56.

Il nichilismo della scienza e della tecnica

L’essenza della tecnica viene a giorno con estrema lentezza. Questo giorno è la notte del mondo, mistificato in giorno tecnico. Si tratta del giorno più corto di tutti. Con esso si leva la minaccia di un unico interminabile inverno. Frattanto non solo è tolta all’uomo ogni protezione, ma le tenebre avvolgono l’integrità della totalità dell’ente.

M. HEIDEGGER, Perché i poeti? (1946), p. 272.

L’uomo oggi stenta a comprendersi come originaria apertura all’essere. La parola non dice più nulla, l’analisi del linguaggio le ha sottratto la forza di denominare le cose, dissolvendo nell’insignificanza tutti quei termini che l’uso analogico dell’essere offriva per parlare delle cose come di sostanza e accidente, materia e forma, atto e potenza, essenza ed esistenza. In un mondo denominato dalla scienza e dalla tecnica, l’essere sembra aver concluso la sua vuota carriera.

L’estinguersi del senso dell’essere è il dischiudersi del niente come orizzonte che testimonia un’assenza, che memora una mancanza. Questo orizzonte è oggi occupato dalla scienza e dalla tecnica, generate dal pensiero rappresentativo (Vorstellen) che si trova nell’impossibilità di pensare l’essere, perché all’essere ante-pone (vor-stellen) l’ente e nell’ente si trattiene. Quando la scienza dice di volersi occupare solo dell’ente, tratta ciò che è altro dall’ente come niente. Scrive Heidegger:

Ma che strano, proprio nell’assicurarsi di ciò che gli è più proprio, l’uomo di scienza parla, esplicitamente o meno, di qualcosa d’altro. Egli vuole ricercare l’ente soltanto, e del resto niente; l’ente soltanto, e oltre questo niente; unicamente l’ente, e al di là di questo niente.1

Nell’identificazione del suo oggetto, quindi, la scienza si imbatte in ciò che la trascende: l’orizzonte del nulla. A dissolvere questo orizzonte la scienza ha provveduto con la sua logica, che è poi la logica ereditata dalla metafisica classica che ha dissolto nel non-senso il problema del nulla. Parlare del nulla, infatti, significa fare del nulla qualcosa, e il semplice rilevamento di questa contraddizione è parso sufficiente per procedere all’eliminazione del problema. Con lo smarrimento del senso del problema è caduto l’ostacolo che impediva alla scienza di porsi come sapere assoluto. Se infatti a trascendere la scienza è il problema del nulla vuol dire che non c’è proprio nulla al di fuori delle possibilità della scienza. A questo punto, scrive Heidegger:

Se la scienza ha ragione, allora una cosa è certa: del niente la scienza non vuol saperne niente. Questa è dunque la comprensione scientificamente rigorosa del niente. Del niente sappiamo che non vogliamo saperne niente.2

Il disinteresse conseguente alla delimitazione dei propri interessi decide dell’insignificanza di ciò che è altro dall’ente. Tuttavia, proprio per delimitare l’ambito del proprio interesse, la scienza ha bisogno di quell’alterità che, tematizzata, riduce poi all’insignificanza. Infatti, scrive Heidegger:

La scienza non vuol saperne del niente. Eppure è altrettanto certo che dove cerca di esprimere la sua propria essenza, essa chiama in aiuto il niente. Ciò che rifiuta è a un tempo ciò che essa reclama.3

L’essere, che rispetto all’ente è ni-ente, è ciò che la scienza richiede per definire il proprio ambito e che poi dissolve a definizione avvenuta. “Quale duplice essenza si rivela qui?”,4 si domanda Heidegger. A determinare questo equivoco atteggiamento della scienza è “la volontà di assicurarsi la signoria sull’essere dell’ente mediante la riduzione dell’ente a oggetto di calcolo e rap-presentazione”.5 Questa signoria in tanto può costituirsi in quanto si destituisce la relazione essere-ente, in quanto cioè si disancora l’ente dal suo “è”, per inserirlo nell’orizzonte anticipato dalla rappresentazione soggettiva. In questo modo, per la scienza, “l’uomo diventa rappresentante dell’ente risolto in oggetto”.6 E dell’essere, che si sottrae a ogni rappresentazione e a ogni oggettivazione, ne è niente.

Il nichilismo della scienza si costituisce con la traduzione dell’Er-eignis o appropriamento originario che custodisce l’originaria co-appartenenza di pensiero ed essere, in Zu-eignis o appropriamento dell’ente a opera di quel pensiero rappresentativo che, dimentico della sua coappartenenza all’essere, tratta l’essere come niente.

Il nichilismo della scienza, in quanto oblio dell’essere, si trasmette inevitabilmente alla tecnica, quando questa pensa se stessa inscritta in quell’orizzonte di strumentalità e utilizzabilità a cui riduce il senso di ogni ente. In questo orizzonte l’incontro quotidiano con le cose avviene sotto la categoria dell’utile, quindi del rimando (zu = per). Le cose non sono considerate per quello che sono, ma per quello a cui servono. Il “che cos’è (Was ist)” è soppresso dall’“a che serve (Wozu)”.

