2.

La scienza come metodo e come tecnica rigorosa per l’utilizzazione del mondo

La corsa folle che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a esso intrinseche. Nel metodo è tutta la potenza del sapere. Il tema rientra nel metodo.

M. HEIDEGGER, L’essenza del linguaggio (1957-1958), p. 141.

A soccorrere l’ipotesi che colloca il significato del mondo nel suo impiego per l’appagamento dell’uomo è la scienza. La scienza è innanzitutto consapevolezza del metodo. Io “so” qualcosa quando insieme conosco la via che mi ha condotto a un risultato. La conoscenza del risultato, senza la via che ne ha determinato il risultare, non basta a rendere scientifico il modo di sapere. In virtù della sua qualità metodologica, la scienza rappresenta per Jaspers il primo superamento del senso comune. Infatti:

La scienza è conoscenza metodica, il cui contenuto si impone a noi con certezza vincolante e universale validità. In questa definizione sono contenuti i tre caratteri essenziali del sapere scientifico.1

Il senso comune si muove quotidianamente sul terreno incontrollato delle ovvietà non problematizzate, e si esprime in un sapere costituito da una somma di affermazioni e negazioni prive di fondamento. Il senso comune accoglie infatti i risultati scientifici non in virtù della loro fondazione, ma per l’utilità del loro impiego. Ovviamente questo comportamento torna comodo a chi, impegnato nella trasformazione del mondo, non ha tempo di discutere il risultare, e quindi il fondamento dei risultati.

L’essenza del metodo scientifico è colta da Jaspers e da Heidegger nell’anticipazione matematica delle ipotesi da seguire. Scrive in proposito Heidegger:

Tà mathémata significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo.2

L’anticipazione conoscitiva è dunque ciò che distingue la scienza nella sua accezione moderna, dalla doctrina medioevale e dall’epistéme greca. Queste ultime infatti non sono scienze nel senso moderno, perché sprovviste di metodo, ovvero di quella rappresentazione anticipata delle condizioni secondo cui un determinato complesso di accadimenti può essere seguito nella necessità del suo svolgimento e quindi essere controllato anticipatamente col calcolo.

Nel suo procedere, il metodo si appella all’esperienza, che non si riduce, come l’empeiría aristotelica, alla semplice osservazione delle cose, delle loro proprietà e delle loro modificazioni, ma si esprime nell’experimentum, ossia nella risposta che le cose devono dare all’ipotesi che il soggetto ha anticipatamente formulato su di esse. A questo punto non è difficile cogliere lo stretto legame che esiste tra la rappresentazione (Vor-stellung) che anticipa l’ipotesi che presiede l’esperimento scientifico e la coscienza intersoggettiva (Bewusstsein überhaupt) che, ponendosi (stellen) davanti (vor) l’ente, lo traduce in un oggetto (ob-jectus, Gegen-stand), ossia in una costruzione (Ge-stell) che vale per ogni soggetto in maniera universale e vincolante.

Il soggetto chiamato in questione è l’intersoggettività che, tramite le ipotesi matematicamente calcolate, costruisce un mondo a immagine (Welt-bild) del progetto anticipato. Il carattere apodittico delle conclusioni scientifiche deriva dalla natura dell’ipotesi matematica, da intendersi non come immaginazione arbitraria (“hypothesis non fingo” diceva Newton), ma come progetto fondamentale della natura, all’interno del quale si inscrivono le risposte che dalla natura stessa provengono. A presiedere l’impianto ipotetico è il principio di causalità per cui, poste determinate premesse, devono seguire necessariamente (zwingend) determinate conclusioni, quelle cioè che le premesse pre-contenevano nel loro progetto ipotetico. Le conseguenze fisiche devono corrispondere alle conclusioni logiche che, dedotte da determinate premesse, erano state anticipate e in qualche modo attese. Il principio di verificazione altro non è se non la conferma, in sede sperimentale, della verità della conclusione anticipata in sede logica.3

