26.
La gnoseologia dell’adeguamento come mutamento del luogo della verità
La verità come “svelamento” non è più il
tratto fondamentale dell’essere stesso, ma, divenuta “adeguamento”
per essere stata soggiogata all’idea, d’ora in poi è il tratto
distintivo della conoscenza dell’ente.
Con questo mutamento dell’essenza della verità si compie al tempo
stesso un cambiamento del luogo della verità.
M. HEIDEGGER, La dottrina platonica della verità (1931-1932, 1942), pp. 188, 185.
Con l’assentarsi dell’essere dallo sfondo della metafisica occidentale ha luogo anche l’assentarsi della verità come alétheia, come manifestazione di quella presenza. Al suo posto si afferma la verità come orthótes, come “esatta corrispondenza” tra il vedere (ideîn) e ciò che è visto (eîdos). Anche la verità, quindi, cade sotto il giogo dell’idea che, a questo punto, diventa misura della verità dell’ideîn. Con l’adeguarsi dell’ideîn all’idéa, si pone una concordanza (homoíosis) tra conoscente e conosciuto, che ritroviamo in Aristotele e in Tommaso d’Aquino. Dice infatti Aristotele:
Il vero è affermare ciò che è realmente unito, e negare ciò che è realmente diviso; il falso è invece la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione. [...] Infatti il vero e il falso non sono nelle cose, ma solo nel pensiero.1
E ancora:
È nel vero chi ritiene essere separate le cose che effettivamente sono separate, ed essere unite le cose che effettivamente sono unite. È invece nel falso chi ritiene che le cose stiano in modo contrario a come effettivamente stanno.2
Dal canto suo Tommaso d’Aquino afferma che: “La verità è l’adeguamento dell’intelletto alla realtà. Questo adeguamento non può essere se non nell’intelletto”.3
Col passaggio sopra descritto, fa notare Heidegger, la verità cambia luogo:
Con questo mutamento dell’essenza della verità si compie al tempo stesso un cambiamento del luogo (Ort) della verità. Come svelamento (Unverborgenheit) essa è ancora un carattere fondamentale dell’ente stesso. Come correttezza (Richtigkeit) del “guardare”, invece, diventa una caratteristica del comportarsi umano in rapporto all’ente.4
Infatti, mentre la concezione della verità come svelamento (alétheia) faceva della verità una proprietà dell’ente, la concezione della verità come adeguamento (orthótes) fa della verità una proprietà dell’uomo, in quanto l’attenzione è rivolta non più all’originario manifestarsi (alétheia) dell’ente, ma al corretto rapportarsi (orthótes) dell’uomo all’ente, sicché la verità viene a coincidere con l’esattezza del vedere e del giudicare umano.
Conferme di tale mutamento si hanno in Aristotele per il quale, come abbiamo visto: “Il vero e il falso non sono nelle cose, ma solo nel pensiero”, in Tommaso d’Aquino che, con l’adæquatio rei et intellectus, esprime e riproduce la platonica conformità (homoíosis) tra ideîn e idéa, in Cartesio per il quale “la verità o la falsità non possono essere propriamente se non nel solo intelletto”,5 in Hegel che pone come fondamento ultimo della verità del reale la razionalità dell’idea,6 che sostituisce quello che per i medioevali era l’intellectus divinus, fondamento ante rem delle cose, e infine in Nietzsche che definisce la verità una “specie di errore”,7 perché è confinata nell’orizzonte del pensiero riflesso, come esattezza di un enunciato. Alla base di simili concezioni, che riducono la verità a un fatto soggettivo e mentale, esiste innanzitutto una separazione illegittima tra la presenza e il contenuto della presenza, quindi una trasposizione della presenza stessa: da proprietà dell’essere a proprietà dell’uomo.
