9.
Essere: grammatica ed etimologia di una parola
Che cosa intendiamo con la parola “essere”, “l’essere”? Tentare di rispondere significa trovarci subito in imbarazzo. È un voler cogliere l’inafferrabile. Con tutto ciò, noi siamo continuamente attratti dall’essente, inseriti in esso, portati a considerare noi stessi come degli “essenti”. “L’essere”, per ora, non è per noi che un semplice vocabolo, un termine frusto. Se non altro, bisogna che cerchiamo almeno d’impadronirci di quest’ultimo resto rimasto in nostro possesso. Chiediamo pertanto: che ne è della parola “essere”?
M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica (1935-1953), p. 83.
A un ritorno alla filosofia greca Heidegger era sollecitato da tutta la tradizione speculativa tedesca e in particolare da Hegel e Nietzsche. Sia l’uno che l’altro, infatti, si erano volti al pensiero greco pensando (denkend), mossi cioè non da interessi storiografici, ma teoretici. Il primo vi aveva scorto quel “non ancora” che avrebbe trovato il suo adeguato svolgimento nello sviluppo dialettico del pensiero successivo, il secondo quel fecondo terreno “mitico” da cui sarebbe in seguito nata, in una linea che era a un tempo di continuità e di opposizione, quella posteriore “logicità” che avrebbe caratterizzato il corso razionale dell’Occidente.
Se la storia della filosofia è la storia dello sviluppo dello spirito volto al conseguimento della verità come certezza soggettiva (Gewissheit), si comprende come per Hegel la filosofia greca, che non opera una fondazione adeguata della soggettività, rappresenti un “non ancora”, cioè una semplice fase preparatoria della filosofia dello spirito, che la dialettica provvederà a negare nella sua forma infondata, per mantenerla nel contenuto, mediante quella logica dell’aufheben che conserva negando.
Secondo Heidegger, alla base di questa interpretazione c’è la sostanziale incomprensione del senso greco della verità come alétheia, che non rinvia alla comprensione soggettiva dell’essere da parte dell’uomo, ma a quell’originario manifestarsi dell’essere, quel trarsi da sé dal nascondimento (a-létheia) in cui l’essenza dell’essere è custodita. In questa luce il “non ancora” della filosofia greca non è il “non ancora” che sarà superato dallo sviluppo dello spirito, ma il “non ancora” della manifestazione dell’essere, il “non ancora” del mistero, per il quale nessun pensiero può bastare, perché il mistero è la radice che da sempre sostiene, trascendendo, ogni disvelamento dell’ente in quanto tale. In una parola, si tratta della trascendenza della verità rispetto a ogni determinazione speculativa che della verità è stata data nella storia. In questo senso, scrive Heidegger:
Al nostro pensiero la filosofia dei Greci si mostra in un “non ancora”. Solo che questo “non ancora” è il “non ancora” dell’impensato, e non un “non ancora” che non ci soddisfa, ma un “non ancora” al quale noi non bastiamo e che non soddisfiamo.1
Per quanto concerne l’interpretazione nietzscheana della filosofia greca, e in particolare la sua valutazione della “miticità” del pensiero dei presocratici, Heidegger chiarisce senza mezzi termini che:
La filosofia non è nata dal mito. Essa nasce solo dal pensiero e nel pensiero. Ma il pensiero è pensiero dell’essere. Il pensiero non nasce. Il pensiero è (ist), in quanto l’essere è (west).2
Questa affermazione trova conferma nell’analisi etimologica dei termini. Infatti, ci ricorda Heidegger:
Mŷthos significa: parola che dice. Dire, per i Greci, significa manifestare, far apparire ciò che nell’apparizione appare, ciò che è nel suo evento epifanico. [...] Lógos significa la stessa cosa. Mŷthos e lógos in nessun modo entrano tra loro in conflitto nell’ambito della filosofia, come crede la storiografia filosofica corrente, ma al contrario proprio i primi pensatori greci (Parmenide, frammento 8) usano mŷthos e lógos nello stesso senso; mŷthos e lógos si confrontano e si scontrano solo là dove né l’uno né l’altro può mantenere la sua essenza originaria.3
Credere, come comunemente si crede, che il lógos derivi dal mito, distinguendosi da quest’ultimo per la sua forma razionale, significa non intendere il senso custodito dalla parola e quindi, ancora una volta, trascurare il senso che l’essere affida alla parola. Nella ricerca di questo senso si impegna l’indagine heideggeriana sulla filosofia greca. L’intento è di promuovere una lettura che non sia storiografica ma escatologica, una lettura cioè che sia in grado di scoprire nell’aurora del primo mattino (die Frühe der Frühzeit) il senso nascosto della fine (éschaton) che attende la terra della sera, l’Occidente (Abends-land), dove, scrive Heidegger:
L’essere dell’ente si raccoglie (léghesthai, lógos) alla fine del suo destino. L’essenza dell’essere, durata fino allora, sprofonda nella sua verità ancora coperta. La storia dell’essere si raccoglie in questo congedo. Il raccoglimento nel congedo, in quanto raccoglimento (lógos) nell’estremo (éschaton) della sua essenza durata fino allora, è l’escatologia dell’essere. L’essere stesso, in quanto ha un destino (Geschick), è in se stesso escatologico.4
Nel linguaggio impiegato dalla nostra cultura la parola “essere” è quanto mai oscura nel suo impreciso oscillare tra l’infinito sostantivato (l’essere) e l’indicativo in terza persona (è) che attesta la presenza, l’esserci di qualcosa. La parola ha una forza nominativa inesausta, nominando e specificando questa o quella cosa, diviene vuota, generale, astratta, diviene forma logica e grammaticale, quindi parola esangue e senza eco. Nietzsche, senza reticenze, parla dell’essere come dell’“ultima esalazione di una realtà che svanisce”.5
L’abitudine del suo impiego, osserva Heidegger: “possiede lo strano potere di disabituarci dall’abitare nelle sue prossimità”.6 Ciò accade, ancora una volta, per l’attenzione esclusivamente ontica rivelata dall’Occidente nel corso della sua storia, per cui, nei confronti della determinatezza dell’ente, l’essere scompare come parola vuota. Eppure dell’ente non si può dare conoscenza determinata senza quella prima notazione che consiste nell’avvertire che l’ente è o non è.
La conoscenza determinata delle cose, rispetto alla quale è giudicata indeterminata la conoscenza dell’essere, dipende dunque da una determinata conoscenza dell’essere delle cose. Il rilievo consente a Heidegger di affermare che l’essere è “come qualcosa di massimamente indeterminato altamente determinato”.7 L’affermazione, che la logica ordinaria non può non trovare contraddittoria e quindi irreale, si riferisce invece a qualcosa di ben più reale di tutte le cose, perché è il fondamento della loro realtà. In questo senso Heidegger parla dell’essere come del “più vicino (nächst)”.
A motivo di questa insopprimibile vicinanza noi non siamo in grado di vedere l’essere; essendoci dentro, non possiamo uscire per oggettivarlo. L’essere allora è intrascendibile. La sua presenza è condizione della presenzialità delle cose; come tale l’essere non può essere presente come lo sono le cose, ma, in quanto condizione della loro presenza, l’essere è incondizionato.
Per la differenza sopra specificata, la presenza dell’essere, unica nel suo genere, è assenza rispetto alla presenza delle cose. L’assentarsi dell’essere in occasione del presentarsi dell’ente è ciò che determina quell’oblio dell’essere di cui l’Occidente è la massima espressione. A motivo della sua propria struttura di assente-presente (abwesend-anwesend), la ricerca dell’essere non può che configurarsi come ricerca del suo destino (Geschick) rivelativo-occultativo in cui si raccoglie la storia (Geschichte), caratterizzata da un’antica rivelazione (il pensiero aurorale dei presocratici) e da un oblio, a sua volta obliantesi, di tale rivelazione (la metafisica dell’Occidente).
Il senso dell’antica rivelazione sarà recuperabile solo se si avrà la forza e la capacità di superare il senso espresso dalla nostra grammatica, che, sottoponendo meccanicamente ad analisi il linguaggio, lo entifica e quindi ne oblia la sua costitutiva ontologicità. Di qui la necessità di risalire dalla grammatica all’origine del linguaggio non ancora costretto da regole e schemi.
Il nome (ónoma) e il verbo (rêma), che costituiscono la base grammaticale di ogni costruzione linguistica, sono distinti per la prima volta da Platone8 e da Aristotele.9 All’origine le due voci ónoma e rêma designavano indistintamente il “parlare in generale”, e solo in seguito il loro significato si restrinse per denotare le due principali classi di parole, i cui vari casi e modi furono rispettivamente chiamati ptôma (casus) ed énklisis (declinatio). La traduzione latina di questi due ultimi termini lascia trapelare un senso di caduta, di declinazione rispetto a una perfezione che i Greci pensavano come péras.
