36.

Anselmo: l’argomento ontologico e l’identità di essere e pensiero

Ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà, il che è maggiore. Per cui ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà.

ANSELMO D’AOSTA, Proslogion (1077-1078), § 2.

Tra i filosofi in cui sono individuabili le tracce di un autentico pensiero dell’essere nel tempo dell’oblio, Jaspers annovera Anselmo d’Aosta, a proposito del quale scrive:

Entro il processo della filosofia, Anselmo si trova a un punto iniziale che, per quanto verrà ripreso, rimarrà insorpassabile e irripetibile. Qui respiriamo un’aria che si può paragonare alla purezza dell’atmosfera parmenidea o eraclitea. È questo uno dei rari momenti in cui, sulla base della fede biblica, se ne chiarifica la profondità senza vagare in illusioni o incantesimi.1

Anselmo come Parmenide dunque, con una sola differenza che:

Parmenide, svincolato da ogni presupposto storico di una fede, generò l’inizio del grande corso del filosofare, mentre Anselmo, legato alla fede della Chiesa, non colse le conseguenze del suo atto filosofico. Il suo autentico impulso filosofico non fu affatto sviluppato in modo da esercitare un’influenza ulteriore. Esso fu sommerso dalla corrente del pensiero specificatamente cristiano che si sarebbe ingrossata nel corso dei secoli.2

L’argomento ontologico di Anselmo esprime l’identità di essere e pensiero (tò gàr autó noeîn estín te kaì eînai) annunciata per la prima volta da Parmenide.3 Per Anselmo, infatti, il pensiero non è un mezzo tecnico a disposizione dell’intelletto, non è pensiero riflesso, non è rappresentazione, perché non si muove intorno alle cose, ma, con il suo atto, è già presso la cosa stessa, anzi è la cosa stessa. La sua forza non è nella dimostrazione, ma nell’intimità con l’essere.

All’essere il pensiero non perviene con un processo inferenziale come nelle prove a posteriori dell’esistenza di Dio, ma già da sempre vive nelle sue prossimità, da questo animato e sostanziato. L’essere è così riscattato dalla costruzione soggettiva del pensiero. L’essere è per sé, e non mediante il pensiero. Se veramente Dio è misura, perché non partite da Dio per misurare le cose?

Anselmo parla dei “moderni dialettici” che non ammettono altra realtà se non quella che essi stessi possono rappresentarsi (maginationibus comprehendere), e della gente che si lascia così fortemente condizionare dalla quantità di concetti di cui dispone da non sapersi più elevare alla semplicità di ciò che da sé si annuncia. Come in Plotino, il luogo di questo annuncio è l’intimità della preghiera, la quale introduce la dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio, sollecitata dalla fede che la dischiude. Di qui l’invocazione di Anselmo: “Orsù dunque, ora tu, Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come ti possa cercare, dove e come ti possa trovare”.4

È opinione comune che la preghiera e la fede siano estranei alla filosofia e alla natura della sua ricerca. Lo stesso Tommaso d’Aquino, nella sua confutazione all’argomento ontologico, rimprovera ad Anselmo il punto di partenza fideistico, che, a suo giudizio, condiziona tutta la prova rendendola valida solo per coloro che già credono. Il rilievo di Tommaso è senz’altro corretto e rigoroso, ma solo all’interno della logica dell’intelletto e dei contenuti a cui questa logica perviene.

Il problema però è un altro: Dio può diventare un contenuto di questa logica? Può essere trattato come tutte le cose del mondo che questa logica regola? Il discorso che lo riguarda ha il diritto di ridurlo a oggetto di una trattazione scientifica? Qualora queste domande avessero una risposta positiva, ne sorgerebbero immediatamente altre: il Dio che così si trova è ancora Dio? Gli si può credere ancora e al suo cospetto prostrarsi? Oppure ciò a cui si perviene è un concetto valido per l’intelletto in generale, ma enormemente inadeguato a esprimere il senso del divino?