Per comprendere l’illegittimità di questi passaggi è opportuno non dimenticare da un lato che la presenza non può essere separata dal contenuto di cui è presenza, perché altrimenti il contenuto non sarebbe presente e la presenza sarebbe presenza di nulla; dall’altro che la presenza è una proprietà dell’essere e non dell’uomo, perché a fondamento della presenza dell’essere è l’essere stesso che, per il solo fatto di non essere nulla, si manifesta da sé nella presenza. L’uomo, allora, non è colui che con il pensiero, l’intelletto, la coscienza, il vedere (ideîn) determina il presentarsi dell’ente (idéa), ma è solo colui che si mantiene aperto alla manifestazione (alétheia) dell’ente che, per il solo fatto di essere, si presenta da sé.
Guadagnati questi due punti, non è difficile scorgere nella definizione tomista che intende la verità come adæquatio rei et intellectus e in quella cartesiana che riduce la verità al cogito, ossia all’orizzonte soggettivo della certezza, la soggettivazione della presenza, avvenuta dopo la sua separazione dal contenuto di cui è presenza. In questo contesto, la presenza diventa intellectus, cogito, Io-penso, coscienza che, pur nella loro differenza, sono espressioni equivalenti per indicare quell’orizzonte soggettivo che si esprime in giudizi e proposizioni, la cui verità è affidata alla corrispondenza tra ciò che nel giudizio è enunciato (intellectus) e ciò che essenzia il contenuto reale (res), pensato separatamente dal suo corrispondente mentale.
Ciò che divide la teoria tomista dell’intenzionalità del pensiero dal dualismo gnoseologico di Cartesio che, presupponendo l’alterità dell’essere dal pensiero, esclude l’intenzionalità di quest’ultimo, è la possibilità o l’impossibilità di realizzare la corrispondenza tra il pensiero soggettivo (intellectus o cogito) e la realtà oggettiva (res o essere oggettivo). Queste differenti posizioni, per quanto decisive possano essere in ordine alle conseguenze che da esse derivano, cadono tuttavia all’interno dello stesso errore, che consiste nell’aver separato la res dalla sua presenza e nell’aver soggettivizzato quest’ultima nella forma dell’intellectus o del cogito.
Se ora con il termine “adeguamento” intendiamo questo procedimento che pretende di instaurare una corrispondenza tra la presenza soggettivizzata di qualcosa e il qualcosa stesso, diremo che la verità non consiste originariamente nella “sintesi giudicativa” dell’intelletto (adæquatio), ma nella “presenza” come manifestazione dell’essere (alétheia). La sintesi giudicativa è solo la verbalizzazione di questa presenza; è la presa di coscienza di ciò che, sottraendosi al nascondimento, si presenta e si manifesta.
Se è dunque la presenza dell’essere ciò che sostanzia un giudizio, bisognerà evitare di intendere la coscienza, l’intelletto, e in genere la soggettività che si esprime nei giudizi, come un orizzonte in sé chiuso, la cui verità è decisa alla corrispondenza (adæquatio) con quell’altro orizzonte che è l’essere, ma bisognerà intendere l’orizzonte della coscienza come lo stesso orizzonte della presenza, che solo un’impropria supposizione dell’intelletto astratto intende separata dall’essere che è presente.
A promuovere l’intelletto astratto è stata la separazione tra essere e pensiero, verificatasi quando, con lo smarrimento del senso dell’essere, il pensiero s’è trovato nell’isolamento del suo abbandono. Allora il lógos divenne logica, e la logica, con il suo impianto categoriale, espresse la nuova sede e la nuova essenza della verità. Sede ne divenne l’enunciato, essenza l’adæquatio, ossia la concordanza con l’oggetto. Alla base dell’oggettività non si pose la presenza dell’ente, ma la sua rap-presentazione, e in questo modo si sancì per sempre la dimenticanza dell’essere come presenza (parousía).
In seguito la filosofia, lungi dal ripensare il senso originario custodito dalla parousía, s’è preoccupata esclusivamente di cercare le condizioni della corretta rappresentazione, che sono poi le condizioni dell’oggettività del pensiero ormai consolidato, “senza alcun dubbio” (Cartesio) e al di là di ogni proclamato “atteggiamento critico” (Kant), come autentica sede ed essenza della verità.
