102.
L’antica metafora
Sono la chiamata del risveglio dal sonno della notte.
IPPOLITO ROMANO, Refutatio contra omnes hæresos, V, 14, 1.
La chiamata non racconta storie e chiama tacitamente. Essa chiama nel modo spaesato del tacere.
M. HEIDEGGER, Essere e tempo (1927), § 57, p. 412.
All’inizio degli anni trenta, un allievo di Heidegger e di Bultmann, Hans Jonas, che poi divenne uno dei maggiori studiosi dello gnosticismo,1 partendo dal presupposto che Heidegger avesse colto le metafore di base dell’umano, suggerì una lettura in trasparenza dell’opera heideggeriana, per poter cogliere le profonde assonanze e le segrete parentele che tradiscono forme di sensibilità, se non identiche posizioni critiche, già espresse da quella forma di religione universale che fu, per l’Oriente e l’Occidente, la gnosi.
Nel 1954 su questo rapporto tornò S.A. Taubes,2 che confermò, per le opere heideggeriane successive, l’intuizione che H. Jonas aveva limitato a Sein und Zeit. Con questo accostamento non si vuol ridurre Heidegger a un semplice commentatore gnostico, ma, grazie a significative analogie, ci si vuol far aiutare da un’antica metafora a scendere nell’abisso, in quella “regione totalmente diversa” a cui il nostro linguaggio “abituale” non è in grado di accedere.
In questo raffronto ci sarà d’aiuto Platone, non per ciò che è noto alla storia della filosofia, ma per certe tracce, disperse nei suoi dialoghi, che rimandano alla sua iniziazione ai misteri che si presume sia avvenuta in Egitto a opera di Sechnuf. Una di queste tracce è l’etimologia della parola alétheia, che Heidegger spezza dopo l’a privativa, ottenendo quella non-ascosità (a-létheia) dell’essere che tanta parte ha nella sua filosofia, mentre Platone la spezza in alé-theía, dove c’è un richiamo al vagabondare (aleteúo) divino (theía). Scrive infatti Platone:
Pare verosimile che con la locuzione alétheia sia stato chiamato il divino movimento (theía phorá) dell’essere, come se fosse un errante vagabondare divino (theía ále).3
La memoria non sopita di questa alé-theía inaugura quell’immaginazione gnostica che fa da sfondo all’“esegesi” heideggeriana.
1. Il simbolo cosmo-logico. Prima della loro confluenza sembra che Oriente e Occidente avessero in comune un simbolo che per comodità chiameremo cosmo-logico, dove l’uomo, tra il cielo e la terra, si pensa come uno dei tre. Gli altri due sono Urano e Gea nella tradizione greca, Purusha e Prakriti nella tradizione indiana, Tien e Ti nella tradizione dell’Estremo Oriente. Il carattere fondamentale di questo simbolo è la sua staticità, nel senso che il cosmo era considerato il più perfetto esemplare d’ordine, e all’uomo, come parte del cosmo, non restava che adeguarsi a quest’ordine. La sua ragione era tanto più ragionevole quanto più era conforme alla ragione del cosmo. In un’accezione moderna, soggetto non era l’uomo, ma il cosmo, che Eraclito così descrive:
Questo cosmo che, di fronte a noi, è il medesimo per tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure.4
Da questa visione cosmica non poteva nascere alcun progetto in ordine alla dominazione del mondo, perché, come cosmo, il mondo non era creazione di un Dio, né opera dell’uomo, ma in sé perenne, custodito dalle sue misure, era per sé.
Considerato il più perfetto esemplare d’ordine (kosmióteta) e nello stesso tempo la causa di ogni ordine riscontrato nelle realtà particolari, che soltanto in gradi diversi si avvicinano a quello del Tutto, il cosmo non è tanto un sistema fisico, quanto quella totalità divina (theîon kaì hólon) a cui l’uomo, come parte, deve assimilarsi. Nel riconoscimento e nell’accettazione del proprio esser-parte, l’uomo trova la sua collocazione e il senso della sua esistenza, che è nell’adeguarsi, in quanto parte, all’ordine (kósmos) del Tutto.
Si tratta di una totalità che non nasce dalla somma quantitativa delle parti, ma da quella nota qualitativa che fa di quelle parti composte un ordine, un cosmo. Di quest’ordine, che è poi la ragione dell’universo, il suo lógos, nasce quella pietà cosmica che non è tanto un sentimento religioso, quanto l’espressione antropologica di quella relazione universale che è la composizione delle parti con il Tutto.
Da questa pietà cosmica trarrà spunto la prima riflessione ontologica della filosofia occidentale là dove Platone, nel Parmenide, pensa la relazione tra i molti e l’Uno. L’esito di questa riflessione è che il Tutto ha la precedenza sulle parti ed è migliore delle parti. È ciò per cui le parti sono, e in cui hanno non solo la causa del loro essere, ma anche il significato della loro esistenza.
Esempio vivente di questa relazione è la pólis descritta nella Repubblica (Politeía) di Platone, dove la relazione ontologica tra i molti e l’Uno, preparata dalla pietà cosmica, trova la sua espressione politica. Come nel cosmo, infatti, così nella città, le parti non solo sono dipendenti dal Tutto per il loro essere, ma anche mantengono il Tutto con il loro essere. Come l’ordine del Tutto condiziona l’essere e la possibile perfezione delle parti, così la condotta delle parti condiziona l’essere e la perfezione del Tutto.
