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Il noeticismo greco e l’individuarsi della volontà nello spazio cristiano
Il problema del senso dell’essere non solo non è stato risolto né adeguatamente formulato, ma è caduto nell’oblio, nonostante tutto l’interesse per la “metafisica”. [...] Nel Medioevo l’ontologia greca, così sradicata, divenne un corpo fisso di dottrine. Comunque, pur nei limiti dell’accettazione dogmatica delle concezioni fondamentali dell’essere proprie dei Greci, questa sistematica contiene un gran lavoro di avanzamento non ancora posto in luce.
M. HEIDEGGER, Essere e tempo (1927), pp. 78-79.
La soggettivazione dell’essere, il suo tradursi in idea dell’essere e in volontà d’essere, che con tanta evidenza caratterizzano l’epoca moderna, è stata lentamente ma progressivamente preparata dalla speculazione medioevale che, sotto la costante preoccupazione teologica, nasconde un prepotente impulso umanistico, volto ad assicurare all’uomo il cielo e la terra, la stabilità del mondo e la salvezza oltre il tempo.
Intelletto e volontà sono dimensioni spiccatamente antropologiche; riferirle all’essere significa ridurre l’essere a misura d’uomo anche se il riferimento è a Dio. Una riduzione di questo tipo era sconosciuta al mondo greco, anche quando la speculazione sull’essere già si muoveva nella direzione dell’oblio.
Lógos e nóesis sono parole greche che non esprimono una ricerca di logica o di psicologia, né l’analisi di un processo mentale, ma il modo necessario in cui l’essere è. Tale è il Lógos di Eraclito in cui si compone l’invisibile armonia del cosmo.1 La parola non possiede ancora una significanza noetica, ma è contrassegnata dalla valenza cosmica, là dove kósmos non significa “mondo”, ma invisibile armonia sottesa al cháos.
In questa accezione il termine ricompare presso gli stoici che intendono il Lógos come principio divino operante, come l’“artefice di ogni cosa”. Con Filone di Alessandria il Lógos si ipostatizza, diventa l’archetipo, il genetico di ogni cosa, diventa la sintesi di tutte le realtà intermedie che per Filone sono le Idee, la Sapienza, gli Angeli, lo Spirito e le Potenze.2 Con il cristianesimo infine, il Lógos è Dio stesso: “In principio era il Lógos e il Lógos era presso Dio, e il Lógos era Dio”.3
La nóesis non ha un così alto destino, ma compie almeno un tratto di cammino simile. Dal noeîn di Parmenide che, lungi dall’esprimere una facoltà dell’uomo, si colloca in una posizione speculare e di raffronto all’essere per significarne l’identità, al noûs di Anassagora che si fa principio cosmico per diventare con Plotino un’ipostasi divina, alla nóesis platonica, che si consacra come contemplazione dell’idea, ciò che traspare è che lógos e nóesis appartengono all’essere, non all’uomo.
Lo stesso dicasi della volontà. Sembra che nel mondo greco la volontà non giunga a definirsi nel suo in sé, nella sua funzione nell’ambito dell’essere o dell’uomo. In Platone vi sono solo delle notazioni, essendo il suo mondo impostato sull’idea che è tutto: è sapienza, è virtù, è felicità. La notazione più decisiva a questo proposito dovrebbe essere il “Bene”, il principio-fine di ogni tensione, ma si tratta di una tensione troppo lontana dal senso determinato di una volontà.
In un Bene accentuatamente noetico che si esprime in ogni entità ideale, nella forma e nell’unità dell’essere, la volontà non emerge. Potrebbe ritrovarsi nell’éros, ma anche questo esprime una tensione contemplativa, un amore per la sapienza, una philosophía, che dell’amore è soltanto un analogo. La volontà non è ospitata neppure dalla virtù, perché questa è saggezza nella conduzione della vita, è phrónesis.
Come in Platone, così in Aristotele, la noesi riassume in sé sola tutto ciò che non è materiale. Dio stesso non è volontà (boúlesis), ma pensiero puro (noéseos nóesis). L’etica di Aristotele è propriamente una dianoetica, una teoria dell’attività razionale e contemplativa che culmina nella vita teoretica (theoretikòs bíos).
Un fattore tensionale può forse essere scorto nell’órexis o “protensione”. In essa potrebbe individuarsi la boúlesis, che peraltro possiede in Aristotele uno scarso rilievo e apparizioni sporadiche. Ma anche l’órexis è una pro-tensione teoretica, un moto secondo ragione che la rende órexis dianoetiké. Anche in Aristotele quindi la volontà è assunta nella noesi, e con ciò si conferma quel noeticismo greco che la speculazione successiva dissolverà a vantaggio dell’elemento volontaristico che deciderà il volto dell’Occidente.
