5.

L’uomo come luogo della manifestazione dell’essere

L’uomo è il pastore dell’essere e insieme la sentinella del nulla. Le due cose sono una medesima cosa. L’una e l’altra sono possibili solo nella decisione che dischiude l’apertura (Ent-schlossenheit) dell’esser-ci.

M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro (1946), p. 325.

Per definire l’essenza dell’uomo la cultura occidentale non ha trovato di meglio che ricorrere alla natura animale per rintracciare al suo interno quella differenza specifica che fa dell’uomo un animale differente dagli altri, un uomo appunto. Rinvenuta la differenza nel linguaggio e nel pensiero, questi aspetti furono subito intesi come strumenti al servizio di quella vita animale (zoé) da cui ci si era mossi per definire l’uomo che, a questo punto, non poteva essere se non zôion lógon échon, animal rationale.

Partita dall’animalitas la cultura occidentale s’è così preclusa la direzione dell’humanitas. Con ciò non si vuol negare che l’uomo abbia una certa parentela con l’animalità, ma che necessariamente si debba partire dall’animalità per comprendere l’uomo.1 In questa direzione, infatti, si comprenderà un genere d’animale, superiore finché si vuole, ma sempre animale, la cui unica esigenza è quella di vivere e conservarsi il più a lungo possibile, procurandosi quelle cose utili alla propria sussistenza e associandosi e dissociandosi dai suoi simili per lo stesso motivo. In questo contesto, linguaggio e ragione saranno meri strumenti impiegati per gli stessi scopi per i quali gli animali impiegano l’istinto. La differenza tra l’uomo e il bruto si ridurrebbe a una differenza di mezzi.

Che l’umanità occidentale si riconosca in questa semplice differenza non c’è da meravigliarsi, se è vero che nel corso della sua storia non ha trovato definizioni migliori di quelle che colgono la sua natura di essere vivente che si associa e costruisce città (zôion politikón), di essere che produce strumenti (homo faber), che con strumenti lavora (homo laborans) e provvede al suo sostentamento con un’economia comune (homo œconomicus). Ognuna di queste definizioni coglie un aspetto caratteristico di quell’unica determinazione che è il vivere (zoé), quindi riconduce a quell’animalità da cui si era partiti.

Tra le varie definizioni abbiamo trascurato quella di homo sapiens, ma una volta che questa sapienza si rivolge alla politica, alla fabrilità, al lavoro, all’economia, che cosa “sa” l’uomo? Sa quali strumenti sono necessari per condurre una vita degna della sua specie animale. Ancora una volta il genere riconduce pesantemente a sé le varie espressioni di quella differenza specifica che, ridotta a strumento del genere, ne differisce davvero poco.

Oggi si parla molto dell’alienazione dell’uomo. “Alienazione” significa trovarsi lontano dalla propria essenza, trovarsi altrove. Questa lontananza è stata segnalata dal marxismo e dalla psicoanalisi in due direzioni differenti che oggi tendono a intrecciarsi come due aspetti di quella stessa condizione che è il non-esser-presso-di-sé. La distanza da sé è però cercata all’interno di quelle definizioni che poc’anzi abbiamo elencato. La loro combinazione contraddittoria determina l’alienazione dell’uomo.

Per il marxismo l’assetto politico ed economico a cui è pervenuto l’uomo occidentale contraddice la sua dimensione fabrile e lavorativa. Per la psicoanalisi il principio di realtà che regola il processo associativo e integrativo di ogni singolo, che non può disattendere le aspettative dei suoi simili, contraddice il principio di piacere teso alla massima soddisfazione individuale. Dall’alienazione si esce eliminando le contraddizioni determinate dallo scorretto relazionarsi di quelle determinazioni. Ma né il marxismo né la psicoanalisi sono sfiorati dal sospetto che l’alienazione dell’uomo consista proprio nel trovarsi fra quelle determinazioni, il cui genere di relazione, per quanto lo si capovolga e lo si muti, non è tuttavia in grado di far riconquistare all’uomo la sua identità, ormai compromessa dal presupposto biologico dell’animalità.

La parola existentia, che per Jaspers e Heidegger definisce l’essenza dell’uomo, allude a un exodus, a un exitus. Si tratta di uscire dalla concezione che, riconducendo l’uomo all’animalitas, lo comprende come mero manipolatore di enti in vista della sua sussistenza. Alla sussistenza sono ricondotti anche il pensiero e il linguaggio, intesi come meri strumenti tecnici per denominare l’ente da impiegare e per comunicare le modalità del suo più efficace e rapido impiego. La direzione dell’humanitas espressa dall’exitus, e compresa nell’ec di ec-sistentia, può essere seguita solo se l’essenza dell’uomo non sarà più pensata come ospitata dall’animalitas, ma come ospitata dal lógos. Rinviando alle pagine successive l’analisi del significato custodito dal termine lógos,2 soffermiamoci brevemente sul significato del termine “esistenza” e sul carattere di impotenza potente che lo contraddistingue.