Qui la nascente filosofia greca presenta profonde analogie con la sapienza orientale, dove l’ordine storico-politico è pensato in funzione dell’ordine cosmico universale. In questo senso filosofi greci e sapienti orientali sono veramente cosmo-politici perché pensano l’ordine del cosmo come vero modello per l’ordine della pólis.
Platone, per edificare la politeía guarda il cosmo, Lao-Tzu per dare ordinamenti agli uomini, guarda il Tao. Cosmo e Tao sono l’espressione di quella “misura” eraclitea che non era scandita dal progetto umano, ma dal ciclo cosmico. Scrive infatti Platone:
Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell’universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma piuttosto vieni generato per la vita cosmica.5
Dal canto suo Lao-tzu, come riferisce la tradizione orientale, diceva che:
Se principi e re fossero davvero guardiani del Tao, allora tutti gli esseri si sottometterebbero a essi. Cielo e terra si unirebbero per lasciar cadere una benefica rugiada che il popolo riceverebbe spontaneamente in parti uguali senza che nessuno debba prendersene cura [...]. L’ordine della città, infatti, seguirebbe l’ordine del Tao, la cui rete si getta su vaste estensioni, si apre su di esse e, per quanto allentate siano le sue maglie, nulla sfugge a esse.6
La distruzione di questo simbolo segna la nascita dell’Occidente, dove non è più l’ordine del cosmo a dettare legge alla città (pólis), ma è la città, come comunità dell’umano, a definire di volta in volta il cosmo. All’orizzonte cosmo-politico si sostituisce il disegno di una politica cosmica, dove il progetto dell’uomo cancella ogni simbolo, e i ritmi della sua storia quelle “misure” che, al dire di Eraclito, segnavano il “divampare e lo spegnersi” dei cicli cosmici.
Qui possiamo rintracciare una prima metafora che è alla base della nozione heideggeriana di Ge-stell che Vattimo traduce felicemente con im-posizione7 scritto con un trattino per far sentire: a) il senso dell’originario stellen che significa “porre” con tutti i suoi derivati: vor-stellen (rappresentare), her-stellen (produrre), be-stellen (ordinare), nach-stellen (dar la caccia, tendere insidie); b) il senso della cogenza e della costrizione, ossia dell’“imposizione” che Heidegger attribuisce al Ge-stell, ossia al mondo tecnico in cui l’uomo è provocato a provocare l’ente a sempre nuovi impieghi; c) a questa “imposizione” va aggiunto il significato contenuto nel prefisso collettivo ge-che indica l’insieme di tutto il modo di essere dell’uomo che si incentra nello stellen, cioè nel porre la natura come oggetto a cui si chiede ragione, nel senso del principium reddendæ rationis di cui Heidegger parla ne Il principio di ragione.8
2. Il simbolo antropo-teologico. Se per il momento custodiamo questi tre significati sapientemente riuniti nel Ge-stell heideggeriano, possiamo ritornare alla confluenza tra Oriente e Occidente e meglio comprendere perché, invece di solidificarsi, il simbolo cosmologico in Occidente si dissolve, per cedere il posto a un altro simbolo che per comodità chiameremo antropo-teologico, perché a comporlo sono ancora i tre elementi del simbolo cosmico, ma con una diversa relazione: la terra è vissuta come il male, tanto per l’uomo che vi si trova gettato, quanto per Dio che neppure l’ha creata, per cui tra l’uomo e Dio si scorge un’affinità che esclude la terra che li separa. Questo nuovo simbolo, a differenza di quello cosmo-logico, non è statico ma dinamico, perché l’uomo progetta (pro-bállein) di congiungersi (sym-bállein) alla sua controparte celeste da cui è diviso (dia-bállein) a causa della terra.
Questo progetto è ancora un simbolo perché tende a una composizione, ma il referente simbolico non è più nella ragione cosmica, ma nell’intenzione umana. L’uomo non è più uno dei tre che si compone con gli altri due, ma colui rispetto a cui gli altri due si dispongono come il bene e come il male. Questa è la configurazione che, nel nuovo simbolo, vengono ad assumere il cielo e la terra: l’uno è la patria da raggiungere, l’altra è l’esilio da lasciare. Così insegnano gli gnostici, a proposito dei quali Plotino riferisce che:
Rifiutando onore a questa creazione e a questa terra, essi ritengono che una nuova terra è stata fatta per loro, verso la quale intendono dirigersi partendo da qui.9
L’Occidente si difende da questo simbolo che, dalla conquista di Alessandro Magno fino alla fine dell’Impero romano e oltre, come dottrina gnostica, permea la cultura della nascente civiltà. Ma la difesa riguarda le conseguenze, non le premesse. Ci si difende dall’esito celeste del progetto umano, ma non dal carattere progettuale del nuovo simbolo. Non si ritorna all’ordine cosmologico, ma si dispiega l’ordine umano su tutta la terra.
