7.
Jaspers: l’Umgreifende e l’operazione filosofica fondamentale
L’essere, col progressivo manifestarsi di tutti i fenomeni che ci vengono incontro, come tale indietreggia. Questo essere che non è oggetto (che è sempre delimitato), né una totalità che si configuri come orizzonte (che sempre limita), noi lo chiamiamo Umgreifende. L’Umgreifende si annuncia come ciò che, comprendendo di volta in volta ogni orizzonte, trascende di continuo tutti gli orizzonti, senza configurarsi esso stesso come orizzonte limitante. [...] In se stesso l’Umgreifende propriamente non ci appare, ma nell’Umgreifende ci appaiono tutte le cose. L’Umgreifende, dunque, si manifesta solo indirettamente quando ci dirigiamo verso di lui, superando e oltrepassando ogni orizzonte determinato.
K. JASPERS, Von der Wahrheit (1947), p. 38.
Il rapporto essere-ente e l’identità-differenza in esso custodita sono espressi nel linguaggio jaspersiano dal termine Umgreifende.1
Il termine designa l’essere nella comprensività delle sue determinazioni, l’essere che afferrando (greifend) circoscrive (um) gli enti e avvolgendoli li com-prende (um-greift). L’Umgreifende corrisponde al periéchon anassimandreo che, dice Jaspers, esprime “quell’onnicomprensività (periéchein) che non può essere compresa da altro (periechómenon)”,2 corrisponde all’ápeiron o positività indeterminata che ospita tutte le de-terminazioni o péras. Le determinazioni sono quelle terminazioni ontiche in cui si esprime la positività dell’essere. Qui è custodita l’identità-differenza tra essere ed ente. L’ente è in virtù della sua identità con l’essere e della sua differenza dal nulla. La copula “è”, che accompagna ogni ente, accoglie questo duplice rapporto che esprime da un lato l’accadere dell’ente all’interno di quell’onnicomprensività (periéchon) espressa dalla positività dell’essere, dall’altro lato l’ente è ente solo se si differenzia dall’essere e, nella differenza, si afferma come ente e non come essere.
Ma come si deve intendere quel non-essere che consente all’ente di affermarsi come ente, e all’essere come altro? La differenza è colta da Jaspers nella struttura della verità come manifestazione (alétheia). La manifestazione non manifesta la manifestazione, ma manifesta qualcosa. Il qualcosa è l’ente, la manifestazione è l’essere che, essendo disponibile per qualsiasi cosa, non si identifica con questa o quest’altra cosa, ma, rispetto a ogni cosa, è altro. L’alterità non è da pensarsi come alterità gnoseologica, quasi che l’essere sia al di là dell’apparire, perché in questo caso l’essere non sarebbe l’apparire di ogni cosa. L’alterità è da cogliersi nella differenza tra l’apparire in quanto tale e ciò che appare. Questa differenza, ovviamente, custodisce l’identità concreta che si realizza, in occasione di ogni apparizione ontica, fra l’ente e il suo apparire.