C’è poi un equivoco di fondo alla base sia della ripresa che della confutazione dell’argomento anselmiano; un equivoco di cui è vittima lo stesso Anselmo in quanto, come dice Jaspers, “legato alla fede della Chiesa”. Il modo di accedere a Dio attraverso l’invocazione e la preghiera, la sua indeducibilità da premesse universali o da esperienze del mondo, l’impossibilità di pensarlo inesistente per il perfetto adeguarsi in Dio, e solo in Dio, di essere-pensato ed essere-reale, inducono in quello spazio speculativo dove in gioco è l’essere e non l’ente.

L’ente infatti può essere dimostrato per deduzione o induzione; la concettualità che lo riguarda non implica la sua esistenza; per accedervi non si richiede l’invocazione o la preghiera, ma l’operatività dell’intelletto, che invece è del tutto inadeguato per lo svelamento dell’essere, la cui manifestazione trascende ogni aspettativa anticipata dagli schemi logici e intellettuali.

Lo stesso Parmenide accede all’essere guidato dalla dea, non lo deduce da premesse universali, né lo induce dai dati offerti dalla dóxa; in sua presenza afferma categoricamente l’impossibilità del suo nonessere. L’argomento anselmiano vive di queste tonalità parmenidee, ma conclude onticamente secondo “la fede della Chiesa”, per la quale non c’è l’essere, ma l’Ente supremo.

Accostando l’argomento nella sua conclusione, la confutazione tomista ha buon gioco: nessun ente, anche “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (id quo maius cogitari nequit)”,5 è per questo assolutamente garantito nel suo essere. Certo! Nessun ente, neanche l’Ente supremo a cui giunge a posteriori Tommaso, ma solo l’essere, perché pensare che l’essere non sia è precludere ogni possibilità al pensiero.

La filosofia è nata con la scoperta parmenidea dell’assoluta positività dell’essere, ed è proseguita nella consapevolezza dell’impossibilità della sua nullificazione.6 La metafisica, sviluppatasi in Occidente, s’è posta a custodia di questa verità, ma nel tempo della custodia, s’è inserito, nelle modalità che abbiamo visto, il momento dell’alienazione, la positività dell’essere è stata riferita ad aliud, all’Ente supremo, determinando così il progressivo smarrimento del senso dell’essere.

Anselmo ne ricorda i tratti della sua originaria rivelazione, li ripropone in attribuzione teologica; il suo sentiero, dopo un tratto percorso in compagnia dell’essere, conclude nell’oblio, e dall’oblio sorge la confutazione, la cui perfetta logicità è a un tempo misura della distanza dalla comprensione dell’essere e della coerenza in una totalità onticamente concepita. L’errore di Anselmo non è, come vuole Tommaso, nelle premesse aprioristiche con cui si apre il suo argomento, ma nella conclusione ontica in cui decade con l’abbandono di quelle premesse.

Alle sue premesse l’argomento anselmiano non è ricondotto dai correttivi di Cartesio, Leibniz e Kant,7 al contrario il loro argomentare riduce la prova anselmiana al livello della logica oggettivante, con in più una carica soggettiva e antropocentrica. Scrive per esempio Cartesio:

Dio esiste perché, se è vero che l’idea di sostanza è in me per il fatto che io sono una sostanza, non avrei in ogni caso l’idea di una sostanza infinita, io che sono un essere finito, se essa non fosse stata messa in me da qualche sostanza veramente infinita. [...] Bisogna pertanto necessariamente concludere che, per il solo fatto che io esisto, e che l’idea di un essere sovranamente perfetto (cioè di Dio) è in me, l’esistenza di Dio è evidentissimamente dimostrata.8

E così Dio diventa l’oggetto di un procedimento induttivo: il Summum esse pensato a fondamento del proprium esse. Anselmo s’era ben guardato dal giungere a simili conclusioni. Infatti non aveva pensato Dio come Summum esse, ma come “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (id quo maius cogitari nequit)”, non un oggetto quindi, ma un’idea ancora inscritta nell’ordine della possibilità.

Il processo di oggettivazione prosegue con il correttivo leibniziano del sine contradictione, che Leibniz ritiene di dover introdurre perché, a suo parere:

La dimostrazione di Descartes, che riabilita l’argomento del dottor Angelico che gli scolastici hanno considerato un paralogismo, è ancora una dimostrazione imperfetta che suppone qualcosa che bisogna ancora provare per renderla di un’evidenza matematica. Si suppone infatti tacitamente che l’idea dell’Essere perfettissimo sia possibile e non implichi contraddizione.9

Ricorrendo al principio di non contraddizione Leibniz assicura ancora di più la prova alle esigenze della ratio, e con questo nuovo assestamento l’argomento è reciso da quel pensare originario che, nel suo attuarsi, ha esperienza della vera realtà e non solo di una costruzione logica.

