90.

Il linguaggio parla

In che modo è e opera il linguaggio? Rispondiamo: il linguaggio parla. Ma è questa sul serio una risposta? Probabilmente sì: nel caso cioè che si faccia chiaro che cosa significa parlare.

M. HEIDEGGER, Il linguaggio (1950), p. 28.

Percorrendo i sentieri dell’arte e della poesia ci si è accostati al linguaggio come a qualcosa di originario che non rimanda ad altro fuori di sé, perché, come fenomeno fondante e aprente, contiene ogni possibile riferimento e rimando. Del linguaggio si può dire solo che è linguaggio, che parla. Questa tautologia, che sarebbe immediatamente rifiutata dalla logica metafisica abituata a definire le cose mediante il rinvio alle loro cause, vuole significare che non ci si può rifare ad altro per definire il linguaggio, perché ogni catena causale, ogni rinvio alle origini è possibile solo entro un ambito linguistico, usando un linguaggio piuttosto che un altro, per cui il linguaggio è il luogo (Ort) che ospita ogni possibile discorso, ogni indagine causale o no.

Se anche l’indagine causale è possibile solo in quanto concessa dal linguaggio, non può essere applicata al linguaggio. Il problema del linguaggio o dell’origine del linguaggio ha senso allora solo se si assume il linguaggio come soggetto e non come oggetto, come ciò che parla e che non si dà altrove che nel parlare, come ciò che sta alle origini e da cui tutto si origina.

Il linguaggio come strumento di comunicazione, che è poi il linguaggio nel senso corrente del termine, il linguaggio come segno, come regola sintattica, come discorso articolato, come struttura simbolica, come parola udibile, noi lo incontriamo solo nel linguaggio che parla e, parlando, rende possibile segni, regole, discorsi, strutture, parole. Queste figure altro non sono che le modalità del suo dischiudersi, che nulla dicono di quel fenomeno originario che è il dischiudersi come tale, l’aprire un mondo.

L’originarietà del linguaggio si rivela anche nel fatto che non si conclude in ciò che è detto. Ciò che è detto si risolve sempre nel passato del linguaggio, superato dall’inesauribilità del dire. Dicendo, il linguaggio nomina la cosa, nomina “la sera d’inverno”, “la neve che cade”, “la campana che suona”.1 Ma che significa nominare, si domanda Heidegger: “Nominare non distribuisce nomi, non applica parole, ma chiama entro la parola. Il nominare chiama”.2

Avvicina ciò che dimora nella lontananza, senza tuttavia sottrarlo alla lontananza e senza annullare l’assenza. Nella parola, la neve che cade e la campana che suona lontano si rendono presenti a quanti si trattengono nella parola che evoca ed, e-vocando, scrive Heidegger: “chiama presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all’assenza”.3

Nominando, chiamando, la parola riduce distanze, crea intimità, tiene presso di sé le cose, e tutte, vicine e lontane, le trattiene nella presenza che serba intatta l’assenza. In questo senso, fa notare Heidegger:

Il chiamare è un invitare. È l’invito alle cose a essere veramente tali per gli uomini. La caduta della neve porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte. Il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al divino. Casa e tavola vincolano i mortali alla terra. Le cose che la poesia nomina, in tal modo chiamate, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini. I quattro costituiscono nel loro relazionarsi un’unità originaria. Le cose trattengono presso di sé la quaternità (das Geviert) dei quattro. In questo adunare e trattenere consiste l’esser cosa delle cose.4

Questo dire originario (Sagen) che dice evocando, chiamando presso di sé, da cui ogni esplicito dire prende le mosse, e a cui ritorna come alla propria possibilità, Heidegger lo chiama Sage. “Saga” è quel canto, quella leggenda in cui si ritrovano tutti i caratteri tipici di un popolo, e a cui ogni popolo ritorna perché vi riconosce la propria identità, la propria origine.

Dalla Sage come linguaggio originario nasce ogni discorso esplicito, ogni Aus-sage che enuncia, dichiara in linea con il discorso originario, ma senza risolverlo in sé, per cui ogni discorso (Aussage) sul linguaggio (Sage) è sempre un discorso dal linguaggio (Aus-sage) nel linguaggio; mai il linguaggio nel discorso. Per questo Heidegger può dire: “Il linguaggio è il linguaggio”, e ancora: “Il linguaggio parla”.5 Quale parola infatti, nata dal linguaggio, potrebbe presumere di parlare del linguaggio?