L’essere quindi non appare in sé (la manifestazione non manifesta se stessa), bensì nell’ente (identità), ma in modo tale che, in occasione dell’apparire dell’ente, l’essere nella sua totalità indietreggia e scompare (differenza), onde consentire all’ente di apparire come esso è. Scrive, infatti, Jaspers:
Noi vogliamo renderci conto dell’essere che, mentre ci si rivela venendoci incontro in ogni oggetto e in ogni orizzonte, pure come tale sempre indietreggia e si allontana. Questo essere noi lo chiamiamo Umgreifende. L’Umgreifende è dunque ciò che sempre e continuamente ci si annuncia, non in quanto ci viene incontro esso stesso, ma in quanto è la fonte di ogni altra cosa.3
L’essere, in quanto si annuncia indietreggiando e in quanto espone sottraendosi, lascia nell’esposto una traccia di sé senza esaurirvisi, e quindi custodisce in sé ciò che, nell’ente esposto, non è espresso. La totalità non esposta nell’ente esposto è ciò che consente a ogni ente di essere quel certo ente e non altro. Ogni ente raggiunge cioè la sua identità accadendo nell’essere come ciò che non è la totalità dell’essere. Dal canto suo l’essere, che come periéchon contiene l’ente (identità), come ápeiron se ne distingue (differenza), nel senso che non termina in quella de-terminazione che, de-limitando, de-finisce ogni ente. Rispetto a ogni determinazione, l’essere è altro. Per questo Jaspers può dire che:
La verità è la manifestazione dell’altro che ci viene incontro. La verità è l’essere nel suo essere divenuto manifesto, il corrispondente greco della parola verità: alétheia si traduce letteralmente con “non-nascondimento”.4
Di fronte a queste espressioni cade l’accusa heideggeriana secondo la quale va riconosciuto a Jaspers il merito di aver ricondotto la filosofia a pensiero dell’essere, il grande impensato nella filosofia dell’Occidente, ma anche il difetto di aver mancato il senso ultimo di questo itinerario che conduce allo scoprimento della verità come essenza dell’essere. Scrive infatti Heidegger:
Un abisso separa il mio pensiero dalla filosofia di Jaspers. Io stimo moltissimo Jaspers come personalità e come scrittore, la sua influenza sulla gioventù universitaria è considerevole. Ma l’accostamento divenuto quasi classico “Jaspers e Heidegger” è il più grande malinteso che circola nella nostra filosofia. Questo malinteso raggiunge il suo apice quando si pretende di vedere nella mia filosofia un “nichilismo”. La mia filosofia non discute solamente, come tutte le filosofie precedenti, sull’essere dell’ente, ma sulla verità dell’essere.5
Da parte nostra osserviamo che nella “verità” Jaspers non solo scopre l’essenza dell’essere, ma anche il luogo in cui è custodita quella “differenza ontologica” così decisiva per il superamento del suo oblio. Per rendersene conto basta leggere quelle pagine di Von der Wahrheit in cui si dice esplicitamente che la verità non si aggiunge all’essere come sua proprietà, ma è lo stesso realizzarsi dell’essere:
La verità è l’essere che solo attraverso il suo diventar manifesto diviene ciò che può essere, cioè l’essere stesso, o, in altri termini: il diventar manifesto non è altro che il diventar reale dell’essere stesso.6
Così pensato, l’essere si pone come fondamento dell’ente. Ma Jaspers si premura di sottrarre la parola fondamento (Grund) a quel senso che le affida la logica causale quando fa dell’essere un ente che fonda o causa gli altri enti, perché:
Di ogni esserci particolare chiedo il fondamento, della totalità dell’esserci torno a richiedere il fondamento. Con questa domanda trascendo dall’esserci all’essere seguendo la via causalitatis. Questa via è senz’altro infruttuosa se, da un procedimento deduttivo che vale nell’ambito dell’esserci, attendo, dalla categoria del fondamento, una risposta sull’essere. Percorrendo questa via si può giungere solo a ipotesi simili a quelle che si ottengono nelle scienze naturali, dove non si va oltre al senso puramente immanente di un mero substrato che sta alla base. Al contrario, trascendere nella categoria del fondamento significa porre quella domanda, in ordine al fondamento dell’essere, che prevede come risposta: l’essere e il fondamento dell’essere sono originariamente la stessa cosa.7
Così sottratto all’equivoco, l’essere come fondamento (Grund) dovrà essere pensato come quel fondo abissale (Ab-grund) che, annunciandosi nell’ente in occasione della sua manifestazione, non vi si esaurisce. Solo così si può intendere quanto segue in ordine alla differenza ontologica:
Il manifestarsi delle determinazioni dell’essere non è ancora il manifestarsi del fondamento. Infatti le determinazioni dell’essere, manifestandosi, si esauriscono in quella manifestazione, mentre il manifestarsi del fondamento, pur realizzandosi col manifestarsi delle determinazioni dell’essere, non si esaurisce in quella manifestazione, ma rimane infinito e incompibile nella sua onnicomprensività. Tener presente questa distinzione è condizione fondamentale per la profondità della nostra coscienza dell’essere. In altri termini: la manifestazione dell’essere nel suo fondamento non si esaurisce nella manifestazione di una particolare determinazione dell’essere che fa la sua apparizione nel mondo, perché in questo caso nessuna differenza ci sarebbe tra l’essere e una sua particolare determinazione, ma l’essere sarebbe pensato analogamente a una delle sue determinazioni. Pertanto non sarà possibile raggiungere l’autentica verità della manifestazione dell’essere limitandosi, con un atteggiamento escludente, a quanto s’è realizzato nell’oggettività concreta, ma sarà necessario, dopo aver spezzato la compiutezza di ogni manifestazione fattasi presente, dirigersi, attraverso questa, verso l’autentica presenza manifestativa.8
L’oggettività degli enti, il loro star di contro (Gegen-standen) dopo essere approdati, grazie all’essere, nel campo della presenza (gegenwartig gewordenen) non esauriscono la presenza dell’essere, ma semplicemente la significano. In questo significare non esaurendo è la loro identità-differenza con e dall’essere. Questa implicanza è espressa dal concetto jaspersiano di trascendenza immanente.
La trascendenza immanente è un pensiero impensabile per quella logica ontica (in Jaspers “onto-logica”) che, avendo occhi solo per l’ente, non è in grado di pensare l’essere nel suo annunciarsi (immanenza) sottraendosi (trascendenza). Per chi riduce l’essere alle sue espressioni ontiche, avverte Jaspers,9 si offrono due possibilità: o il dualismo mondo-Dio che esprime l’assoluta alterità dei due termini, o il monismo panteista che risolve in unità la differenza ontica affermata dal dualismo. In entrambi i casi l’essere è dimenticato e, a motivo di quest’oblio, la differenza (dualismo metafisico) o la sua negazione (monismo panteista) si esprimono come alterità o identità ontica. Nel dualismo l’ente-Dio è pensato come altro dall’ente-mondo, nel monismo l’ente-mondo è pensato come coincidente con l’ente-Dio, nell’uno e nell’altro caso l’essere, obliato nella sua essenza, è ridotto a semplice proprietà di un ente.
La trascendenza immanente, collocandosi al di fuori del mero rapporto ontico che si esprime nelle due possibilità sopra enunciate, recupera il senso obliato dell’essere pensandolo come ciò che si immanentizza nell’ente senza esaurirvisi, e quindi come ciò che trascende ogni determinato ente dall’infimo al supremo. Va da sé che per intendere questo rapporto occorre pensare la trascendenza non come un ente che, avendo l’essere in proprio, ne dispone a suo piacimento, ma come “quella presenza che si annuncia nell’incontro quotidiano che noi abbiamo con gli enti”.10
Una volta compreso il senso di questa presenza, che si annuncia sottraendosi in ogni ente, è impossibile ridurre la trascendenza immanente a una specifica forma di panteismo, perché quest’ultimo, ignorando la differenza ontologica tra essere ed ente, si raccoglie nell’ambito ontico dove identifica l’essere alla semplice somma degli en-ti, la cui sussistenza è affidata a un’inesplicabile necessità, che ne sottrae il libero accadere in cui è custodito il mistero dell’essere.
A questo livello di speculazione è da collocare la differenza tra ontologia e periecontologia intorno a cui si raccoglie tutta la filosofia di Jaspers. Il termine periecontologia può essere reso con: discorso (lógos) intorno a ciò che abbraccia (periéchei) gli enti (tà ónta). Il significato del termine allora emerge immediato: la periecontologia non è lo studio degli enti (ontologia), ma di ciò che, “stando intorno (perí)” agli enti, li abbraccia e li fa essere. Questo quid è l’essere stesso che, come abbiamo visto a più riprese, abbraccia (umgreift = periéchei) le sue determinazioni. Periecontologia e filosofia dell’Umgreifende sono dunque la stessa cosa; in entrambe l’essere è assunto in quella forma circoscrivente o onnicomprensiva che lo distingue da un lato dall’essere parmenideo dimentico delle sue determinazioni, dall’altro da quel quadro di enti creato dalla scienza ontologica che, attenta alle determinazioni dell’essere, dimentica l’essere che le fa essere e le rende significanti.