La parola “esistenza” è ripresa da Heidegger e Jaspers nel senso complessivo che le era stato attribuito da Kierkegaard, il primo a impiegare il termine per significare l’essenza specifica dell’uomo.3 Per intendere questa definizione nel suo giusto significato è necessario sottrarre i termini “essenza” ed “esistenza” al senso che è stato loro conferito dalla metafisica occidentale. In particolare il termine “esistenza” non sta a significare la realtà effettiva che compete a ogni cosa, dal granello di sabbia a Dio, ma, al di là di questa accezione ontica, il termine, per Heidegger, sta a indicare il modo di essere di quell’ente che si tiene aperto per la rivelazione dell’essere. Il “tenersi aperto” dell’uomo è reso possibile dalla natura “ec-statica” dell’ec-sistentia che lo definisce e lo differenzia da tutti gli altri enti che “sono”, ma non “ec-sistono”.

L’ec-staticità dell’ec-sistentia non va intesa in senso soggettivistico, come riduzione dell’ec-sistentia a sostanza soggettiva (Subjekt), né in senso oggettivistico come riduzione dell’ec-sistentia a sostanza oggettiva o esistenza in senso tradizionale, ma va pensata come uno star-fuori, un emergere dalla mera fatticità dell’orizzonte ontico, in cui gli enti opacamente sono, per porsi, all’interno di questo orizzonte, come coscienza dell’orizzonte stesso. Il termine ec-sistentia esprime appunto questo star-fuori (ec-sistere) all’interno della nonascosità (a-létheia) in cui l’essere si presenta.

Così chiarito il senso attribuito al termine ec-sistentia, possiamo comprendere il discorso di Heidegger quando afferma che solo l’uomo esiste (ec-sistit) mentre il sasso, l’albero, l’animale, Dio “sono (sind)”, ma non “ec-sistono”, cioè sono realmente degli enti, ma non hanno quel carattere che compete all’uomo di stare aperto all’interno della non-ascosità dell’essere, sì da porsi dinnanzi all’ente come tale e avere coscienza di ciò che così è posto.4

Se l’uomo è uomo in virtù dell’ec della sua ec-sistentia, in virtù cioè di quell’emergere, di quello sporgere dalla dimensione degli enti, grazie alla sua apertura all’essere, si comprende l’impossibilità di definire l’uomo partendo dall’animalità che, come ogni altra dimensione ontica, è chiusa alla comprensione dell’essere, perché intenta all’utilizzazione dell’ente.

Una volta partiti dal biologismo animale la situazione non può più essere corretta neppure con l’aggiunta dell’“anima”, dello “spirito” o della “coscienza”, perché, comprese dal biologismo, queste dimensioni, con cui si cerca di meglio qualificare l’uomo, non possono significare altro che funzioni di quell’esperienza vitale a cui il biologismo si riconduce. In questo contesto la coscienza sarà la comprensione dell’ente in vista della sua utilizzazione, senza riflettere che la coscienza comprende, non perché spinta dall’istinto biologico della conservazione che impone l’utilizzazione dell’ente, ma perché fondata su quell’originaria apertura all’essere in cui l’uomo, in quanto e-sistenza, consiste, e grazie a cui gli enti, presentandosi, gli si offrono disponibili. Non è cioè la coscienza a privilegiare l’uomo rendendolo aperto all’essere, ma è l’originaria apertura all’essere che consente all’uomo di avere coscienza degli enti. Questo è quanto lascia intendere il sein (essere) che si ritrova in Bewusst-sein (coscienza).

Lo stesso dicasi del linguaggio, che distingue l’uomo dai vegetali e dagli animali. A questi il linguaggio è negato perché essi dipendono dal loro mondo-ambiente e, incapaci di ec-sistere, cioè di emergere da detto mondo-circostante (Um-welt), restano privi di mondo (Welt), cioè di quell’apertura all’essere di cui il linguaggio è il tralucere e l’annuncio. Gli animali non parlano perché non sanno cosa dire, non sanno cioè nulla di quell’essere che trascende il mondo-ambiente che li circoscrive e da cui appunto dipendono. Dire che l’incapacità linguistica degli animali è fisio-logica significa dire che la phýsis (la natura, o “essere”, come in seguito illustreremo) si è sottratta alla loro comprensione, e l’assenza del suo annuncio ha determinato per essi la mancanza della parola.

