89.
Pensare e poetare: in cammino verso il linguaggio
Il colloquio del pensiero con la poesia mira a evocare l’essenza del linguaggio, affinché i mortali imparino nuovamente a dimorare nel linguaggio.
M. HEIDEGGER, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl (1952), p. 46.
Il linguaggio che meglio rivela la natura del linguaggio, e che più di ogni altro sconfessa la concezione tradizionale del linguaggio come semplice segno, è la poesia. Utilizzando i risultati raggiunti nell’indagine sull’opera d’arte, Heidegger osserva che come l’arte non è imitazione nel senso di riproduzione di un mondo, peraltro già dato e aperto, ma è apertura di un mondo, così il linguaggio poetico non è segno che rinvia a qualcosa che è già dato, ma è il luogo in cui l’essere si dà, si eventua.
“Una sera d’inverno”, come vuole il titolo della poesia di Trakl1 che Heidegger commenta per intero, non è qualcosa che si possa incontrare anche fuori dalla poesia e la poesia si limiti a “richiamare”, perché non “rappresenta” una sera possibile nell’ambito della nostra esperienza. La parola poetica, come l’opera d’arte, è un cominciamento assoluto, è l’aprirsi di un mondo, in cui qualcosa di assolutamente nuovo viene all’essere come “aureo albero delle grazie” che “fiorisce dalla fresca linfa della terra”, come “errare silenzioso del viandante” il cui “dolore ha pietrificato la soglia”, come “nuda sofferenza dell’uomo! Colui che, muto, ha lottato con gli angeli”.2
Tutto questo conduce a pensare il linguaggio come quell’apertura che dischiude l’originario rapporto che lega l’uomo all’essere. Ma che cosa significa “apertura”, o, meglio ancora, l’Aperto (das Offene)? Scrive Heidegger:
Aperto significa qualcosa che non sbarra chiudendo; qualcosa che non sbarra perché non limita; non limita perché è privo di ogni limite. L’aperto è il grande insieme, il tutto di ciò che è senza limiti.3
La limitazione, all’interno dell’apertura senza limite, è prodotta da quel pensare rappresentativo che riduce e conclude il senso delle cose che appaiono nell’ambito circoscritto delle anticipazioni matematiche, che in sé risolvono ogni possibile senso e significato. Il pensiero chiuso della rappresentazione anticipante nasce quando l’uomo non si coglie più nel mondo, ma pone il mondo innanzi a sé e, oggettivandolo, ne dispone in vista del suo impiego, della sua manipolazione, del suo dominio.
Nel chiuso recinto della sua rappresentazione, l’uomo dispone la natura affinché questa soddisfi le sue esigenze, pone a propria disposizione le cose che gli occorrono, traspone quelle moleste, antepone le utili posponendo le meno vantaggiose, si oppone a quelle che ostacolano i suoi intenti, espone le cose che vuol proporre al commercio e al consumo, propone i suoi piani per il conseguimento dei fini che s’è proposto. Così facendo, scrive Heidegger:
In tutte queste forme di porre manipolativo, il mondo è portato dal suo stare nell’ob-stare. L’aperto diviene ciò che sta di fronte (ob-jectum, Gegen-stand) e ruota intorno all’essere umano. L’uomo si pone di fronte al mondo come di fronte a un oggetto e propone se stesso come l’ente che, di proposito, impone tutte queste posizioni.4
A questo punto il linguaggio dice solo la parola del pensiero che calcola, e la cosa, disposta nel chiuso di questo linguaggio, non dice più di sé, ma dice semplicemente la sua corrispondenza al calcolo del pensiero. Dal pensiero calcolante la cosa è proiettata nella rappresentazione che la include.
Il tipo di proiezione è così forte da superare la stessa caducità delle cose. Il loro venir meno è surrogato dalla loro sostituzione. Trattandosi di cose prodotte per l’uso, quanto più rapidamente sono usate tanto più rapidamente occorre sostituirle. Il permanere della cosa non riposa più su se stessa, ma sulla continuità tecnica della sua sostituzione, che, non concedendo vuoti e interruzioni di sorta, dà fiducia e sicurezza all’uomo, che così più non si cura della fine di ogni cosa.