In questo senso l’Occidente non è che la versione atea del simbolo gnostico. La sua ragione, che la gnosi aveva promosso al di là della ragione del cosmo, rimossa la via del cielo, si dispiega come segno della terra. Ridotta a Ge-stell o, come vuole l’immagine di Weber, a una “gabbia d’acciaio dove anche chi non lavora per essa viene determinato con una necessità ineluttabile finché non verrà consumato l’ultimo quintale di carbon fossile”,10 la terra appare in quell’“im-posizione (Ge-stell)”impostale dal calcolo della ragione, che richiama da vicino la costrizione con cui, nell’immagine gnostica, i terribili arconti custodivano la prigione terrena.
È questa un’immaginazione che si rifà agli ultimi dialoghi di Platone, dove alla bellezza del cosmo, che percorreva i primi dialoghi, subentra l’imposizione alle leggi fatali con cui il Demiurgo vincola le anime. Per Platone, infatti, la bellezza (tò kállos) non era, come per noi, una categoria estetica, ma un’espressione geometrica. Essa risultava “dall’ordine (kosmióteta) che tiene insieme (sym-bállein) cielo e terra, uomini e dèi”11 (i quattro che ritroviamo nella composizione simbolica del Geviert heideggeriano),12 perciò il cosmo è bello, e bella è l’anima (psyché) che sa cogliere l’armonia (harmonía) del cosmo, o, come dice Platone: “la giusta proporzione in cui si mescolano il limite e l’illimitato”.13
Ma questa mescolanza (synekerásato) non è Dio, ma l’opera di un dio, anzi, dice Platone, di “un secondo dio (deúteros theós)”,14 che è il Demiurgo artefice del mondo. Per bello che sia il mondo la sua è dunque la bellezza di una copia, e perciò il sapere matematico che lo comprende non è il sapere più alto e quindi neppure il più bello.È infatti il sapere che le anime appresero quando il Demiurgo “le fece salire su una specie di cocchio, e l’universa natura del cosmo mostrò, e disse leggi fatali”.15
Qui già si possono scorgere le premesse gnostiche che, nella bellezza cosmica, intravedono la fatalità di un mondo, e nelle leggi che lo governano la volontà di un dio. Scrive infatti Platone:
Voi avete incontrato il voler mio, vincolo più grande e più possente di quegli altri vincoli con i quali, quando nasceste, foste generati.16
Tra i vincoli di un cosmo risolto in mondo, l’anima è già straniera, e il sapere che la vincola alle essenze ultime delle cose che appaiono nel mondo è già un sapere estraneo. Tò Agathón, infatti, il dio che non ha creato il mondo, scrive Platone: “è al di là di quelle ultime ragioni delle cose (mathémata holká) che si possono raggiungere per via di raziocinio”.17
Nella sua applicazione ai testi platonici l’immaginazione gnostica inaugura itinerari che non sono razionali, perché la ragione, ormai, è il governo del mondo, l’espressione della sua “armonia”. Si tratta di un’armonia che, rispetto a quella “cosmo-logica”, ha il sapore della “legge fatale”, del “vincolo demiurgico”, della sua volontà: la volontà dell’artefice che, per divina o umana che sia, non cessa di essere volontà, e quindi di portare con sé tutto quell’aspetto di costrizione che gli gnostici avvertivano nell’heimarméne, nella legge ordinata del mondo, dove nulla c’era da fare se non creare condizioni di silenzio che consentissero alla chiamata di giungere oltre “il rumore del mondo”. I demoni, infatti, che sotto il governo del Demiurgo, presiedono l’ordinato movimento dei cieli, congiurano all’insaputa dello straniero in esilio sulla terra, e dicono fra loro: “facciamo in modo che egli oda un gran frastuono, così che non gli possa giungere la voce celeste”.18
Questa immagine gnostica trova forse il suo commento nella contrapposizione heideggeriana tra vita inauteutica (ma qui sarebbe meglio dire “impropria (un-eigen-tlich)”) dell’esistenza deietta nell’impersonalità del Si (Man), e quella autentica o “propria (eigen-tlich)”, a cui l’esserci è chiamato da quella che Heidegger definisce:
La chiamata che non racconta storie e chiama tacitamente. Essa chiama nel modo spaesato del tacere. E ciò perché la voce della chiamata non giunge al richiamato assieme alle chiacchiere pubbliche del Si, ma lo trae fuori da esse richiamandolo al silenzio del poter-essere esistente.19
Questo motivo è ripreso nella contrapposizione Gestell-Ereignis. Nel Gestell, infatti, nell’ordine razionale imposto al mondo, così simile all’heimarméne gnostica, lampeggia l’Ereignis,quell’E-vento che, oltre a venire dal di fuori, porta con sé i tratti del richiamo a essere ciò che propriamente (eignen) si è, per cui, richiamato dall’Er-eignis, l’uomo diventa appropriato (ver-eignet) all’essere e l’essere consegnato (zuge-eignet) all’uomo.
Nella metafora gnostica, tutto ciò ha la sua anticipazione nella ricongiunzione dell’uomo con la sua controparte celeste, che lo raggiunge nell’heimarméne, nell’ordine razionale del mondo, richiamandolo alla sua vera natura. Ma prima di riprendere questi temi e le rispettive metafore, dobbiamo chiederci: quale sospetto ha condotto a una così radicale trasmutazione dei simboli? Che cosa ha fatto del cosmo un mondo, e della teoria una prassi per aver ragione del mondo?
