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Spinoza: la sostanza come phýsis e il ritorno dall’etica all’êthos
Possiamo desiderare soltanto ciò che è necessario, e trovare compiacimento soltanto nel vero. Se intendiamo rettamente queste cose, lo sforzo della parte migliore di noi è in armonia con l’ordine di tutta la natura.
B. SPINOZA, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (1665), Parte II, Appendice, § 32.
Spinoza volle che la sua opera fosse pubblicata senza il suo nome, perché la verità non appartiene ad alcuno e nessuno può nutrire nei suoi confronti desideri di possesso. Non siamo noi a possedere la verità, ma è la verità che ci possiede. Il pensiero dell’uomo non deve trascendere il mondo per giungere a Dio, ma deve pensare partendo da Dio. Il pensiero umano, infatti, è momento del pensiero divino. Il Lógos possiede l’ánthropos e non viceversa.
Nella storia del pensiero moderno Spinoza è l’unico che, nonostante la forma geometrica che accompagna il procedere del proprio discorso, sfugge alla matematicità dell’epoca, per promuovere un pensiero che tragga forza dall’origine. L’origine è l’essere; al di là dell’origine ci sono gli enti. Pensare dall’origine significa sapersi, prima della ricerca sulle cose, già custodito nell’essere. Per questo Spinoza è, a parere di Jaspers, l’unico grande metafisico dell’età moderna.
La sua sostanza è, come la phýsis, natura naturans, o, come scrive Heidegger: “Ciò che sboccia da se stessa, e da sé si dispiega per apparire in tale dispiegamento e dimorarvi”.1 Per questo è divina: Deus sive natura, dove il concetto dominante è quello di Deus, che non sottrae se stesso all’essere e all’apparire delle cose.
Spinoza panteista? Certo, ma solo per le classificazioni dell’intelletto che, dopo aver ridotto il divino a livello ontico, cerca di privilegiarlo separandolo dal resto degli enti, ma non per l’autentico filosofare che non osa definire Dio, ma lo lascia indeterminatamente nelle vicinanze del senso dell’essere.
Come l’essere del pensiero aurorale, così il Dio di Spinoza non ha bisogno di alcun fondamento; di fronte a esso vien meno la domanda circa la sua origine. Come già il Dio di Anselmo, la sua essenza implica l’esistenza,2 per cui non lo si può pensare come non esistente. È infatti, come vuole la definizione di Spinoza: “Ciò che è in sé ed è concepito per sé (Id quod in se est et per se concipitiur)”.3
Il termine che lo nomina: substantia, richiama quell’antichissima tradizione che pensa all’ousía come a ciò che fa essere e apparire tutte le cose. La sostanza di Spinoza, infatti, non ha subìto l’alienazione soggettivistica dell’intellettualismo medioevale e del soggettivismo moderno, non s’è fatta subjectum, ma ha conservato l’impronta del suo significare originario.
Il suo rapporto con gli enti è di immanenza e trascendenza. Gli enti, infatti, sono nella sostanza come modi della sua manifestazione, ma non sono la sostanza. La differenza ontologica compare in tutta la sua chiarezza nella polemica condotta contro quella causa efficiente a cui faceva ricorso la metafisica medioevale per spiegare la processione del mondo da Dio.
La causalità è una categoria scientifica, perché ontica, perché implica il rapporto tra due enti. Servirsene per dedurre il mondo da Dio significa procedere secondo la linea delle ipotesi matematiche che non si addicono alla vera metafisica, perché questa, a differenza della scienza, non è un’ipotesi sul mondo, ma è un tentativo di chiarificazione del mistero dell’essere, è un rivolgersi al mistero, per avvertirlo, e non per giustificarlo.
Dove Dio e mondo sono pensati come due enti non è possibile rinvenire traccia alcuna della differenza ontologica, ma dove Dio è l’essere e gli enti sono i modi della sua manifestazione,4 allora la differenza ontologica si impone e, con essa, la possibilità di riprendere il sentiero interrotto che conduce nelle prossimità del senso dell’essere. Nella ripresa di questa possibilità è la forza metafisica del pensiero di Spinoza.