Non a caso proprio Kant riconosce che la logica è nata perfetta con Aristotele. Ma quale logica? Quella che ha smarrito l’originaria tensione tra latenza e non-latenza, sostituendola con l’alternativa tra il vero nel senso della concordanza e il falso nel senso della non-concordanza. A regolare l’alternativa Aristotele ha posto il principio di non contraddizione, elevato a norma non solo della logica, ma anche dell’essere e non-essere dell’ente. Infatti, scrive Heidegger:
Ridotto il lógos a phásis, a “enunciato”, l’enunciato decide dell’essere dell’ente in modo così originario che ogniqualvolta un enunciato si erge contro un altro, ossia v’è contraddizione, antíphasis, ciò che contraddice non può essere. Per contro, ciò che non si contraddice costituisce perlomeno un poter-essere.8
Applicandosi con la sua normatività all’orizzonte degli enti, il principio di non contraddizione garantisce la ragione dal pericolo del non-essere che potrebbe travolgerla. Rassicurata dall’inesistenza del contraddittorio, la ragione continua a servirsi del principio di non contraddizione per garantirsi l’entità dell’ente, eliminando la problematicità connessa alla contingenza del suo accadere. In questo senso, commentando l’interpretazione nietzscheana del principio di non contraddizione, Heidegger scrive:
Come certi animali marini, le meduse ad esempio, formano e stendono i loro tentacoli, così l’animale “uomo” si serve della ragione e del suo strumento di cattura, il principio di non contraddizione, per orientarsi e ritrovarsi nel proprio ambiente e per assicurare la propria sussistenza.9
Il dominio della logica sopra la metafisica è così stabilito. Ma, sotteso a questo dominio, che ai caratteri di “onto-logia” e di “teologia” aggiunge quello che rende l’intero impianto sorto dall’oblio dell’essere una “comprensione onto-teo-logica della metafisica (Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik)”,10 è ancora una volta l’uomo che, con la logica, esprime la sua volontà di potenza sull’ente, dalla cui permanenza attende stabilità e sicurezza per il suo esistere.
Il mondo, infatti, diviene, a opera della logica, un oggetto per quel soggetto che è l’uomo. Questi, assestandosi sempre più saldamente nella scissione così determinata, decide che cosa è vero e che cosa vale, inizia la sua prassi di costruzione e distruzione in base a quei valori che egli stesso pone, e a cui si àncora ogni volta che la precarietà, l’instabilità, l’angoscia per il nulla sempre incombente si affacciano e minacciano quell’ordine che pure l’impianto logico, ontico e teologico sembravano, almeno in via di principio, avere definitivamente garantito.
1 Aristotele, Metafisica, Libro VI, 1027 b, 20-27.
2 Ivi, Libro IX, 1051, b 2-6.
3 Tommaso d’Aquino, Quæstiones disputatæ. Quæstio I: De veritate (1256-1259), Marietti, Torino 1959, capitolo I, § 4. Recita il testo latino: “Veritas est adæquatio rei et intellectus. Hæc adæquatio non potest esse nisi in intellectu”.
4 M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit (1931-1932, 1942); tr. it. La dottrina platonica della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 185.
5 R. Descartes, Regulæ ad directionem ingenii (1627-1628); tr. it. Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. I, Regola VII, p. 42. Recita il testo latino: “Veritatem proprie vel falsitatem non nisi in solo intellectu esse posse”.
6 G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821); tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1954, p. 15. Recita il testo di Hegel: “Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig (Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale)”.
7 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1884-1885; tr. it. Frammenti postumi 1884-1885, in Opere, Adelphi, Milano 1975, vol. VII, 3, fr. 34 (253), p. 182. E anche in Der Wille zur Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werte (1906); tr. it. La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori, Bompiani, Milano 1992, fr. 493. Recita il testo di Nietzsche: “La verità è quella specie di errore (Die Wahrheit ist die Art des Irrtum) senza di cui un determinato genere di esseri viventi non potrebbe vivere. Alla fine, decide il valore della vita”.
8 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 192.
9 Id., Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 488.
10 Id., Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, in “Teoresi”, 1967, pp. 215-235.