3. L’indifferenza della terra. La risposta va cercata nel cuore stesso della theoría, in ciò che la contemplazione vede rendendo inquieto lo spettatore. Si tratta di quell’inquietudine che Pascal ha colto molto bene là dove, parlando della differenza dell’uomo da tutti gli esseri che popolano la terra, osserva che l’uomo pensa, ma ogni pensiero gli racconta la sua totale estraneità alla terra. “Gettato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che non mi conoscono, provo spavento”,20 dice Pascal, dove il riferimento non è tanto all’infinità degli spazi cosmici, ma alla loro ignoranza della vicenda umana: “Non mi conoscono”. L’indifferenza della terra, la sua estraneità all’evento umano che ospita a sua insaputa.
Il pensiero umano spezza la Grande Triade.21 Non più il simbolo Cielo-Terra-Uomo, ma il progetto dell’uomo che sfida l’ignoranza del cielo e della terra. Questo progetto inaugura una storia che non trova comprensione sulla terra, perché l’uomo pensa non in quanto parte della terra, ma in quanto emerge dalla sua ignoranza.
Questo e-mergere, questo e-sistere, è l’inizio di quello star-fuori dalla composizione simbolica, che più non sfocia nell’integrazione dell’essere umano nella totalità del cosmo, ma, al contrario, segna quell’abisso insormontabile che divarica l’uomo dal tutto. Il suo pensiero lo fa sentire straniero, e in ogni atto di riflessione parla la sua estraneità.
Siamo all’indifferenza cosmica e alla caduta di senso di ogni azione umana. L’uomo, come ogni altra cosa, partecipa al Tutto, ma il Tutto lo ignora. Da questa ignoranza cosmica prende avvio quell’inquietudine dell’uomo che non si rassegna a essere gettato nel mondo al solo scopo di prender parte a un Tutto che ignora la sua partecipazione.
Il domandare, l’interrogare, il chieder senso traducono la theoría, da contemplazione del cosmo come spettacolo (theórema), in progetto. La relazione che Heidegger stabilisce tra essere-gettato (Ge-worfenheit) e pro-gettare (Ent-wurf) è l’ultima ripresa di quest’antica inquietudine. Nell’indifferenza del cielo e della terra, l’uomo è differente, perché, rispetto al loro ordine, dispiega quel nuovo ordine che è l’apertura al senso. Infatti, scrive Heidegger:
Questo ente che noi stessi sempre siamo, e che, fra l’altro, ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine esserci (Da-sein). La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere (Sein) richiede l’adeguata esposizione preliminare di un ente (l’Esser-ci) nei riguardi del suo essere.22
L’avvio heideggeriano dell’analitica esistenziale e il suo esito non sono dissimili dalla meditazione gnostica per la quale, estraneo alle aspirazioni dell’uomo, l’ordine cosmico perde la sua antica venerabilità. La legge che lo governa non è più espressione di quell’harmonía con cui l’uomo deve armonizzare, ma assume l’aspetto terrificante dell’heimarméne, del fato cosmico ineluttabile che interdice ogni espressione di libertà.
Riconoscendosi nella parte assegnata (questa infatti è la traduzione letterale di heimarméne), l’individuo non avverte più un invito alla theoría, alla contemplazione e all’imitazione del Tutto, ma solo un sordo sentimento di avversione e rivolta. L’ordine dei concetti cede al disordine delle emozioni; e alle categorie intellettuali, che la theoría aveva delineato rispecchiandosi nell’armonia cosmica, succedono categorie emotive che delineano per immagini la terribile storia di un’anima (psyché) straniera in un cosmo che la impedisce.
Per effetto di questo capovolgimento simbolico, la gnosi non ha avuto bisogno di creare nuovi simboli, ma di leggere più attentamente gli antichi. L’ignoranza del cosmo non concedeva più l’equazione tra il tutto e il divino (tò theîon kaì hólon), perché non può esserci divinità in un Tutto che ignora le parti. Restò allora il Tutto nel rigore del suo ordine cosmico, ma opposto al divino.
Privo di senso e ignaro delle umane intenzioni, il termine “cosmo” conservò intatte le sue associazioni semantiche, continuò a essere ordine e legge, ma con un segno-valore rovesciato. Vuoto di divinità a causa della sua ignoranza, il cosmo divenne espressione di quell’ordine rigido ed estraneo che troviamo alla radice della nozione heideggeriana di Ge-stell, percorsa da un determinismo che ignora intenzioni e finalità.
A causa dell’ignoranza cosmica, l’unità greca del cosmo e del divino si spezza; i due vengono separati, e tra essi si apre un abisso che la conoscenza o “gnosi” cerca di colmare. Ma, conosciuta l’indifferenza del cielo e della terra, non è al cosmo che la gnosi rivolge la sua attenzione, ma alla solitudine cosmica dell’uomo. E questo in termini psicologici fu molto probabilmente il sentimento primario che spezzò la theoría greca, forse la più grande espressione dell’appartenenza dell’uomo al cosmo, sostenuta dalla convinzione dell’intimità dell’uomo con la sostanza affine di tutta la natura (phýsis).