Pur essendo nell’ente, come il mare nell’onda, l’essere, che come causa immanente si trasmette nell’ente, dall’ente si distingue come il positivo dal negativo. L’essere cioè non è l’ente, perché l’infinità dell’essere accoglie quella positività che è rifiutata all’ente in quanto determinazione, e, come a più riprese ricordava la logica medioevale: “Ogni determinazione è una negazione (omnis determinatio est negatio)”.
Ancora una volta la differenza ontologica è conquistata con la riduzione del principio di non contraddizione a livello ontico, per cui l’essere, come già il “possest” di Cusano, si sottrae alla possibilità del negativo contemplata dal principio.5 Ogni ente, infatti, si rapporta alla sostanza per negazione, per cui l’ente non è l’essere, anche se all’essere ogni ente deve il proprio essere e il proprio apparire. Questa trascendenza immanente è, fra quante ne offre la storia della filosofia, quella in cui meglio si trova espressa la differenza ontologica.
Sottraendosi alla volontà di potenza, che vuole la sicurezza e la stabilità dell’ente, la filosofia di Spinoza lascia l’ente nella precarietà dell’accadimento temporale. L’essere è eterno. Il tempo non appartiene all’essere, ma solo ai suoi modi. La storia è il mondo in cui i modi dell’eterno sorgono e tramontano nel tutto che permane, perché, scrive Jaspers, commentando un passo di Spinoza: “Nell’eterno non c’è alcun ‘quando’, nessun ‘prima’ né ‘dopo’”.6
Conoscere filosoficamente le cose significa conoscerle nell’eternità e necessità della sostanza in cui dimorano. Per questo pensiero l’intelletto è inadeguato, e l’inadeguatezza ospita l’errore. Se infatti all’ente compete per essenza l’essere, pensare l’ente nel suo isolamento, come appunto fa l’intelletto, significa non pensare l’ente, e, stante la premessa, significa addirittura non pensare alcunché di reale, ma quel mondo fantastico che l’uomo si rappresenta quando, dimentico della necessità dell’essere, progetta l’ente, ne cura la sorte, sta in ansia per il suo esito, teme il suo smarrimento, “patisce” cioè quei sentimenti che, lungi dal rivelare l’umanità dell’uomo, la sua ansia, la sua debolezza, manifestano quella presunzione promossa dall’ignoranza e dall’“inadeguatezza della conoscenza”7 che fanno credere all’uomo che il senso delle cose, la loro sorte, siano riposti nelle sue mani.
Per questo la filosofia dell’essere di Spinoza è un’etica. Il compito che si propone, accostandosi al mistero dell’essere, è di ridurre la tracotanza dell’uomo che intellettualismo e soggettivismo hanno elevato a misura di tutte le cose. Far sapere all’uomo che l’ente è dell’essere, significa ricondurre la metafisica alla sua essenza e quindi smascherare l’antropocentrismo sotteso alle metafisiche ontiche che, anche quando parlano di Dio, pensano all’uomo. Inoltre significa ricondurre l’uomo, disperso nei vari campi divisi dalle diverse etiche, a quell’unico soggiorno (êthos) concesso dall’ospitalità dell’essere.
Rovesciando il platonismo che sta alla base di tutte le metafisiche antropocentriche dell’Occidente, Spinoza afferma che la necessità dell’essere è al di là del bene e del male e che bene e male hanno la loro origine nelle valutazioni dell’uomo promosse dall’inadeguatezza delle sue idee, a loro volta misurate sulla ragione umana invece che sulla ragione dell’essere.
Infatti, ogni cosa che è in natura viene vista dall’uomo come un mezzo per soddisfare ciò che gli torna utile. Persino Dio avrebbe fatto tutto a favore dell’uomo, e avrebbe creato l’uomo allo scopo di farsi onorare da lui. Questo pregiudizio antropocentrico, osserva Jaspers, diventa “religione” quando l’uomo incontra quegli eventi che considera dannosi come le tempeste, i terremoti, le malattie. Allora, persuaso che le cose siano state disposte esclusivamente per l’utilità umana, l’uomo ipotizza che Dio si sia adirato per qualche offesa ricevuta, e allora cerca il modo di placarne l’ira, rendendogli onori in molti e diversi modi, affinché questi ritorni ad amarlo al di sopra di ogni cosa.