Per esprimere questa originaria apertura all’essere, Heidegger, a differenza di Jaspers,5 si serve oltre che del termine ec-sistentia anche del termine Da-sein (esser-ci). Il da di Da-sein (il ci di esser-ci) vuol significare che l’uomo è il luogo in cui c’è (ist da) la manifestazione dell’essere. Nel “ci” è raccolto l’originario rapportarsi dell’essere all’uomo. In questo rapporto (Bezug) è l’essenza dell’uomo che custodisce l’in-vio o e-vento (An-wesen) che l’essere fa di sé. L’uomo è il volgersi (Zu-wendung) a questo invio (Anwesen), nell’invio si risolve l’essere, e nel volgersi a questo invio si dissolve l’uomo. In questo gioco (Spiel) di richiamo e ascolto è custodita la coappartenenza (Ereignis) di uomo ed essere.6

Se l’uomo, come “esser-ci”, è apertura all’essere, non è l’uomo a decidere dell’essere, come pretendono la scienza e la tecnica moderna, in perfetta armonia con la loro definizione biologica dell’uomo, ma è l’esser-ci dell’uomo a essere deciso dall’essere.

Solo finché accade la luce dell’essere, l’essere sopraggiunge all’uomo, ma che il ci sussista, cioè che accada la luce della verità dell’essere, è deciso dalla ventura dell’essere. In questa vicinanza, nella luce del ci, abita l’uomo come e-sistente, senza essere già oggi capace di esperire espressamente questa dimora e di assumerla.7

Ventura rende il tedesco Geschick (da schicken = inviare) abitualmente tradotto con sorte, destino. Da Geschick deriva Geschichte, la storia, che quindi non è decisa dall’uomo, ma dal suo destino o sorte che accompagna la ventura dell’essere, a cui appartiene tanto l’offrirsi e il manifestarsi quanto il sottrarsi e il trattenersi. Dalla sospensione (epoché) della propria manifestazione, per cui in primo piano resta l’ente nel suo isolamento dall’essere, nascono le “epoche” della storia come epoche di verità (a-létheia = non-occultamento) o di oblio. La storia occidentale, in quanto raccoglimento intorno all’ente in vista del suo dominio, è tempo d’oblio dell’essere e della sua verità. Questo oblio, determinato dall’assentarsi dell’essere, significa per l’uomo smarrimento del proprio êthos e del proprio nómos.

Êthos significa “soggiorno”. Dire che l’essere è l’êthos dell’uomo significa dire che l’uomo dimora e soggiorna nell’essere. La dimora e il soggiorno intervengono come elementi essenziali nella definizione dell’uomo che non può scegliersi altra dimora perché, in quanto apertura all’essere, se vuol essere uomo, deve soggiornare nelle sue vicinanze. Questo è l’autentico fondamento etico che sta prima e al di sopra di ogni etica. Lo si ritrova nel frammento B 119 di Eraclito che dice “Êthos anthrópoi daímon” che Heidegger rende con “L’uomo abita nelle vicinanze di Dio”.8 Questa vicinanza è stata smarrita dalla speculazione occidentale che, affermatasi nell’oblio dell’essere come esclusiva attenzione all’ente, ha determinato quell’“accadere senza patria (Heimatlosigkheit)”9 che costringe l’uomo a errare fra gli enti, in quel buio che si determina col sottrarsi alla luce dell’essere.

Se l’uomo, in quanto apertura all’essere, deve soggiornare nelle sue vicinanze, solo l’essere può porsi come autentico nómos. “Il nómos,” dice Heidegger, “non è solo la legge, ma è l’indicazione nascosta che proviene dalla ventura dell’essere (Schickung des Seins).”10 Infatti solo la ventura dell’essere che riempie l’apertura, il ci in cui l’uomo come esser-ci consiste, può contenere indicazioni aventi per l’uomo caratteri di obbligatorietà. “In caso contrario ogni legge resta solo un prodotto della ragione umana. Più essenziale di ogni istituzione di regole è che l’uomo si trovi ad abitare nella verità dell’essere.”11

La definizione dell’uomo come manifestazione dell’essere da un lato ne esprime la grandezza, dall’altro fa riferimento alla sua costitutiva finitezza, che consiste nell’essere condannato al ruolo di spettatore della manifestazione dell’essere. Se l’essere destina la sua sorte (Geschick), non così l’uomo, la cui sorte è di essersi trovato gettato (geworfen) nel mondo per accogliere, impotente, la sorte dell’essere. L’uomo non sceglie di occuparsi dell’essere, ma consiste in questa occupazione. L’essere è ciò che lo pre-occupa nel senso che lo occupaprima che l’uomo possa decidere se occuparsene o meno. L’uomo è già da sempre gettato nella comprensione dell’essere. In virtù di questa comprensione, l’uomo è in grado di accogliere l’ente come l’essere glielo invia, lasciandolo accadere come l’essere ha deciso che accada.