Chiuso al senso, il cosmo, ridotto a mondo, è trasceso da tutto ciò che ha senso, e che perciò non è mondo. Così il dualismo uomomondo postula come suo corrispettivo metafisico quello tra mondoe Dio. È questa una dualità di termini non complementari ma contrari, una polarità di incompatibili, dislocati al di qua e al di là del mondo. L’uomo e Dio sono gli estremi dove corre il senso, i termini quindi del dis-corso; heideggerianamente: la parola (Wort) e la risposta (Ant-wort), o, come è detto altrove:
L’ambito in sé oscillante, attraverso il quale uomo ed essere s’incontrano l’un l’altro nella loro essenza, acquistano ciò che è loro essenziale, lasciando cadere le svianti determinazioni che la metafisica ha loro attribuito.23
È un discorso reso possibile dal fatto che il divino non ha parte in ciò che riguarda il mondo, perché è assolutamente trasmondano, nel senso che non è in alcun modo rivelato né indicato dal mondo, e perciò è lo Sconosciuto, il totalmente Altro, inconoscibile nei termini di qualsiasi analogia mondana. Dal canto suo il mondo non è creazione di Dio, ma di un principio inferiore, la cui inferiorità è perversione divina, suo tragico fallimento, i cui terribili effetti sono insensata dominazione e cieco potere.
A questo mondo appartiene l’uomo con la sua ragione (noûs) ordinata secondo l’ordine del mondo, ma non la sua anima (psyché) che, come una scintilla smarrita da Dio nel tragico giorno del suo fallimento, abita questo mondo disabitandolo, in attesa della chiamata divina che, come vuole l’espressione di Heidegger: “chiama nel modo spaesato del tacere”.
4. La vita straniera. Dell’anima parla la gnosi, ma non come astrazione e concetto, ma come frammento di vita divina, o demonica se si vuole, ma a condizione di dimenticare la mitologia, e caricare il demone, da Eraclito a Plutarco, della dialettica platonica dell’amore con il linguaggio di Diotima.
In Platone, infatti, si intrecciano due diverse tradizioni: quella filosofica dove l’anima è la capacità propriamente umana di astrarre dalle categorie del sensibile, e di esprimersi “in quanto amica delle idee”,24 attraverso numeri e anticipazioni matematiche, e quella orfica legata ai riti misterici. È questa l’anima che, nata pura, cadde dal suo splendore e, prevaricando, si mescolò con la materia e con il male, caricandosi di catene. Caduta nel cieco carcere del mondo, dopo che il male aveva gettato la sua ombra sugli dèi prima che sugli uomini, ella attende la fine dell’anno cosmico per risorgere. Nel frattempo, ce lo ricorda il frammento 113 di Pindaro serbatoci da Platone, Persefone riceve le singole anime espianti l’antica colpa (poinàn palaioû penthéos).25
Rifacendosi a questa seconda tradizione, la gnosi parla dell’anima come di un’energia psichica tra l’Uno sconosciuto e lo Zero metafisico della materia, una scintilla di luce tra l’immobile sorgente luminosa e la zona oscura delle tenebre. Non dobbiamo quindi pensare a una sostanza quieta, all’essere per esempio, o al pensiero ipostatico, o a Dio. Certo Dio ha dato all’anima l’esistere, perdendo la sua originaria unità, e l’anima, raccogliendosi dalla dispersione, si dispone al ristabilimento dell’unità primitiva, perché, recita un frammento gnostico:
Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e in tutte le cose sono disperso. E dovunque tu vuoi, tu mi raccogli, ma raccogliendomi, tu raccogli te stesso.26
Per questo, dice Platone:
Dell’anima, propriamente, può parlarne solo un dio. L’uomo può solo accennarne per simboli e immagini.27
La dispersione di Dio ha il suo corrispondente nella vita straniera che le sue scintille separate conducono nel mondo. “Vita straniera” è una delle parole simbolo più espressive che si incontrano nella letteratura gnostica per indicare chi proviene da altro luogo, e a quelli del luogo appare “strano”, non familiare, incomprensibile. Allo stesso modo il luogo che lo straniero si trova ad abitare è per lui “estraneo” e perciò carico di solitudine.
Angoscia e nostalgia della patria sono parte del destino dello straniero che, non conoscendo le strade del paese estraneo, girovaga sperduto. Se poi impara a conoscerle troppo bene, allora dimentica di essere straniero e si perde in un senso più radicale perché, soccombendo alla familiarità di quel mondo non suo, diventa estraneo alla propria origine. Nell’alienazione da sé l’angoscia sparisce, ma comincia la tragedia dello straniero che, dimenticando la sua estraneità, dimentica anche la sua identità.