Cartesio e Leibniz, nel tentativo di correggere la prova, onde garantirne la sua piena validità, la immiseriscono in quei procedimenti di pensiero che trovano la loro applicazione nella realtà empirica e nella sua utilizzazione. Intervenendo sulla precisazione leibniziana, Kant osserva opportunamente che:

Il concetto di un essere assolutamente necessario è un concetto puro della ragione, cioè una semplice idea, la cui realtà oggettiva è ben lungi dall’essere provata dal fatto che la ragione ne ha bisogno. [...] Non c’è dubbio, infatti, che cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili. [...]. Ma per la mia situazione finanziaria vi è più in cento talleri reali che nel loro semplice concetto, cioè nella loro possibilità.10

La critica di Kant si mantiene entro la categoria dell’essere inteso come realtà oggettiva. Ed è proprio in questo trattenersi che nasce la denuncia della tradizione dell’Occidente, che al pensiero non ha saputo offrire altro che un essere ridotto a ente, e una phýsis ridotta a natura oggettivata dalle categorie dell’intelletto. Il motivo filosofico sotteso a questo rilievo è un richiamo che proviene dalla trascendenza dell’essere rispetto alla totalità ontica, per cui non si può avere dell’essere una scienza pari a quella delle cose del mondo, né si può ridurre l’essere a proprio possesso conoscitivo, simile a quello che si ottiene per qualsiasi altra cosa.

In ordine al divino, è un errore cogliere Dio oggettivandolo secondo il modo in cui si coglie la realtà sensibile, così come è erroneo dimostrarlo nel modo di un pensiero matematicamente e logicamente necessitante. Questa è la differenza ontologica che Anselmo coglie e custodisce nella sua preghiera quando, rivolgendosi a Dio, dice:

Di tutto ciò che è, eccetto te solo, si può pensare che esso non sia. Tu solo dunque hai l’essere nel senso più vero e perciò massimo rispetto a tutte le cose. Perché qualsiasi altra cosa non è in modo così vero e, quindi, ha un essere minore. Perché dunque “l’insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste”, quando è così evidente a una mente razionale che tu sei più di tutte le cose? Per quale motivo, se non perché è stolto e insipiente?11

1 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, pp. 838-839.

2 Ivi, p. 828.

3 Parmenide, fr. B 6.

4 Anselmo d’Aosta, Proslogion (1077-1078); tr. it. Proslogio in Monologio e Proslogio, Bompiani, Milano 2002, § 1, pp. 308-309. Si veda anche il commento, a questo passo, di K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 823.

5 Anselmo d’Aosta, Proslogio, cit., § 3, pp. 318-319.

6 Si veda a questo proposito il saggio decisivo di E. Severino, Ritornare a Parmenide (1964), in Essenza del nichilismo (1972), Adelphi, Milano 1982.

7 Sull’argomento ontologico si veda l’ottimo saggio di I. Sciuto, La ragione e la fede. Il Monologion e il programma filosofico di Anselmo d’Aosta, Marietti, Genova 1991, mentre sulle diverse letture che l’argomento anselmiano subisce nel corso della filosofia moderna, soprattutto da Cartesio a Kant attraverso Leibniz, si veda E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Laterza, Bari 1994.

8 R. Descartes, Meditationes de prima philosophia (1647); tr. it. Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. II, pp. 43, 48.

9 G.W. Leibniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain (1705); tr. it. Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici, Utet, Torino 2000, vol. II, Libro IV, capitolo X: “Della conoscenza che abbiamo dell’esistenza di Dio”, pp. 423-424.

10 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781,1787); tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1959, vol. II, pp. 481, 486. Per un commento alla critica kantiana all’argomento ontologico di Anselmo si veda K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., pp. 833-837.

11 Anselmo d’Aosta, Proslogio, cit., § 3, pp. 318-319. Questo passo è commentato da K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 821.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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