La finitezza dell’uomo, la sua non-potenza (Ohnmacht) sull’ente, custodisce la sua superpotenza (Übermacht) espressa dalla libertà a proposito di ciò che nell’apertura si manifesta. Proprio perché l’uomo è impotente sull’ente, egli lascia essere l’ente così come esso è. Questo “lasciar essere” è la libertà che deve essere pensata come essenza della verità.12 Infatti “lasciare essere l’ente così come esso è” significa non falsare la sua manifestazione sovrapponendovi un ordine categoriale che, arrestando l’apertura al piano delle anticipazioni mentali, non consente l’incondizionata manifestazione dell’essere in cui la verità consiste. Se la libertà espressa dall’uomo è la condizione della vera manifestazione dell’essere, si può comprendere come Heidegger possa parlare dell’uomo come di colui di cui l’essere ha bisogno (Gebrauchte) per il disvelamento dell’ente.13 L’uomo viene così a trovarsi al centro della sorte dell’essere, ma non per imporvi una propria ragione che ne assicuri il dominio, ma per essere impiegato come luogo dell’incondizionata manifestazione dell’ente.

È facile osservare che questa impostazione del rapporto uomoessere è l’esatto capovolgimento di quella che sta alla base della cultura dell’Occidente. Quest’ultima, infatti, pensando sempre in direzione umanistica, ha trascurato l’impotenza dell’uomo, è quindi la sua corretta posizione ontologica, per seguirne l’incondizionata volontà di potenza protesa alla subordinazione e al dominio dell’ente mediante l’umana ragione.

L’ontologia si è così risolta in una mastodontica antropologia, cresciuta nella lontananza della verità dell’essere il cui evento necessita della povertà dell’uomo. Lungo il sentiero della povertà, dischiuso dalla libertà, che lascia essere l’incondizionato accadimento dell’ente, l’uomo ritrova la propria misura come sentinella del nulla e come pastore dell’essere. Infatti solo là dove l’uomo si dispone come apertura vuota da ogni predeterminazione, sicché nulla può nascondere la manifestazione dell’essere, l’essere si sottrae all’occultamento e si concede come a-létheia, come non-nascondimento, come verità. Di questa verità l’uomo è il custode come il pastore è custode del suo gregge. Infatti, scrive Heidegger:

La nostra antica parola “vero” (wahr) significa “guardia”, “custodia”. [...] Un giorno impareremo a pensare il termine verità (Wahrheit) a partire dalla salvaguardia (Wahrniss) dell’essere; e che l’essere in quanto esserepresente (Anwesen) rientra in essa. Alla verità come salvaguardia dell’essere corrisponde il pastore, che ha così poco a che fare con la pastoralità idilliaca e con la mistica della natura, da non poter essere il pastore dell’essere che essendo la sentinella del nulla. Le due cose sono una medesima cosa. L’una e l’altra sono possibili solo nella decisione che dischiude l’apertura (Ent-schlossenheit) dell’esser-ci.14

1 In realtà, a differenza dell’animale che vive nel mondo stabilizzato dall’istinto (che è una risposta rigida allo stimolo), l’uomo, per la carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla sua azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano, nell’enigma del mondo, un mondo per l’uomo. L’anticipazione, l’ideazione, la progettazione, la libertà di movimento e d’azione, in una parola, la storia come successione di autocreazioni hanno nella carenza biologica la loro radice e nell’agire tecnico la loro espressione. Sfruttando quella plasticità di adattamento che gli deriva dalla genericità e non rigidità dei suoi istinti, l’uomo ha potuto, attraverso le procedure tecniche di selezione e stabilizzazione, raggiungere “culturalmente” quella selettività e quella stabilità che l’animale possiede “per natura”. Questa tesi, che A. Gehlen ha ampiamente documentato nel nostro tempo, era stata anticipata da Platone, Tommaso d’Aquino, Kant, Herder, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, dunque da grandi esponenti del pensiero occidentale, indipendentemente dalla direzione del loro orientamento filosofico. Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002 e in particolare la Parte II: “Genealogia della tecnica: l’incompiutezza umana”.