Il risveglio si annuncia con il riconoscimento dell’estraneità della dimora che abita e con la ripresa della nostalgia dell’origine. Tutto ciò appartiene alla sofferenza dello straniero, ma anche alla sua eccellenza, perché la sua estraneità gli vieta di confondersi con gli altri e di disertare quella vita segreta, sconosciuta all’ambiente circostante e a esso impermeabile, perché incomprensibile. Entrambi gli aspetti dello straniero, l’estraneità e la superiorità, la sofferenza e la differenza, fanno di lui un essere che abita il mondo senza esserne coinvolto, richiamato da un al di là che disabita. Di qui la domanda di Heidegger:
E dove mai la spaesata, “disabituale” e fredda sicurezza con cui il chiamante chiama il chiamato potrebbe trovar fondamento, se non nel fatto che l’Esserci, isolato nel suo spaesamento, è assolutamente inconfondibile? Che cosa sottrae all’Esserci in modo tanto radicale la possibilità di rifugiarsi nell’equivoco, fraintendendosi e disconoscendosi, se non la solitudine dell’abbandono a se stesso? Lo spaesamento è un modo fondamentale dell’essere-nel-mondo, anche se è quotidianamente coperto. L’Esserci stesso, come coscienza, chiama dal profondo del suo essere. “Sono chiamato” è una tipica espressione dell’Esserci. La chiamata, emotivamente pervasa dall’angoscia, fa sì che l’Esserci possa progettarsi nel poteressere più proprio. La chiamata della coscienza, compresa esistenzialmente, dà ragione di ciò che sopra abbiamo semplicemente affermato: lo spaesamento incalza l’Esserci e minaccia il suo oblio nella perdizione.28
Allora l’anima si dimentica, dimentica sé nell’assorbimento opaco della terra, dove non c’è cosa che possa ricordarle la sua origine acosmica, se non un sentimento negativo di estraneità, di non compiuta appartenenza. Qui il disagio dell’anima può essere tanto il prezzo che l’uomo deve pagare per abitare la terra, quanto il simbolo di una differenza, di una irriducibilità dell’uomo alla dimora che lo ospita.
Con ciò non si vuol dire che altre dimore attendono l’uomo. Dopo la morte di Dio questa speranza non è più data, eppure la terra non ha dismesso il suo aspetto di prigionia e di esilio. Da che cosa ci esilia la terra? Come ci rende irriconoscibili? A noi stessi prima che agli altri? Immemori, ignari? Perché la morte di Dio, contrariamente alla promessa di Nietzsche, non ci ha riconciliato con la terra?29 Che cos’è propriamente la sua inospitalità che l’anima sente come male? Platone ci dà un’indicazione:
La verità da noi esposta si riferisce all’attuale situazione dell’anima afflitta da mali innumerevoli, come Glauco il dio del mare, la cui forma originaria può a malapena essere distinta, perché parti del suo corpo sono state spezzate o corrose o completamente sfigurate dalle onde; vi sono poi cresciute sopra erbe, rocce e conchiglie, per cui ora Glauco assomiglia a qualunque altro essere vivente e non più a se stesso.30
La terra, nostra dimora, ci trasfigura. Abbandonandosi completamente alla terra, perdendosi nella terra, come Glauco nell’acqua, l’uomo rischia la propria differenza, finisce con l’assomigliare a qualsiasi altro essere e non più a se stesso.
Perdita dell’Io per dimenticanza di Sé. Forse qui è il segreto di tante metafore teologiche, un segreto che viene allo scoperto con la morte di Dio, e subito ricoperto da altrettante metafore psicologiche meno potenti, perché meno simboliche. La religione le custodiva sontuosamente, la psicologia vi allude timidamente, immettendosi in quel sentiero di conoscenza che per Platone è “sete”, sete d’amore, “filo-sofia”:
Ah, quella sete di conoscenza! E ciò che per questa sete l’anima attinge, perché profonda è la sua affinità col divino, con l’immortale, con l’eterno. Se si potesse pensare ancora quale diverrebbe se le fosse concesso di seguire quell’impulso che la porta in alto; se, trasportata da questo impulso, potesse scuoter via pietre e conchiglie, e tutte queste cose terrene e petrigne, innumeri e selvagge che si sono aggiunte e concresciute in lei, nutrite di terra, in questi convivi che si sogliono chiamare convivi di felicità. Oh, allora se ne potrebbe vedere la vera natura.31
5. La chiamata. La letteratura gnostica offre descrizioni molto estese del banchetto orgiastico preparato dalla Terra per la seduzione dell’uomo:
La Terra e i Pianeti formularono piani tra loro e dissero: “Inganneremo Adamo, lo prenderemo e lo tratterremo con noi. Gli daremo da mangiare e da bere, mentre con corni e flauti faremo in modo che non possa allontanarsi da noi. Orsù prepariamo un banchetto in modo da sedurlo”.32
Al termine del convito, Torpore, Sonno, Ubriachezza e Oblio subentrano a far dimenticare all’anima la sua estraneità alla Terra, favorendo uno stato di incoscienza e di ignoranza di sé. Si tratta di un’ignoranza che non è semplice assenza di conoscenza, ma condizione contrastante, altrettanto provocata e mantenuta per impedire la memoria della propria identità e quindi della propria differenza. Perduta nel mondo, come Glauco tra le incrostazioni del fondo marino, l’anima diventa indifferenziata, e non c’è più chi la possa chiamare se non l’ha conosciuta prima del banchetto, del torpore, del sonno, dell’ubriachezza e dell’oblio. E questo perché:
Coloro i cui nomi erano noti in precedenza, alla fine furono chiamati, sicché colui che conosce è colui che è stato chiamato, mentre colui il cui nome non è stato chiamato, è ignorante. In verità come potrebbe una persona udire se il suo nome non è stato chiamato?33
Invitando a “prestare attenzione a ciò che apre la natura propria del nome”, Heidegger dice che:
Nominare una cosa è chiamarla per nome. Ancora più originariamente è chiamarla nella parola. Ciò che così viene chiamato sta allora alla chiamata della parola. Esso appare come ciò che è presente (das Anwesende), come ciò che nella parola che chiama è custodito, raccomandato, chiamato (geheissen). Ciò che così viene chiamato in una presenza significa esso stesso. Esso è nominato, ha un nome. Nel nominare chiediamo (heissen) a ciò che è presente di venire. Di venire dove? Questo resta da considerare. Comunque ogni nominare ed esser nominato è un chiamare nel senso corrente solo in quanto il nominare stesso nella sua essenza consiste nell’autentico chiamare (im eigentlichen Heissen), nell’invito a venire (im kommen-Heissen).34
Questo “invito a venire”, intimamente connesso all’“avere un nome”, è un invito a prodursi nella differenza che, nell’immaginazione gnostica, è un distinguersi dall’in-differenza della terra. Ma per avere un nome bisogna che qualcuno lo pronunci, qualcuno che non sia deietto nel mondo, qualcuno che e-sista.