La scienza è dunque raccolta nella struttura anticipante che caratterizza il suo metodo, che è poi quella via seguita per raggiungere, senza eccezioni e imprevisti di sorta, quell’utilizzazione del mondo in cui l’uomo si trovava già impegnato prima della nascita della scienza. A questo punto possiamo dire che non è il metodo al servizio della scienza, ma viceversa, essendo il metodo quel metà odón che consente all’uomo di proseguire, in maniera rigorosa (zwingend) e valida per tutti (allgemeingültig), quell’odós o via che già aveva iniziato per l’utilizzazione del mondo, in vista del proprio appagamento. Di questo primato metodologico sulla scienza si era già accorto Nietzsche là dove dice:

Ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza, ma la vittoria del metodo sulla scienza. [...] Le idee più importanti vengono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi.4

Commentando queste proposizioni nietzscheane, Heidegger osserva che:

Anche Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza, precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888, a Torino. Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo, ma viene immesso nel metodo e vi rimane sottoposto. La corsa folle che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a esso intrinseche. Nel metodo è tutta la potenza del sapere. Il tema rientra nel metodo.5

Ma se la scienza è raccolta nel metodo e il metodo è quella via che in modo vincolante e valido per tutti conduce all’utilizzazione del mondo, la scienza non è in grado di dare un senso al comportamento quotidiano precedentemente descritto6; al contrario in esso è inserita e compresa come programmazione e organizzazione rigorosa e universale di quel comportamento. Rivolgersi alla scienza per sapere qualcosa sul reale, indipendentemente dalla sua utilizzabilità, significa fraintendere la scienza e non comprenderne il significato. Se la scienza infatti è mera tecnica di impiego, non esplicazione di senso, anche a livello scientifico il senso del rapporto quotidiano con le cose del mondo resta impensato. In questa prospettiva si rovescia anche il rapporto tradizionale fra scienza e tecnica. Quest’ultima, lungi dall’essere l’applicazione pratica della scienza, ne è l’anima, in quanto programmazione rigorosa dell’utilizzazione del mondo.

In ciò è rintracciabile, per Heidegger, l’essenza operativa della ragione scientifica. L’operativismo esclude la scienza dalle espressioni teoretico-contemplative (“La scienza non pensa” scrive Heidegger),7 per includerla tra le espressioni operative e produttive, e ciò prima ancora del suo impiego tecnico. Anzi la ragione scientifica può produrre e di fatto produce la tecnica, perché la sua essenza non è contemplativa, ma fin dall’origine produttiva. Ciò significa che la tecnica non è la semplice applicazione dei risultati scientifici, ma è la forma stessa della scienza che, in quanto tale, traduce il pensiero da teoretico in produttivo.

In quanto “produzione”, sia la scienza sia la tecnica continuano a essere inscritte nell’antico significato greco di poíesis che significa appunto “produzione”, con l’avvertenza però che l’operare che scaturiva dal sapere antico si limitava ad assecondare la natura, mentre l’operare che scaturisce dal sapere scientifico moderno dispone della natura a partire dalla progettualità umana. In questa “disposizione”, con conseguente “disponibilità” della natura, si esprime l’essenza operativa della ragione scientifica.8

In quanto “operativa” la scienza si organizza in base ai suoi risultati, intesi come mezzi in vista del procedere ulteriore. Il procedimento a sua volta si adegua alle possibilità di avanzamento da esso stesso dischiuse, e in ciò la scienza trova la ragione ultima della necessità del suo organizzarsi, senza altro scopo che non sia il proprio autopotenziamento. Questa circolarità, resa esplicita dall’operativismo, è la testimonianza della carenza di senso implicita nella scienza, in quanto mera tecnica del progresso del mondo. Ma progresso in che senso?

La mancanza di senso sa mascherarsi anche con belle parole ed elevate intenzioni, non ultima l’incondizionata volontà di sapere che sembra ineliminabile nell’uomo. Jaspers affida alla filosofia il compito di scoprire il senso di questa volontà.9 Heidegger, sulle tracce di Nietzsche, lo ritrova senza esitazione nella volontà di potenza, per la quale tutto diviene materiale della produzione autoimponentesi. La terra e la sua atmosfera divengono materie prime. L’uomo stesso diventa materiale umano impiegato secondo piani prestabiliti. Non soltanto il vivente è scientificamente oggettivato e tecnicamente allevato nello sfruttamento, ma è in pieno svolgimento l’assalto della scienza e della tecnica ai fenomeni della vita come tali. Per Heidegger è l’essenza stessa della vita a essere rimessa alla produzione tecnica:

Già l’elemento animale, in ognuna delle sue forme, viene sempre più completamente sottomesso al calcolo e alla pianificazione (pianificazione sanitaria, allevamento). Ma poiché l’uomo è la materia prima più importante (der wichtigste Rohstoff), ci si può aspettare che, sulla base delle attuali ricerche della chimica, un giorno si possano creare fabbriche per la produzione artificiale di materiale umano. Le ricerche del chimico Kuhn, a cui nel 1951 la città di Francoforte ha conferito il premio Goethe, aprono già la possibilità di regolare in modo pianificato, secondo i bisogni, la generazione di esseri viventi di sesso maschile e femminile.10

L’operativismo produttivo determina l’affarismo come suprema realtà dietro cui si compie il lavoro scientifico. Infatti, scrive Heidegger:

La scienza è operativa nella sua stessa essenza. Ma quanto più la scienza si fa operativa, pervenendo in tal modo alle sue più alte realizzazioni, tanto più grande diviene in essa la minaccia del “mero operativismo”, dietro cui sta in agguato il semplice affarismo, che assume l’apparenza di realtà suprema dietro cui si compie il lavoro scientifico.11

L’affarismo e quindi il denaro, che è il mezzo di scambio delle cose-mezzo, sembrano diventare il senso ultimo di tutte le cose, in quel mercato mondiale in cui si è risolta la terra, che è ancora in grado di ospitare l’uomo, ma solo nelle modalità decise dal suo potere d’acquisto.

Se questo è il volto della civiltà occidentale, il progresso, che la caratterizza e la distingue dalle sorti dell’Oriente, non consiste forse nel rendere sempre più radicale e assoluto il carattere strumentale delle cose, e quindi nel reinserire completamente l’uomo in quella visione “fabrile” del mondo da cui un giorno l’uomo ha preso le mosse per sopravvivere? Progredire significa allora trovare condizioni sempre nuove per sopravvivere? Ma perché sopravvivere? E soprattutto sopravvivere a che cosa? Se è vero, come dice Heidegger, che la scienza e la tecnica altro non sono che “la forma dell’assicurazione dell’agire senza scopo (der Form der Sicherung des ziellosen Tuns)”,12 non è questa l’interrogazione a cui scienza e tecnica non sanno fornire una risposta, e in cui il loro metodo, la via che conduce oltre (metà odón), smarrite le tracce dell’ulteriorità, ritorna in circolo su se stesso? Oggi l’Occidente non può sottrarsi a questa domanda, perché essa si presenta come più radicale della radicalità dei metodi scientifici che stanno alla base della sua civiltà.

1 K. Jaspers, Wesen und Wert der Wissenschaft (1938); tr. it. La natura e il valore della scienza, in La mia filosofia, Einaudi, Torino 1946, pp. 109-110.

2 M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes (1938); tr. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 74.

3 Cfr. Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanismo”.

4 F. Nietzsche, Der Wille zur Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werte (1906); tr. it. La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori, Bompiani, Milano 1992, fr. 466 e 469, p. 265; il frammento 466 è reperibile anche in Nachgelassene Fragmente 1888-1889; tr. it. Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, Adelphi, Milano 1974, vol. VIII, 3, fr. 15 (51), p. 231.

5 M. Heidegger, Das Wesen der Sprache (1957-1958); tr. it. L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 141.

6 Cfr. il capitolo 1: “Il mondo come utilizzabilità e appagamento”.

7 M. Heidegger, Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, vol. I, p. 41.

8 Per l’adeguato svolgimento di questi concetti si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 37, § 2: “La tecnica moderna e la modificazione del concetto di ‘produzione’”; § 3: “La tecnica moderna e la modificazione del concetto di ‘disponibilità’”.

9 K. Jaspers, Die Aufgabe der Philosophie in der Gegenwart (1953-1954), in Philosophie und Welt. Reden und Aufsätze, Piper, München 1963, pp. 9-20.

10 M. Heidegger, Überwindung der Metaphysik (1936-1946, 1951); tr. it. Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 62.

11 Id., L’epoca dell’immagine del mondo, cit., p. 80.

12 Id., Oltrepassamento della metafisica, cit., p. 62.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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