Rispetto a casus e a declinatio, péras significa “tenersi ritto”, “mantenersi stabilmente nel proprio limite”, limite che è insieme il proprio compimento (télos). Non a caso “essere” è per Aristotele entelécheia che significa: aver raggiunto il proprio compimento, la propria forma (morphé). Ma collocarsi nel proprio limite, conseguire il compimento, assumere la propria forma significa proporsi, offrirsi nella presenza o e-videnza. La presenza o evidenza di una cosa è il suo eîdos, la sua idéa.
Per questo i Greci, riferendosi alla cosa che si fa vedere, che si es-pone alla presenza, parlano di ousía: ciò che sorge dalla propria essenza. Ousía (essenza) è quindi parousía (presenza), ma nota Heidegger: “La solita povertà di pensiero traduce questa parola con ‘sostanza’, falsandone completamente il significato”.10 Il senso autentico custodito dalla parola greca è rintracciabile, a giudizio di Heidegger, nel tedesco anwesen che significa “presentarsi”, con implicito il riferimento a Wesen o “essenza” di ciò che si presenta. Nel tedesco anwesen Heidegger riscopre il senso originario dell’essere greco pensato come phýsis, dove, precisa Heidegger:
Phýsis è ciò che sboccia da se stesso (come ad esempio lo sbocciare di una rosa), cioè il dispiegarsi aprendosi e in tale dispiegamento fare apparizione, il tenersi in questa apparizione e dimorarvi; in breve: il dominare che sbocciando perdura.11
Lo sbocciare è l’imporsi dominando sul nascosto (léthe); l’essere, pensato come phýsis, è allora non-latenza, non-ascosità, quindi alétheia, verità.
L’emergere dell’ente implica un conflitto perché, scrive Heidegger: “L’ente (das Wesende), ponendosi come distinto nel contrasto, acquista la sua posizione, la sua condizione, il suo rango”.12 È questo il contrasto (pólemos), l’opposizione per cui ogni ente perviene all’identità della sua essenza in quanto si distingue e, distinguendosi, si pone come ciò che non è gli altri enti, né l’essere. Il pólemos, indicato per la prima volta da Eraclito,13 è un conflitto anteriore alla divisione dell’umano e del divino.
Diverso dalle nostre guerre che presuppongono i combattimenti, pólemos è il conflitto originario che fa sorgere i combattimenti, opera le divisioni, ospita l’oppositività che consente all’ente di apparire e mantenersi come quel certo ente e non altro. A questa oppositività originaria Eraclito ha dato il nome di “armonia invisibile” che lega reciprocamente i divisi senza distruggerne l’unità, anzi raccogliendola.14 L’esplicarsi degli enti, infatti, non sopprime l’unità dell’essere, al contrario questa costituisce il raccoglimento (lógos) della loro esplicazione. In questo senso, scrive Heidegger: “pólemos e lógos sono la stessa cosa”15; ma per intendere questa coincidenza è necessario rifarsi ancora una volta a un’etimologia originaria, a quella di léghein che significa “raccogliere”.
Con l’estinguersi della lotta, gli enti divengono cose a disposizione, oggetti di calcolo e uso. Il phaínesthai, inteso, scrive Heidegger: “come apparire nel senso più elevato dell’epifania di un mondo”,16 come dispiegamento di quel sorgere sbocciando in cui è custodito il senso dell’essere come phýsis, diventa visione calcolante, conoscenza dell’uomo. L’ente, invece di permanere nell’essere, permane nell’industriosità dell’uomo che lo man-tiene finché la propria ragione calcolante ha deciso di porre-mano a esso in base all’utilità o inutilità che riveste. L’ente, strappato all’essere, viene così custodito dalla ragione dell’uomo, e, dalle finalità che questa si propone, dipende di volta in volta il suo essere e non-essere.