Questo qualcuno è “l’Uomo Straniero che non è caduto, ma si è portato nel mondo”.35 “Adamo provò amore per l’Uomo Straniero, la cui parola è straniera, perché è estranea al mondo.”36 Chiamando, lo Straniero risveglia: “Sono la chiamata del risveglio dal sonno della notte”.37 Questo risveglio è la gnosi come pura memoria della propria estraneità alla terra, dell’irriducibilità della natura umana alla natura delle cose ospitate dalla terra.
Abbiamo qui anticipato in immagini e mitologemi l’intuizione heideggeriana: “l’essenza dell’uomo è l’esistenza”,38 è quel suo essere nel mondo standosene al di fuori. C’è infatti nella parola e-sistenza qualcosa che allude a un exodus, a un exitus. Il problema è di comprendere da che cosa si deve uscire. Finché ci sono mondi ed eoni, messaggeri che chiamano e anime da risvegliare, l’immaginazione corre libera e chiude il cerchio nella ricostruzione del pléroma, nella ricomposizione del dramma divino; ma noi, che dopo la morte di Dio non abbiamo più mondi ma solo visioni del mondo, dobbiamo uscire sia da quella visione oggettivistica che pensa l’uomo cosa tra le cose, sia da quella soggettivistica che risolve l’uomo nella sua egoicità, lo instaura come soggetto di fronte alle cose del mondo per la loro manipolazione.
Ma per uscire dal soggetto e dall’oggetto non serve il pensiero che è nato da questa contrapposizione, ma una dimensione che questa contrapposizione ha sempre disabitato. Non è infatti proprio Heidegger a ricordarci che “la chiamata chiama nel modo spaesato del tacere”? A chiamare non è più il dio gnostico, lo Sconosciuto al di là del mondo, ma l’essere nella sua differenza dall’ente intramondano.
In questo rapporto (Bezug) è l’essenza dell’uomo che custodisce l’in-vio (An-wesen) che l’essere fa di sé. L’uomo è il volgersi (Zu-wendung) a questo in-vio (An-wesen), nell’invio si risolve l’essere, e nel volgersi a questo invio si risolve l’uomo. In questo gioco (Spiel) di richiamo e ascolto è custodita la coappartenenza (Ereignis) di uomo ed essere, a proposito della quale Heidegger scrive:
La coappartenenza di uomo ed essere, nel modo con cui si chiamano reciprocamente in causa, ci avvicina in maniera sorprendente al fatto e al come l’uomo è appropriato (ver-eignet) all’essere, e l’essere è ad-propriato (zuge-eignet) all’essenza dell’uomo.39
Ciò consente ad Heidegger di tradurre il frammento di Eraclito: “Êthos anthrópoi daímon”40 con “L’uomo abita nelle vicinanze di Dio”.41 L’oblio di questa vicinanza determina quell’“accadere senza patria”42 intorno a cui si articola il dramma gnostico dell’anima straniera, che solo l’inviato dalla Luce può ridestare. È lo stesso Heidegger a dire:
Solo finché accade la luce dell’essere l’essere sopraggiunge all’uomo, ma che accada l’illuminazione è deciso dalla ventura dell’essere.43
Ventura traduce il tedesco Geschick (da schicken, inviare) abitualmente tradotto con sorte, destino. Destino dell’uomo è essere sorte di Dio. Custodendo questa sorte extramondana, l’uomo si custodisce. La gnosi non poteva trovare in Heidegger miglior esegeta. Ma, come ci ha già segnalato Corbin:
Sotto l’idea di esegesi si annuncia quella di una Guida (l’esegeta), e sotto l’idea di exegesis traspare quella di un esodo, di una “uscita dall’Egitto” che è un esodo fuori dalla metafora e dalla schiavitù della lettera, fuori dall’esilio e dall’Occidente dell’apparenza essoterica, verso l’Oriente dell’idea originaria e nascosta.44
Qui, avverte Heidegger:
L’Occidente non è da pensare regionalmente in contrapposizione all’Oriente, né semplicemente come Europa, ma, nella prospettiva della storia del mondo a partire dalla vicinanza all’origine prima. [...] La patria di questo abitare storico è la vicinanza dell’essere. In questa vicinanza si compie, se mai si compie, la decisione se e come Dio e gli dèi si neghino e resta la notte, se e come nell’albeggiare del sacro possano cominciare di nuovo ad apparire Dio e gli dèi. Ma il sacro, che è soltanto l’originario spazio essenziale della divinità, che sola a sua volta concede la dimensione per gli dèi e per Dio, giunge ad apparire solo se prima, dopo lunga preparazione, l’essere stesso viene a tralucere e si lascia sperimentare nella sua verità. Solo così può cominciare, a partire dall’essere, il superamento di quello spaesamento, in cui non soltanto gli uomini, ma l’essenza dell’uomo sta vagando.45
Se l’Occidente non è un’espressione geografica, allora, scrive Corbin:
Anche l’Oriente non è una regione che si può trovare sui nostri atlanti, ma è ciò che ci consente di orientarci se appena poniamo in altro modo la questione.46
1H. Jonas, Gnosis und spätantiker Geist, Göttingen 1934-1954, ampliata e riedita in due volumi in lingua inglese: The Gnostic Religion, Beacon Press, Boston 1956; tr. it. Lo gnosticismo, SEI, Milano 1973, pp. 335-355.