2 Cfr. il capitolo 11: “Il pensiero come lógos”.

3 Si veda in proposito S. Kierkegaard, Philosophiske Smuler (1844); tr. it. Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, Zanichelli, Bologna 1962.

4 Si veda a questo proposito M. Heidegger, Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, dove alle pp. 276-277 si legge: “Siamo sulla via giusta per determinare l’essenza dell’uomo se e finché consideriamo l’uomo come un essere vivente tra gli altri, che si distingue rispetto alle piante, agli animali e a Dio? Si può procedere così, si può cioè in tal modo situare l’uomo all’interno dell’ente e considerarlo come un ente fra gli altri. Così facendo si potranno sempre fare asserzioni corrette sull’uomo. Ma si deve anche aver ben chiaro che così l’uomo è definitivamente cacciato nell’ambito dell’essenza dell’animalitas, anche quando non lo si assimila all’animale, ma gli si riconosce una differenza specifica. In linea di principio si pensa sempre all’homo animalis anche quando l’anima è posta come animus sive mens, e quindi come soggetto, come persona, come spirito. [...] La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l’uomo si dispiega solo nella sua essenza (west) in quanto è chiamato dall’essere. Solo a partire da questa chiamata, l’uomo ‘ha’ trovato dove la sua essenza abita. Solo a partire da questo abitare egli ‘ha’ il linguaggio come dimora che conserva alla sua essenza il carattere estatico. [...] Ne consegue che di e-sistenza si può parlare solo in relazione all’essenza dell’uomo, cioè solo in relazione al modo umano di ‘essere’; perché solo l’uomo, per quanto ne abbiamo esperienza, è coinvolto nel destino dell’e-sistenza. Perciò l’e-sistenza non può mai essere pensata come una specie particolare fra le altre specie di viventi, dato che l’uomo è destinato a pensare l’essenza del suo essere, e non solo a raccontare storie naturali e storiche sulla sua costituzione e la sua attività”.

5 Come già s’è visto nella nota 22 del capitolo 3, per Jaspers esser-ci è il mero esserlì di una cosa; la sua valenza è quindi ontica, e non ontologica, opacamente chiusa nella sua fatticità e non aperta alla trascendenza dell’essere.

6 Le opere di Heidegger in cui si trovano queste determinazioni volte a significare il rapporto uomo-essere sono rispettivamente per Dasein (Essere e tempo, Beiträge zur Philosophie), per Bezug (Nietzsche, Lettera sull’“umanismo”, Perché i poeti?, Che cosa significa pensare?, La questione dell’essere, L’essenza del linguaggio), per An-wesen Zu-wendung (Perché i poeti?, Che cosa significa pensare?, La questione dell’essere), per Spiel (Il principio di ragione), per Ereignis (Identità e differenza, Beiträge zur Philosophie).

7 Id., Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 290.

8 Ivi, p. 306, dove si legge: “Il detto di Eraclito (fr. B 119) suona: Êthos anthrópoi daímon. In genere si è soliti tradurre ‘Per l’uomo, il carattere è il suo demone’. Questa traduzione pensa in modo moderno e non greco. Êthos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. Secondo la parola di Eraclito, questo è daímon, il dio. Il detto, allora, significa: ‘L’uomo, in quanto uomo, abita nella vicinanza del Dio’”.

9 Ivi, p. 291.

10 Ivi, p. 311.

11 Ivi, p. 312.

12 Si veda a questo proposito M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit (1930-1943); tr. it. Dell’essenza della verità, in Segnavia, cit. Per un approfondimento del rapporto libertà-verità rimando a U. Galimberti, Introduzione a M. Heidegger, Sull’essenza della verità, La Scuola, Brescia 1973, pp. LIII-LIV.

13 M. Heidegger, Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 855, dove si legge: “L’essere è necessitante in questo senso doppiamente unitario: è ciò che non-lascia-perdere (das Un-ab-lässige) e ciò che ha bisogno (das Brauchende) in riferimento all’occupazione (im Bezug) dell’asilo, e come tale asilo è essenzialmente presente (west) l’essenza a cui l’uomo, come colui di cui c’è bisogno (das Gebrauchte) appartiene. Ciò che è doppiamente necessitante è, e si chiama, la necessità (die Not). Nell’avvento del rimanere assente della sua svelatezza l’essere stesso è la necessità”.

14 Id., Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 324-325.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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