Il venir meno delle cose familiari non toglie all’uomo sicurezza, perché la tecnica ne garantisce la sostituibilità, ponendosi in questo modo come salvaguardia delle cose. Quale meraviglia a questo pun-to che il linguaggio si uniformi a questo tipo di pensiero e affidi a parole come “consumo” e “produzione”, “ritrovato” e “costruzione”, “programma” e “pianificazione” il compito di attenuare l’insicurezza del presente e il timore del futuro.
Là dove ogni rischio non oltrepassa il calcolo economico e la ricerca di mercato, che consentono di calcolare anticipatamente persino i limiti di sicurezza e i margini di rischio, che cosa può dire l’uomo di nuovo che non sia già detto? Quale futuro l’attende che non sia già passato? Che salvezza può chiedere quando tutto è già salvaguardato? Qui si smarriscono le tracce del sacro, e, in questo smarrimento, si ripropone, insospettato, il rischio più grande. Infatti, scrive Heidegger:
L’essenza della tecnica viene a giorno con estrema lentezza. Questo giorno è la notte del mondo, mistificato in giorno tecnico. Si tratta del giorno più corto di tutti. Con esso si leva la minaccia di un unico interminabile inverno. Frattanto non solo è tolta all’uomo ogni protezione, ma le tenebre avvolgono l’integrità del tutto dell’ente. Ogni salvezza (Heile) è tolta. Il mondo diviene allora empio (heillos). E così, non solo resta nascosto il sacro (das Heilige) come traccia della divinità, ma la stessa traccia del sacro, la salvezza, sembra dissolta.5
“Salvezza” è una parola che acquista significato dove qualcosa è in pericolo, dove la protezione manca, dove il rischio incombe, ma non dove tutto è salvaguardato e anticipatamente custodito. Per questo il pensiero che calcola non capisce la parola, e il mondo che esprime non ne comprende il senso. Ma proprio qui si nasconde il pericolo estremo, che è quello insospettato e imprevisto. Il pericolo di non scorgere il rischio che investe l’essenza dell’uomo ridotto a funzionario del pensiero che calcola, e che non vede, nel rapporto con l’ente, altro senso che non sia il suo uso e il suo impiego. A questo proposito Heidegger precisa che:
Il pericolo consiste nella minaccia che investe l’essenza dell’uomo nel suo rapporto all’essere, e non in qualche pericolo momentaneo. Questo pericolo è il pericolo. Esso si nasconde nell’abisso che investe ogni ente. Per vedere il pericolo e rivelarlo occorrono mortali che sappiano giungere più rapidamente nell’abisso.6
Se l’abisso (Abgrund) è l’assenza di fondo, la mancanza di fondamento (Grund), di terreno solido e sicuro, di protezione, all’abisso non può giungere il pensiero che calcola, e calcolando fonda e assicura, ma solo il pensiero che non si cura (sine cura) delle protezioni e, proprio per questo, è securus.
Essere senza cura è possibile solo là dove non si fa il calcolo delle protezioni, dove non ci si affida alla loro presenza o alla loro assenza, dove, nel rapporto con le cose, si arrischia un senso che per il pensiero che calcola è “inaudito”, perché sfugge ai calcoli con cui questo pensiero solitamente si dispone a “udire” il senso delle cose. Dall’inaudito nasce un linguaggio che, scrive Heidegger, è impossibile per:
L’uomo che vive costantemente nel rischio della sua essenza, tra il tintinnio del denaro e il valere dei valori, l’uomo che vive in questo continuo scambiare e contrattare, il “mercante”. Questi, infatti, pesa e valuta di continuo, ma ignora il peso e il rango autentico delle cose, allo stesso modo che ignora ciò che sul suo stesso essere pesa veramente e quindi prevale.7
Affinché le cose possano essere considerate per quello che sono e non per quello che valgono, affinché possano essere sottratte al loro essere oggetto di rappresentazione o risultato di produzione è necessario un pensiero capace di uscire dall’ambito rac-chiuso nella previsione del pensiero che calcola, e di arrischiare nell’aperto dischiuso del pensiero che pensa. Al pensiero che pensa spetta infatti quel dire che non è mero calcolare e numerare, e che, dicendo, pone la cosa in relazioni che, oltrepassando il recinto delimitato del calcolo, chiamano in gioco i mortali e i divini, la terra e il cielo.