La domanda utilitaristica fonda quella serie di rimandi che collegano gli enti tra loro, la cui prossimità è decisa dal loro essere-alla-mano (Zu-hand), cioè disposti all’immediata utilizzazione (Zuhandenheit). La prossimità spaziale, utilitaristicamente pre-stabilita, decide del senso e del valore di tutte le cose, che valgono se sono al “loro posto”, cioè in quel luogo che ne rende possibile l’impiego, e se sono in prossimità di altre cose dalla cui collocazione dipende l’utilizzazione dell’insieme.

L’impianto (Ge-stell) pone ogni cosa in relazione all’altra, perché solo dalla relazione rinviante, e non dal semplice essere della cosa, la tecnica trova senso e significato. Il Ge-stell, da originario con-essere di tutte le cose raccolte nell’essere che è lógos, si traduce, mediato dalla tecnica, in quel “connettere” che è “mettere (stellen) insieme (Ge)” in vista dell’appagamento, a cui ogni catena utilitaristica rinvia. Ciò che si sottrae all’appagamento diventa inopportuno, impertinente, nel senso di non-pertinente ad alcunché.

I mezzi tecnici intervengono allora a “togliere di mezzo” ciò che non si inserisce utilmente nei processi di appagamento, e quindi è inutile. L’inutile, che potrebbe scuotere e problematizzare la tranquilla e mastodontica catena tecnica di mezzi utili, non ha forza, perché il suo apparire coincide con il prender congedo dall’utile, che, prima ancora di considerarlo nel suo “è”, lo definisce, in rapporto all’utile, negativamente come inutile e lo toglie di mezzo, nel senso che lo disinserisce dalla catena dei mezzi.

L’essere, che non è mezzo perché “è” e basta, vive nel mondo tecnico sotto la negatività dell’in-utile, sotto l’insegna del non, del niente dunque. In questo modo anche la tecnica vive l’ambiguità della scienza, perché la cura dell’utile può avvenire solo in presenza dell’inutile, da cui l’utile si distingue e prende rilievo. L’essere, per quanto nichilisticamente definito, è presente come condizione perché la tecnica possa definire la positività dell’ente. Questa presenza merita di essere gelosamente custodita.

Qualora infatti il pensiero, dopo aver percorso il proprio impianto tecnico-utilitaristico (Gestell), si venisse a trovare in quell’assenza di senso, determinata dal fuggir via di ogni utilizzabilità, allora la presenza, occultata dall’utilizzabilità, riapparirebbe nell’in-utilizzabilità. In questo caso il pensiero comprenderebbe che qualcosa è utilizzabile innanzitutto perché è, e che una riduzione nichilista dell’essere non può non coinvolgere nel nichilismo qualsiasi costruzione (Gestell), che, in assenza dell’essere, s’è creduto di poter edificare.

Il nichilismo si annida proprio là dove l’uomo pensa di averlo definitivamente bandito. Si annida nel possesso delle cose oggettivate dalla scienza e utilizzate dalla tecnica. Oggettivazione e utilizzazione esprimono infatti un rapporto d’avere, non un rapporto d’essere. L’uomo ha ciò che non è, ciò che è altro da lui e che dall’esterno lo condiziona e lo sollecita. Per impadronirsene l’uomo mette in opera il fare, volto a saturare la distanza, a eliminare l’alterità. Quando l’essere è niente, avere e fare aggrediscono la terra.

L’aggressione ripropone la figura hegeliana del signore che nel servo possiede un essere alienato, un essere che ha la sua realtà non in sé ma nel signore, e dal quale tuttavia il signore dipende per affermare e riconoscere la propria signoria.7 Il mondo della scienza e della tecnica ripropone, nel rapporto soggetto-oggetto, uomo-cosa, la stessa dialettica che anima la figura hegeliana. I due termini infatti si annullano in una dipendenza reciproca, perché se da un lato l’uomo domina scientificamente la cosa, se tecnicamente la possiede e nel possesso esprime la sua signoria, dall’altro è dominato dall’impianto tecnico (Gestell) a cui deve il proprio dominio e la propria signoria.

Qui non si allude alla tecnica che potrebbe sfuggire al controllo dell’uomo, ma alla tecnica che, ponendosi come unico ed effettivo strumento di dominio, riduce l’uomo, che s’è identificato nell’avere, a proprio funzionario. In questo senso, scrive Heidegger: “L’uomo autoimponentesi – lo voglia e lo sappia o no, come singolo – è il funzionario della tecnica”.8

Essere funzionario significa vivere in funzione di..., significa non avere in sé il fondamento del proprio essere, ma nella cosa in funzione della quale si vive e si opera. Nichilismo allora non significa solo che l’essere è pensato come niente, ma che anche l’uomo pensa se stesso come niente, dal momento che ripone la sua essenza nel possesso della cosa da cui non sa separarsi, perché ne andrebbe della sua signoria, e quindi di ciò in cui ha riposto il proprio se stesso.

