di potenza a pochi, dell’eterno ritorno dell’uguale solo a se stesso. La successione dei pensieri fondamentali di Nietzsche non è arbitraria, la loro partecipazione, sempre più limitata, dice la difficoltà ad accedere a pensieri desueti per la logica e la metafisica dell’Occidente.
Se l’oblio del senso dell’essere dipende dalla gerarchizzazione che, nell’ambito dell’Occidente, ha condotto alla valutazione di un Ente supremo come causa, fondamento e valore della totalità degli enti, il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale, ponendosi come negazione di ogni gerarchia di valori, di ogni causa efficiente e di ogni causa finale, si impone come novità così radicale rispetto alla tradizione precedente, da relegare quest’ultima in un passato che non offre alcuna continuità, perché è irrimediabilmente passato.
La tradizione metafisica è nata, infatti, con la distinzione platonica tra “essenza (tó ti estín)” ed “esistenza (tò éstin)”, tra il “che cos’è” una cosa, e il fatto “che essa è”. Questa distinzione, in cui è riposto il segreto della metafisica dell’Occidente, si lascia esprimere in termini di essere e divenire, quindi di essere e non-essere.
Infatti, ciò che ha le caratteristiche dell’idea è a priori dotato dell’essere, e in esso essenza ed esistenza coincidono, ciò che invece non ha le caratteristiche dell’idea soffre la disequazione tra essenza ed esistenza. Il suo essere è un divenire tra la partecipazione e la non partecipazione all’essere. Pur non essendo un puro nulla, non è veramente, come invece è il mondo delle idee. Nasce così il dualismo tra iperuranio e mondo sensibile, tra un mondo in cui è tolta la problematicità dell’ente e un mondo in cui è ancora conservata.
Questo dualismo è eliminato da Nietzsche mediante l’identificazione tra volontà di potenza ed eterno ritorno all’uguale. Qui l’essenza coincide incondizionatamente con l’esistenza, perché la volontà di potenza risponde alla domanda: “che cos’è (Was = essenza)” l’ente nella sua totalità?, e l’eterno ritorno risponde alla domanda: “come è (Wie = esistenza)” l’ente nella sua totalità?
Essere e divenire non si contrappongono più dualisticamente come il mondo sovrasensibile e il mondo sensibile della metafisica tradizionale, ma coincidono in quella continua stabilizzazione che l’eterno ritorno opera sul divenire della volontà di potenza. Se infatti la volontà di potenza, che non vuole ente alcuno perché è continuo svolgersi senza fini (Ziel-los), eterno divenire (Werden), incessantemente in cammino (unterwegs) verso la sua essenza, che è potenza, come ininterrotto autopotenziamento, l’eterno ritorno è la sua stabilizzazione, perché ritornare significa portare continuamente nella stabilità ciò che per definizione non è stabile. Per questo Heidegger può dire:
L’uguale che ritorna ha una sussistenza (Bestand) di volta in volta solo relativa ed è pertanto l’instabile per essenza (das wesenhaft Bestandlose). Il suo ritorno significa però il portare sempre di nuovo a sussistere, significa cioè stabilizzazione (Baständigung). L’eterno ritorno è la più stabile stabilizzazione dell’instabile (die beständigste Baständigung des Bestandlosen).9
E Nietzsche dal canto suo:
Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza. [...] Che tutto ritorni è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione.10
Con l’identificazione di essere e divenire, Nietzsche ritorna al pensiero aurorale della phýsis, dell’essere come originaria kínesis. Dall’uomo e da Dio egli ritorna a quel Tutto cosmico figurato nell’eterno ritorno dell’uguale, che esclude da sé valori, cause e fini. Il pensiero metafisico è dissolto nella sua tensione rettilinea protesa al controllo dell’ente, perché, scrive Nietzsche: “Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”.11 “Ogni pietra scagliata” (volontà di potenza) “deve cadere” (eterno ritorno).12
Il tempo giudaico-cristiano compreso tra creazione ed éschaton, quello profano proteso nell’idea di progresso si dissolvono nel tempo cosmico, dove passato e futuro si risolvono nel presente eterno, che dà al passato il carattere di possibili aperture proprie del futuro, e al futuro l’immobilità del passato. Nell’eterno ritorno il tempo perde la sua univoca direzione, diventa “mezzogiorno”, il centro del tempo, lo splendore della luce che fa apparire nell’aperto ogni cosa.
“Prima che il sole ascenda”,13 Zarathustra vede l’incanto del cielo mattutino. È l’abisso di luce che manifesta lo splendore di ouranós che illumina tutte le cose e tutte le riunisce e le raccoglie comprendendole sotto la sua volta, perché, scrive Nietzsche: “Su tutte le cose si stende il cielo del caso, il cielo dell’innocenza”,14 che dissolve ogni regno sopraceleste, ogni hyper-ouranós, ogni al di là metafisico e morale. Con esso scompare ogni “nube errante” che macchia l’innocenza del cielo, scompare l’ira degli dèi e il loro governo del mondo.
Vedere le cose alla luce di ouranós, che ha liquidato ogni hyperouranós, significa sottrarre le cose a ogni predeterminazione divina, a ogni significato morale, a ogni ragionevolezza umana, significa intendere il corso delle cose nel tempo come una danza, nella quale tutto forma un cerchio. Di qui l’invocazione di Nietzsche:
O cielo che ti incurvi su di me, tu puro! tu sublime! Questa è per me la tua purezza, che non ci sia un ragno eterno e ragnatele eterne, che tu sia per me la pista da ballo di casi divini, che tu sia per me il tavolo degli dèi per dadi divini e divini giocatori.15
Divino è dunque il gioco dell’essere, “prima che ascenda il sole” platonico, l’Ente supremo che distrugge l’innocenza del gioco con lo “spirito di gravità” delle idee metafisiche, morali, religiose. Il “grande anelito” di Nietzsche, che si oppone allo “spirito di gravità”, vuole spegnere proprio questo sole, per restituire al cielo la sua purezza mattutina, dopo il tramonto e oltre il tramonto.
1 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, 1: “Delle tre metamorfosi”, p. 23.
2 Ivi, p. 24.
3 Ivi, p. 25.
4 Matteo, Vangelo, 18, 1-5: “In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: ‘Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?’. Allora Gesù, chiamato a sé un fanciullo, lo prese in mezzo a loro, e disse: ‘In verità vi dico: se voi non vi convertite e non diventate come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà uguale a questo fanciullo, egli sarà il più grande nel regno dei cieli, e chiunque accoglierà un fanciullo come questo in nome mio, accoglie me’”.
5 Eraclito, fr. B 52.
6 Cfr. Parte VII: “Cosmo greco e mondo biblico”.
7 Si veda in proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 47: “La tecnica e la fine della storia”.
8 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 192.
9 Id., Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 770.
10 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1885-1887; tr. it. Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, cit., 1975, vol. VIII, 1, p. 297: “Dem Werden den Charakter des Seins aufzuprägen, das ist der höchste Wille zur Macht. [...] Dass alles wiederkehrt, ist die extremste Annäherung einer Welt des Werdens an die des Seins: Gipfel der Betrachtung”.
11 Id., Così parlò Zarathustra, cit., “La visione e l’enigma”, p. 192.
12 Ivi, p. 190.
13 Ivi, “Prima che il sole ascenda”, pp. 199-202.
14 Ivi, p. 201.
15 Ivi, p. 202.