Di questo dire sono capaci i poeti, i quali non cantano per questa o per quella cosa, ma per nulla. Questo nulla non è il niente, ma ciò che dal pensiero che calcola è taciuto. “Essi dicono il taciuto”,8 dicono quella totale assenza di protezione che l’uomo tenta invano di mascherare con il calcolo e con il progetto, con la previsione e con l’anticipazione, quando non osa sporgere nell’aperto e arrischiare sensi imprevisti.
Per questo i poeti sono i più arrischianti, “perché arrischiano l’essere stesso e quindi si arrischiano nella regione dell’essere”,9 mentre gli altri si trattengono nel commercio dell’ente. I primi arrischiano il linguaggio, perciò “essi sono i dicenti”10; i secondi usano il linguaggio e si trattengono nei modi di dire. A costoro il linguaggio non dice, il linguaggio serve.
Ora il linguaggio non può essere considerato come semplice mezzo d’espressione per designare le cose, perché è dal linguaggio e nel linguaggio che la cosa (das Ding) è be-dingt, cioè posta nella sua cosità. Ciò significa che l’essere della cosa è nella parola che la nomina e non nel suo essere posta davanti a un soggetto. Questo perché la parola non è la semplice descrizione di uno stato di cose (Sachverhalt), come se questo fosse dato in qualche modo al di fuori di essa, ma è ciò che ospita ogni rapporto, che dischiude ogni senso, che apre ogni possibile significato.
Se oggi le cose si presentano come meri prodotti o come semplici rappresentazioni, ciò non dipende dalla loro cosità, ma dal linguaggio che, limitando l’ambito dei significati a quello previsto dal pensiero rappresentativo, non arrischia altri rapporti che non siano quelli che si lasciano esprimere in termini di produzione e rappresentazione. In questo senso il linguaggio parla, e con il nome de-termina il modo di presentarsi della cosa e quindi ogni suo possibile senso.
Solo se ci si rende conto che il linguaggio è soggetto e non semplice strumento, allora si comprende il senso di quelle espressioni heideggeriane che chiedono di “arrischiare un linguaggio”, di “dire il taciuto”. Esse chiedono che si dischiudano rapporti che vadano oltre a quelli conclusi dal pensiero che calcola, onde consentire alle cose di aprirsi in una presenza che non si risolva immediatamente nella rappresentazione e nella produzione. Esse chiedono che si dischiudano mondi, che si aprano aperture, capaci di concedere al linguaggio un respiro più ampio, e alle cose un senso meno dimentico della loro cosità, della loro appartenenza all’essere. Ma per questo è necessario un pensiero che non si affidi ai suoi calcoli, ma alle parole del linguaggio, anzi, scrive Heidegger:
Un pensiero che prenda dimora presso il linguaggio: nel suo parlare, cioè, e non nel nostro. Solo così possiamo raggiungere quel dominio entro cui può riuscire, come può anche non riuscire, che il linguaggio ci riveli la sua essenza. È al linguaggio che va lasciata la parola.11
Per questo i poeti e i filosofi dialogano tra loro, perché, scrive sempre Heidegger:
Il colloquio del pensiero con la poesia mira a evocare l’essenza del linguaggio, affinché i mortali imparino nuovamente a dimorare nel linguaggio.12
1 G. Trakl, Ein Winterabend (1912-1914); tr. it. Una sera d’inverno, in Opere poetiche, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1969, pp. 200-201.
2 M. Heidegger, Die Sprache (1950); tr. it. Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 31.
3 Id., Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 261.
4 Ivi, p. 265.
5 Ivi, p. 272.
6 Ivi, p. 273.
7 Ivi, p. 290.
8 Ivi, p. 295.
9 Ivi, p. 292.
10 Ibidem.
11 M. Heidegger, Il linguaggio, cit., p. 28.
12 Id., Die Sprache im Gedicht. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht (1952); tr. it. Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 46.