Qui si nasconde l’essenza dell’alienazione, sempre sottesa alla cura dell’ente, nell’incuria dell’essere. E come potrebbe essere altrimenti? Se l’uomo e l’essere si co-appartengono originariamente (Ereignis), quanto più grande è la cura per l’avere, tanto più lontana si fa la voce dell’essere e più profonda la solitudine dell’uomo.

Solitudine vuol dire clausura, isolamento, perdita di ogni relazione. Eppure il mondo della tecnica pone uomini e cose in relazione tra loro, anzi fonda questa relazione e trae vanto dall’aver sottratto l’uomo da quell’isolamento in cui si trovava nell’età pre-tecnologica. I mezzi di comunicazione, infatti, avvicinano gli uomini e le loro cose; nessuno oggi può comportarsi prescindendo dal comportamento degli altri; l’agricoltore sa della produzione che si compie altrove, lontano da lui, e ne tiene conto come un tempo teneva conto della pioggia e del sole che rendevano feconda o arida la sua terra; l’operaio sa che il suo posto di lavoro dipende dalle direzioni che si vogliono dare alla produzione e al consumo nazionale e internazionale, e se ne occupa come un tempo si occupava di affinare la propria arte. Nessun’età ha mai assistito a una complessità così intensa di rapporti e a un’interdipendenza così stretta come quella realizzata dall’età tecnologica.

Ma i rapporti così instaurati sono rapporti d’avere, non d’essere, rapporti che si concludono nel possesso della cosa e si dischiudono solo nel rinvio a un ulteriore possesso. Il rinvio suppone che il semplice possesso di una cosa non sia sufficiente ad assicurarla, in quanto la cosa ha antecedenze e conseguenze, quindi connessioni costanti che non si possono trascurare se non si vuole che il possesso sia sottratto al primo imprevisto.

Il rinvio richiama il legame che ogni cosa possiede con le altre in quanto tutte sono, ma per l’uomo dell’età tecnologica seguire il rinvio non significa volgersi a (Zu-wendung) l’essere, e quindi aprirsi a quel rapporto con l’essere (Bezug) che originariamente gli si invia (An-wesen), ma significa semplicemente volgersi alle cose per raccoglierle nella clausura del possesso deciso dalla propria volontà. Questa non opera separatamente dall’essere, ma contro l’essere, perché ciò che vuole è l’avere. In questo senso, scrive Heidegger:

L’uomo dell’epoca della tecnica non solo sta fuori dall’apertura originaria (das Offene) e innanzi a essa, ma attraverso l’oggettivazione del mondo, si taglia fuori nettamente dal “puro Bezug”, si separa dal puro Bezug. Con questa separazione si pone contro l’apertura originaria. Questa separazione non è una separazione da..., ma è una separazione contro...9

Siccome il termine contro il quale ci si separa è l’apertura che ospita il rapporto originario di coappartenenza dell’uomo all’essere (Bezug-Ereignis), l’essere si assenta. Il suo inviarsi (Anwesen) non perviene attraverso le cose presenti, perché le cose non interessano in quanto presenti, ma in quanto possedute e utilizzate. Pertanto, scrive Heidegger:

Non è la bomba atomica, di cui tanto si parla, a costituire, in quanto ordigno di morte, l’essenza della morte. Ciò che da tempo minaccia l’uomo di morte – e di una morte che concerne la sua stessa essenza – è l’incondizionatezza del puro volere, nel senso dell’autoimposizione deliberata e globale. Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana. Quando invece la pace di questa pacificazione non è altro che l’agitazione ininterrotta della più sfrenata autoimposizione, orientata ormai su se stessa.10

Trasferendo la propria fiducia dall’essere all’avere, l’uomo attenua la paura che gli proviene dall’alterità delle cose, ed esercitando su di esse la propria signoria trae motivi di sicurezza e ragioni di identità. In questa direzione, la sua volontà, che si afferma nel possesso e nel consumo delle cose, inizia un cammino che è insieme fine a se stesso e senza fine, un cammino dove soggetto e oggetto a un tempo si implicano e si annullano a vicenda in un rinvio reciproco, che non conosce la pace ma, come dice Heidegger, l’agitazione ininterrotta di una volontà orientata ormai solo su se stessa, perché ciò che a questa volontà interessa non è tanto il possesso delle cose, quanto l’esercizio del proprio potere. La volontà vuole se stessa, come il signore la sua signoria, senza la quale ne andrebbe della sua identità. In questo insensato circolare della volontà su se stessa si annida l’intima essenza del nichilismo.

1 M. Heidegger, Was ist Metaphysik? (1929); tr. it. Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 61.

2 Ivi, p. 62.

3 Ibidem.

4 Ibidem.

5 M. Heidegger, Nachwort zuWas ist Metaphysik?” (1943); tr. it. Poscritto a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, cit., p. 258.

6 Id., Die Zeit des Weltbildes (1938); tr. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 86.

7 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807); tr. it. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1963, “Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza: signoria e servitù”, pp. 153-164.

8 M. Heidegger, Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, cit., p. 271.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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