2 S.A. Taubes, The Gnostic Foundations of Heidegger Nihilism, in “The Journal of Religion”, n. 34, 1954, pp. 155 sgg.
3 Platone, Cratilo, 421 b.
4 Eraclito, fr. B 30.
5 Platone, Leggi, Libro X, 903 c.
6 Lao-Tzu, Tao Tê Ching. Il libro della via e della virtù, Adelphi, Milano 1973, §§ XXXVII, LXXIII, pp. 97, 159.
7 G. Vattimo, Introduzione a M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 14, nota 1.
8 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991.
9 Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, Enneade II, 9, 5, p. 295.
10 M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905); tr. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Sociologia delle religioni, Utet, Torino 1976, vol. I, p. 321.
11 Platone, Gorgia, 508 a.
12 Cfr. il capitolo 92: “Nel linguaggio l’evento dell’essere”.
13 Platone, Filebo, 26 b.
14 Id., Timeo, 35 a.
15 Ivi, 41 e.
16 Ivi, 41 b.
17 Platone, Repubblica, Libro VII, 521 d.
18 M. Lidzbarski (a cura di), Das Johannesbuch der Mandäer (traduzione tedesca di testi mandei), Giessen 1915, p. 62.
19 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, § 57, p. 412.
20 B. Pascal, Pensées (1657-1662, prima edizione 1670); tr. it. Pensieri, Rusconi, Milano 1993, fr. 88 (205).
21 A proposito della Grande Triade si veda R. Guénon, La Grande Triade (1957); tr. it. La Grande Triade, Adelphi, Milano 1980.
22 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 2, p. 60.
23 Id., Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte I: “Il principio d’identità”, in “Teoresi”, 1966, p. 19.
24 Platone, Fedone, 67 a.
25 Id., Menone, 81 c.
26 Frammento gnostico dal Vangelo di Eva, in Epifanio di Salamina, Panarion Hæresium, 26, 3, in K. Holl (a cura di), Griechisch-christlichen Schriftsteller, Leipzig 1915-1931.
27 Platone, Fedro, 146 a.
28 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 57, pp. 412-413.
29 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, 1, p. 6: “Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a coloro che vi parlano di speranze sovraterrene”.
30 Platone, Repubblica, Libro X, 611 d.
31 Ivi, 611 e-612 a.
32 M. Lidzbarski (a cura di), Ginza. Das Schatz oder das Grosse Buch der Mandäer (traduzione tedesca di testi mandei), Göttingen 1925, p. 120.
33 M. Malinine, H.C. Peuch, G. Quispel, Evangelium veritatis, Zürich 1956, § 21, p. 25.
34 M. Heidegger, Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, Parte II, Lezione 1, p. 17.
35 M. Lidzbarski (a cura di), Ginza. Das Schatz oder das Grosse Buch der Mandäer, cit., p. 90.
36 Ivi, p. 244.
37 Ippolito Romano, Philosophoumena o Refutatio contra omnes haeresos, V, 14, 1, in P. Wendland (a cura di), Griechisch-cristhlichen Schriftsteller Leipzig-Berlin 1915-1931.
38 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 9, p. 106.
39 Id., Identità e differenza, cit., Parte I, p. 18. Le opere di Heidegger in cui si trovano queste determinazioni volte a significare il rapporto uomo-essere sono rispettivamente per Dasein: Essere e tempo, Beiträge zur Philosophie; per Bezug: Nietzsche, Lettera sull’“umanismo”, Perché i poeti?, Che cosa significa pensare?, La questione dell’essere, L’essenza del linguaggio; per An-wesen Zu-wendung: Perché i poeti?, Che cosa significa pensare?, La questione dell’essere; per Spiel: Il principio di ragione; per Ereignis: Identità e differenza, Beiträge zur Philosophie.
40 Eraclito, fr. B 119. Questo frammento viene solitamente tradotto: “Per l’uomo, il carattere è il suo demone”.
41 M. Heidegger, Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 306.
42 Ivi, p. 291.
43 Ivi, p. 312.
44 H. Corbin, Avicenne et le récit visionnaire, Département d’Iranologie de l’Institut Franco-Iranien, Teheran-Paris 1954, p. 33.
45 M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 291.
46 H. Corbin, Avicenne et le récit visionnaire, cit., p. 18.