Accade però che l’esperienza quotidiana mostra che le cose utili e quelle dannose capitano in ugual misura sia ai buoni sia ai cattivi. Di fronte a questo dato di fatto l’uomo conclude che il giudizio di Dio supera di gran lunga la capacità della comprensione umana. E così, dopo aver costruito un universo a misura d’uomo, l’uomo sembra abdicare alla propria misura, ma solo apparentemente. Infatti anche il mistero è ridotto e limitato a quanto appare in contraddizione con il desiderio umano, e quindi è da questo misurato.
A fondamento di questa misura c’è la volontà di potenza, per la quale le cose valgono non perché sono, ma perché sono atte a soddisfare i bisogni dell’uomo. All’essere delle cose si sostituisce il loro valore, ossia la loro idoneità per quegli scopi che l’uomo ha valutato degni di essere raggiunti. Va da sé poi che la dignità degli scopi è misurata sul vantaggio che il loro conseguimento comporta. E così, vantaggi, scopi, valutazioni e valori si sovrappongono all’essere determinandone l’oblio. L’oblio, a sua volta, è avvolto dall’oblio dell’oblio, per cui l’uomo non solo è dimentico dell’essere, ma è dimentico anche di questo oblio, e perciò reputa fatto positivo l’affermazione del proprio primato.
In questo contesto si spiegano le lodi e gli apprezzamenti per l’“umanismo”, gli entusiasmi per “il progresso scientifico dell’umanità”, la nascita e lo sviluppo delle scienze antropologiche, l’estensione della loro metodologia a tutte le discipline per renderle “meno fredde e più umane”, perfino la teologia abbandona il suo tono dogmatico e si presenta come “itinerario della salvezza”, mentre la filosofia si diffonde come “esistenzialismo”.
Ma non è tutto questo un errare perché s’è smarrito il luogo del vero soggiorno? E se l’errare è riconosciuto, il persistervi non è colpa? E quale può essere la via del riscatto? Spinoza ne indica una: le valutazioni rendono l’uomo schiavo dell’aspetto che il mondo assume per causa loro, ne consegue che la libertà che si deve affermare sarà allora la libertà da tutti i valori e da tutte le valutazioni che li pongono. La loro origine infatti affonda nell’ignoranza dell’uomo che conosce i propri desideri, ma non la necessità che lo determina. Infatti, scrive Spinoza:
Noi non tendiamo a una cosa, né la vogliamo, né la desideriamo perché la giudichiamo buona, al contrario la giudichiamo buona perché vi tendiamo, la vogliamo e la desideriamo. [...] Gli uomini infatti credono di essere liberi perché sono consci delle loro azioni e ignari delle cause da cui vengono determinati.8
E così, quasi inavvertitamente, con osservazioni che sembrano marginali, Spinoza mostra di muoversi in uno spazio nuovo rispetto a quello platonico dominato dall’idea del Bene. Per Spinoza il Bene non “supera l’essere in dignità e potenza”,9 ma è sottoposto alla necessità dell’essere che si manifesta in tutte le cose come puro permanere, senza alcuna tensione finalistica. Infatti, scrive Spinoza:
Ogni cosa, per quanto è in essa, tende a perseverare nel suo essere.10 Lo sforzo, col quale ogni cosa tende a perseverare nel suo essere, non è altro che l’essenza attuale della cosa.11
Commentando queste proposizioni di Spinoza, Jaspers osserva che questa tendenza all’autoconservazione (conatus) è l’essenza vera e reale non solo di ogni cosa, ma anche dell’uomo. Dio stesso non ha in vista alcun bene. Ammetterlo, infatti, significherebbe pensare Dio dipendente da qualcosa.12
Con l’abbandono del platonismo crollano in Spinoza la metafisica dualistica, la verità come adæquatio, l’etica dei valori e, in genere, tutto quell’ordine interpretativo misurato dalla ragione umana. Questo non deve far pensare che in Spinoza viva una contrapposizione fra ragione umana e divina, quasi che l’uomo fosse il contrapposto dell’essere, invece che il testimone della sua manifestazione. Per Spinoza la ragione umana non è altro che la ragione divina, ma in uno stato di diminuzione, dovuta ai limiti che la legano alla finitezza degli enti.