Qui interviene quella che secondo Jaspers è, accanto alla grecità, la seconda matrice della cultura occidentale: il cristianesimo, o, più ampiamente, la religione biblica. Infatti, l’emergere della volontà, il suo individuarsi e il suo distinguersi dalla noesi non è avvenuto propriamente nella filosofia, ma in un ambito più ampio, in uno spazio epocale altro da quello greco, nello spazio della tradizione giudaico-cristiana. Qui il lógos si personifica, il suo rivelarsi è frutto di volontà: la volontà della creazione che sull’abisso del nulla fa essere ciò che è.4
Il principio creazionistico, nell’esprimere il distanziarsi della creatura dal Creatore, contiene implicita la necessità del ritorno, affidato non più all’aleatorietà dell’etica-dianoetica greca, ma all’obbligazione morale. La volontà, che ha presieduto la creazione, esige nell’uomo una volontà morale, che diviene responsabilità del proprio eterno destino. Il rapporto di creazione implica infatti un rapporto di dominio. Dio è padrone del mondo, quindi legislatore, la sua volontà è vincolante; per contro l’uomo dispone di una libertà vincolata, dal cui impiego dipende il momento salvifico.
Nella legge l’essenza della re-ligio. Nell’Antica Alleanza l’esaltazione della legge è l’approfondirsi del senso del peccato. Nella Nuova Alleanza l’esasperazione dualistica si attenua grazie alla mediazione dell’amore. Il rapporto di creazione si approfondisce nel rapporto di grazia, e il Creatore appare in una luce d’amore che è poi comunione d’essere con l’uomo.
A questa comunione si riferiscono la vita, la cháris, la koinonía che con tanta frequenza ritornano in Giovanni Evangelista e Paolo di Tarso. Ma l’amore è la sublimazione della volontà. La volontà emerge come quel protendersi che si carica di tutto l’essere del principio entitativo, per comunicarsi a ogni altro ente capace di questa comunicazione. L’essere è sussunto dalla volontà che così lo esprime e lo partecipa.
Così inteso, il cristianesimo è per Heidegger il proseguimento in direzione volontaristica di quel travisamento della verità dell’essere di cui è possibile scorgere le origini all’inizio stesso della grecità. Tradotto in termini filosofici, esso si presenta come un derivato della risoluzione platonica dell’essere nell’idea,5 quindi della stratificazione dell’essere in sensibile e sovrasensibile, e infine dell’ordinamento ascensionale che dal mondo conduce a Dio.
Rispetto all’ontologia aristotelica, il pensiero cristiano segna un’ulteriore entificazione dell’essere, in quanto ripone il timótaton ghénos di Aristotele nel Dio creatore, sotto cui si ordinano le creature, e risolve l’òn kathólou nell’ens commune, cioè in un tipo di ente razionalmente preconcepito e tecnicamente dominato e fatto. Se a tutto ciò si aggiunge il concetto dell’amore, in cui si raccoglie tutto il senso del cristianesimo, non è difficile scorgere, nella civiltà medioevale da esso formata, quelle tracce che condurranno alla volontà moderna, come conquista di sicurezza attraverso il perdono e la salvazione.
Al cristianesimo e all’atmosfera spirituale da esso diffusa in Occidente è da imputare quel definitivo travisamento della parola greca, il cui senso già s’andava smarrendo in Platone e in Aristotele. Il travisamento è tale da denunciare non tanto una diversa impostazione semantica, che è normale da epoca a epoca, quanto un ambito e un mondo di pensiero diverso.
In questo trapasso, la fondamentale esperienza dell’essere che si esprimeva nella parola originaria si perde, e la nuova parola manca di genuina consistenza. Anzi, avverte Heidegger: “La mancanza di fondamento del pensiero occidentale comincia proprio con questo genere di traduzione”.6 E questo non per effetto della parola come tale, ma per il mondo che essa porta con sé e a cui appartiene.
Il trapasso, infatti, non è da parola a parola, ma da mondo a mondo: dal mondo dell’epifania dell’essere a quello del suo oblio. In questo senso il pensiero cristiano, scrive Heidegger, è: “un’ontologia greca sradicata”,7 è “l’incomprensione della problematicità e dell’apertura in cui Platone e Aristotele lasciarono i problemi centrali”.8
1 Cfr. il capitolo 19: “Il lógos di Eraclito”.
2 Filone di Alessandria, De opificio mundi; tr. it. La creazione del mondo, Rusconi, Milano 1978. Si veda anche l’ottimo commento a quest’opera di R. Radice, Monografia introduttiva ai diciannove trattati del “Commentario allegorico alla Bibbia”, in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, Rusconi, Milano 1994, capitolo V, § 2: “Il Logos”, pp. CVIII-CXVI.
3 Giovanni, Vangelo 1, 1.
4 Cfr. il capitolo 39: “Dalla cosmologia greca all’antropo-teologia giudaico-cristiana”.
5 Cfr. il capitolo 24: “Platone e il giogo dell’idea”.
6 M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes (1935-1936); tr. it. L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 9.
7 Id., Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, p. 79.
8 Id., Kant und das Problem der Metaphysik (1929); tr. it. Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 1981, p. 17.