In quanto dire originario, entro cui ogni discorso, ogni parola, ogni enunciazione esplicita diventa possibile, la saga, come ogni leggenda che parla delle origini e, più precisamente delle origini teogoniche, cosmogoniche o, più semplicemente, etniche o popolari, dischiude un mondo e le cose che, solo in quanto incluse in quel mondo, sono significanti.

La saga per sé non è significante; il suo modo di dire non è il significare (bedeuten), ma l’indicare (zeigen), il mostrare, il far apparire. Significanti sono le parole in quanto riconducono a ciò che è indicato dalla saga. Questo ricondurre è innanzitutto un ricondursi (bewegen) delle parole sulle vie dischiuse dal linguaggio originario.

Bewegen per sé vuol dire “muovere”, ma conserva, nel weg che compare nella parola, il senso di “tracciare vie”, “aprire strade”, in quel gioco di rimandi in cui è raccolto un mondo di sensi, da cui “vengono” i significati delle parole. Rispetto all’esplicitazione dei significati, la saga è silenzio; rispetto all’intrecciarsi dinamico delle parole, il linguaggio originario è quiete. Per questo, scrive Heidegger:

Noi chiamiamo quell’adunare con appello silenzioso, con cui la saga muove e traccia le vie (be-wegt) al gioco di rapporti del mondo, il suono della quiete (das Geläut der Stille). Esso è il linguaggio dell’essenza.6

Tra essere ed ente, tra mondo e cosa, tra linguaggio (Sage) e discorso (Aussage) ritorna sempre lo stesso rapporto che è di identità e differenza. Il rapporto è nel frammezzo (zwischen) che unisce e a un tempo divide i due che si richiamano nel rapporto, secondo quella modalità che Heidegger così descrive:

Compenetrandosi, i due passano attraverso una linea mediana. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il “fra”, il “frammezzo”). La lingua latina dice inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei due, nel frammezzo di mondo e cosa, nel loro inter, in questo unter, domina lo stacco. L’intimità di mondo e cosa è nello stacco (Schied) del frammezzo, è nella dif-ferenza (Unter-schied).7

La differenza non separa, non allontana, ma nel differenziare richiama, e richiamando compone. Compone le cose nel mondo e, distinguendo, chiama il mondo a esser mondo e la cosa a esser cosa. Non dissimile è il chiamare del linguaggio che dice alle cose e al mondo di venire nel frammezzo della differenza, come sulla soglia di casa, dove l’interno e l’esterno, che non sono lo stesso, trapassano l’uno nell’altro.

Chiamata nel frammezzo, ogni cosa è come es-propriata della sua proprietà, e ap-propriata al mondo di cui è cosa. Allo stesso modo ogni discorso è appropriato solo se non si risolve in ciò che dice, ma lascia che il detto consenta di risalire al non-detto, di cui ogni detto è semplice storica e puntuale esplicitazione. Solo se il detto lascia risuonare il non-detto, nel dire è possibile udire il suono del silenzio. Allora il linguaggio parla non perché dice, ma perché, nel “dis-corso” che dice, “corre” il suo suono, il suo appello evocante, che nel dire del discorso si fa parola udibile.

Se è vero che il linguaggio delle parole è tale solo in quanto risponde a un linguaggio più originario che parola non è, ma piuttosto silenzio che risuona nella parola, si comprende come Heidegger possa dire che “Il linguaggio parla come suono della quiete”.8 La quiete è così il luogo (Ort) di ogni movimento, di ogni dis-corso, inteso come articolarsi di parole e come relativo muoversi delle cose evocate dalle parole in cui risuona la quiete. Pertanto, scrive Heidegger:

Solo in quanto gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete, i mortali sono a loro modo capaci di un parlare che si attua in suoni.9

La quiete del linguaggio, che nel discorso non si annuncia direttamente, ma semplicemente risuona, è il luogo (Ort) dell’essere, che, nell’ente, si annuncia sottraendosi. Ogni discussione (Er-örterung) intorno all’ente conduce in quel luogo (Ort) da cui è ogni ente e ogni parola che lo nomina. Per questo, scrive Heidegger:

La Erörterung considera l’Ort, il luogo. Il termine Ort significa originariamente punta della lancia. Tutte le parti della lancia convergono nella punta. L’Ort riunisce attirando verso di sé in quanto punto più alto ed estremo. Ciò che riunisce trapassa e permea di sé tutto. L’Ort, riunendo, trae a sé e custodisce ciò che a sé ha tratto, non però al modo di uno scrigno, bensì in maniera da penetrarlo nella sua propria luce, dandogli così la possibilità di dispiegarsi nel suo vero essere.10

Il non-detto, che in sé raccoglie ogni detto e lo fa venire alla luce, è il luogo verso cui occorre avviarsi per comprendere ciò che il detto veramente dice. L’incamminarsi verso questo luogo è un tenersi in cammino (unterwegs), perché il luogo è il nascosto, che nascosto deve rimanere perché si dia la verità come non-nascondimento (alétheia), è la quiete che non distrugge se stessa nel clamore delle parole, è il silenzio che non si concede all’esplicitazione totale.

Proprio per questo suo concedersi sottraendosi nel frammezzo dell’identità-differenza, il luogo in cui riposa l’essenza del linguaggio corre il rischio di essere dimenticato: o perché si ritiene di averlo trovato nell’assolutizzazione di qualche senso esplicito, di qualche parola detta una volta per tutte; o perché si ritiene che non esista altro luogo, in grado di fornire sensi e significati, diverso dal luogo storico, sociologico o psicologico.

In entrambi i casi l’uomo smarrisce il luogo della sua appartenenza. Non è più in grado di udire la voce dell’essere, perché è assordato dal clamore delle parole che nominano gli enti, e invece di disporsi nel suo luogo, che è quello in cui si dischiudono le aperture, si colloca in una apertura, la assolutizza e da lì giudica il mondo, dimentico della terra in cui è custodito il senso di ogni mondo.

Questa dimenticanza è per l’uomo il pericolo estremo, ciò che lo distoglie dal frammezzo che dischiude tutte le vie (unter-wegs) dei sensi e dei significati possibili, per dis-locarlo tra gli enti, dove il cammino si interrompe e dove si incontra l’errore che nasce da quell’errare tra sensi e significati ormai assodati o che più non rinviano.

Alla spiegazione, che tutto porta all’esplicitazione e che è incapace di far incontrare qualcosa di “nuovo” nel senso di autentico, perché si limita a sistemare i vari “luoghi” secondo i criteri scientifici della ragione fondante, Heidegger propone l’esercizio ermeneutico che si trattiene presso la parola, non per esplicitarla nei sensi e nei significati richiesti dall’epoca, ma per far venire in luce il nondetto che nella parola risuona e che ne costituisce la forza. Questa ermeneutica non spiega la parola, l’ascolta. Infatti, scrive Heidegger:

L’espressione “ermeneutico” deriva dal verbo greco hermeneúein. Questo si collega col sostantivo hermeneús, sostantivo che si può connettere col nome del dio Ermês in un gioco del pensiero che è più vincolante del rigore della scienza. Ermes è il messaggero degli dèi. Egli reca il messaggio del destino: hermeneúein è quell’esporre che reca un annuncio in quanto è in grado di ascoltare un messaggio.11

Sui sentieri che si dispongono all’ascolto del messaggio (Unterwegs zur Sprache) si trova il luogo in cui l’uomo deve trattenersi e trattenere la sua discussione (Erörterung), che può essere sul linguaggio solo finché è dal linguaggio.

1 Queste espressioni compaiono nella poesia di G. Trakl, Ein Winterabend (1912-1914); tr. it. Una sera d’inverno, in Opere poetiche, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1969, pp. 200-201, che M. Heidegger commenta nel saggio Die Sprache (1950); tr. it. Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 31 sgg.

2 M. Heidegger, Il linguaggio, cit., p. 34.

3 Ibidem.

4 Ivi, p. 35.

5 Ivi, p. 28.

6 M. Heidegger, Das Wesen der Sprache (1957-1958); tr. it. L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 170.

7 Id., Il linguaggio, cit., p. 37.

8 Ivi, p. 41.

9 Ivi, pp. 41-42.

10 M. Heidegger, Die Sprache im Gedicht. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht (1952); tr. it. Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 45.

11 Id., Aus einem Gespräch von der Sprache zwischen einem Japaner und einem Fragenden (1953-1954); tr. it. Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 104-105.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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