Essendo “naturale”, come momento della natura naturata, la ragione umana non è ricompresa né minacciata da qualcosa che sia più che ragione, quasi una divinità che, sovrastandola, si ponga come sovranatura incomprensibile. Per Spinoza c’è una sola natura e una sola ragione che non si lascia comprendere nei limiti del pensiero logico. La sua essenza infatti è il lógos, da cui scende quella norma o, come dice Spinoza, quel “decreto immutabile per il quale ogni cosa accade secondo la legge dell’essere supremamente perfetto”.13
Riconoscere questa legge, “che dà all’anima umana la più grande soddisfazione e tranquillità”,14 è “l’amore intellettuale della mente per Dio, che è lo stesso amore di Dio, con cui Dio ama se stesso (amor intellectualis Dei)”,15 ovvero quel pensare amoroso che, scoprendosi momento del lógos divino, è in grado di intendere il senso del suo rivelarsi negli attributi e nei modi.
Isolarsi dal lógos, per trattenersi nell’isolamento degli enti, dimentichi dell’essere che li entifica, di quella natura che li natura, è errare. L’errore quindi non è un inesatto rapporto intellettuale nei confronti delle cose, non è una scorretta adæquatio, ma è un oblio, l’oblio dell’essere che determina l’assolutizzazione dell’ente e il primato dell’uomo che pensa l’ente e lo interpreta nelle modalità dell’oblio.
Con Spinoza crolla così la metafisica dell’ente e si dischiude un sentiero che sembra ricondurre al pensiero aurorale, il quale non conosceva né etica né logica, né natura né sovranatura, ma solo l’originario svelarsi dell’essere all’uomo, chiamato a testimone della sua manifestazione. Le tracce di questo sentiero però si perdono.
Il tempo a cui appartiene Spinoza assiste infatti, con assoluta indifferenza, alla messa in crisi di quella metafisica ontica che per secoli aveva assicurato l’uomo, perché ormai questo tempo ha già imboccato il cammino della scienza, che all’uomo promette sicurezza e garanzie più concrete. E così si passa da una forma d’oblio (quella teologica) a un’altra (quella scientifica), finché gli esiti di quest’ultima non faranno riflettere di nuovo, e di nuovo non indurranno a ricercare le tracce del custodirsi dell’essere nel tempo dell’oblio.
Questo nuovo scenario, che conduce da Cartesio a Nietzsche, in cui Jaspers vede “il secondo periodo assiale dell’umanità”,16 trova la sua esposizione, qui di seguito, nel Libro II: “Il pensiero occidentale”.
1 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 25. Cfr. il capitolo 10: “L’essere come phýsis”.
2 Cfr. il capitolo 36: “Anselmo: l’argomento ontologico e l’identità di essere e pensiero”.
3 B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata (1665, edita postuma nel 1677); tr. it. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Boringhieri, Torino 1959, Parte I, 3a definizione, p. 19.
4 Ibidem. Recita infatti la 3a definizione: “Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato”; e la 5a definizione: “Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per cui anche viene concepito”.
5 Cfr. il capitolo 37: “Cusano: la coincidenza degli opposti e il recupero della differenza ontologica” e in particolare i passi a cui fanno riferimento le note 24 e 25.
6 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 1057.
7 B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, cit., Parte III, proposizione 1, corollario, p. 133: “La mente è schiava di tante più passioni, quante più idee inadeguate ha”.
8 Ivi, Parte III, proposizione 2, corollario, p. 137. Il commento di K. Jaspers a questa proposizione è ne I grandi filosofi, cit., p. 1099.
9 Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b. Cfr. il capitolo 25: “La metafisica dualistica come tentativo di assicurare l’ente”.
10 B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, cit., Parte III, proposizione 6, p. 140.
11 Ivi, proposizione 7.
12 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 1098.
13 B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, cit., Parte V, proposizione 36, pp. 322-323. Il commento di K. Jaspers a questa proposizione è ne I grandi filosofi, cit., pp. 1169-1170.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte (1959); tr. it. Origine e senso della storia, Comunità, Milano 1965, pp. 19-41.