Ghénesis e phthorá che, nell’essere pensato come phýsis, significavano “farsi innanzi, pervenire nel non-esser-nascosto e, in quanto pervenuto, congedarsi, andar via e ritirarsi nell’essere nascosto”,17 oggi, nell’accezione di nascita e di morte, sono affidati al potere decisionale dell’uomo, che, con la capacità tecnica raggiunta, fa essere e non essere tutte le cose. In questo contesto, scrive Heidegger:
Come è possibile meravigliarsi ancora del fatto che l’essere risulta una parola tanto vuota quando già la forma stessa della parola tende allo svuotamento e a un apparente consolidamento di questo vuoto? Questa parola “l’essere” ci serve di avvertimento. Non ci dobbiamo lasciar attrarre dalla forma verbale sostantivata che è la più vuota, né rinchiudere nell’astrazione dell’infinito “essere”. Se vogliamo pervenire all’essere partiamo dalla lingua.18
L’esame linguistico delle radici che ricorrono nella coniugazione del verbo essere conduce Heidegger al rilevamento di tre fondamentali radici, di cui le prime due, indogermaniche, compaiono anche nelle parole greche e latine, mentre la terza è riscontrabile solo nella coniugazione del verbo germanico sein.
La più antica è “es”, in sanscrito “asus”, che significa “vita”, “vivente”, “ciò che in sé e per sé sussiste”. A essa si riferiscono in greco eînai ed eisí, in latino esse e sunt, in tedesco sein e sind.
L’altra radice indogermanica suona “bhû”, “bhue”. A essa si ricollega il greco phýo che significa “schiudersi”, “imporsi”, “predominare”, donde phýsis, phýein, che, pur nell’impropria traduzione latina che li rende con natura e con nascere, ancora conservano il senso originario di ciò che nasce sbocciando e, così dispiegandosi, si manifesta. A questa seconda radice infatti si rifà anche phaínesthai (manifestarsi, apparire) oltre al latino fui, e al tedesco bin (sono), bist (sei).
La terza radice “wes”, che significa “risiedere”, “restare”, “trattenersi”, sta alla base del tedesco gewesen (stato), war (era), es west (esiste), wesen (essere), Was-sein (essenza) e del latino -sens di præsens e ab-sens; Dii consentes che significa: gli dèi compresenti.19
Da queste indicazioni linguistiche emergono tre significati fondamentali: “vivere”, “schiudersi”, “permanere”. Riscoprirli, oltrepassando quanto di essi oggi permane nel significato astratto di “essere”, significa incamminarsi verso la scoperta di quel senso dell’essere che l’Occidente ha obliato.
1 M. Heidegger, Hegel und die Griechen (1958-1960); tr. it. Hegel e i Greci, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 391.
2 Id., Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 328.
3 Id., Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, Lezione I, p. 44.
4 Id., Il detto di Anassimandro, cit., pp. 304-305.
5 F. Nietzsche, Götzendämmerung, oder: Wie man mit dem Hammer philosophiert (1889); tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI, 3, p. 73. Citato da M. Heidegger in Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p 46.
6 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 92.
7 Ivi, p. 88.
8 Platone, Sofista, 261 a-262 a: “Noi abbiamo un duplice genere di segni che con la voce indicano l’essere. L’uno è chiamato ‘nomi’, l’altro ‘verbi’. Il segno che si riferisce alle azioni si chiama ‘verbo’, mentre il segno che si riferisce a coloro che compiono le azioni si chiama ‘nome’”.
9 Aristotele, Dell’espressione, 16 a: “Occorre stabilire, anzitutto, che cosa sia il no-me e che cosa sia il verbo, in seguito: che cosa sia negazione, affermazione, giudizio e discorso”.
10 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 71.
11 Ivi, p. 25.
12 Ivi, p. 72.
13 Eraclito, fr. B 53. Nella traduzione di Diels-Kranz il frammento recita: “Pólemos di tutte le cose è padre e di tutte è re, e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi”. La traduzione di Heidegger è invece: “L’esplicarsi per via di contrasto (Auseinandersetzung) costituisce per ogni cosa, per ogni cosa presente (Anwesenden), il principio generatore (ciò che produce lo schiudersi) ma (altresì) la predominante custodia. Esso infatti fa apparire gli uni come dèi, gli altri come uomini, fa essere gli uni schiavi gli altri liberi”, cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 72.
14 Eraclito, fr. B 54: “L’armonia invisibile vale più di quella visibile”.
15 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 72.
16 Ivi, p. 81.
17 M. Heidegger, Il detto di Anassimandro, cit., p. 318.
18 Id., Introduzione alla metafisica, cit., p. 79.
19 Ivi, pp. 80-84.