Rinviando a pagine successive11 la trattazione diffusa dell’essenza della periecontologia e della sua differenza dall’ontologia, qui ci limitiamo a osservare che per Jaspers la voce dell’ontologia è la voce dell’uomo che ha ordinato l’essere in essenze e significati, mentre la voce della periecontologia è la voce dell’essere che, nell’orizzonte dell’apparire, dà all’uomo notizia degli enti. In sede periecontologica, allora, non si ha quella dominazione dell’uomo sull’essere che costringe quest’ultimo a parlare per bocca dell’uomo perché, in sede periecontologica, l’uomo non interpreta ma ascolta, non interviene a determinare i significati ma a creare quello spazio libero (Raum frei) che consente all’essere di parlare senza l’interferenza di altre voci.
Interferenze sono le categorie ontologiche della metafisica, tra cui quella via causalitatis che Jaspers non si stanca mai di denunciare, le categorie gnoseologiche del pensiero moderno che conducono l’essere al di fuori delle possibilità umane, le anticipazioni matematiche della scienza che si trattengono nell’oggettività precostituita. Queste figure hanno fatto dell’uomo occidentale non l’ascoltatore ma il costruttore dell’essere, come documentano quegli edifici razionali che in sede filosofica si sono succeduti da Platone al positivismo.
Dopo i primi filosofi che pensavano muovendo dall’Umgreifende,12 l’Occidente ha smarrito il senso periecontologico dell’essere e, riducendo il sapere fondamentale o dell’Umgreifende a un sapere totale o a un principio da cui far partire una deduzione, s’è preclusa la possibilità di accedere al senso dell’essere tramite quel domandare originario che ne dischiude l’apertura.13
Accade però che parlare dell’Umgreifende che non è oggetto significa inevitabilmente oggettivarlo, e con ciò perdere la direzione filosofica del pensiero che, a differenza di quella scientifica, non tende all’oggettività, ma, dice Jaspers, a quell’irraggiungibile ulteriorità, a cui l’Occidente, nel suo pensiero dell’essere, ha rinunciato, consegnandosi per intero al momento oggettivante del pensiero umano, e quindi alla scienza che considera illusoria ogni pretesa filosofica di un pensiero non-oggettivo. Ontologia, gnoseologismo e scienza sono le tappe della scoperta della natura oggettiva del pensiero e quindi del suo disincanto dalle pretese trans-oggettive della filosofia. Il progresso scientifico conforta la via seguita e relega la direzione del pensiero, che dall’ápeiron conduce all’Umgreifende, a libero gioco compreso tra il mitico e il poetico.
L’obiezione di natura psicologica, che riproduce la situazione descritta da Dante nell’immagine del rapporto di Dio col coro angelico che lo circonda: “parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude”,14 non poteva sfuggire all’attenzione di Jaspers, che, intervenendo a questo proposito,15 osserva che quando l’uomo avverte di non poter conoscere se non ciò che gli si pone di contro a guisa di oggetto, quando coglie sé come soggetto a cui sta di contro l’oggettività, in una parola, quando accerta sé come soggetto della scissione, in quello stesso momento si accerta dell’essere al cui interno questa scissione accade. Sapersi prigionieri nella prigionia è guardarla dall’esterno, è esserne fuori col pensiero. Il mito della caverna ha insegnato questo all’Occidente proprio nel momento in cui l’ha generato. Con ciò, conclude Jaspers:
Il carcere non viene abbattuto, come accade nell’unione mistica che fa precipitare in una realtà irraggiungibile. Ma quando si conosce la prigione, e la si guarda anche dall’esterno, essa stessa viene attraversata dalla luce.16
È di questa luce che si prende cura la filosofia quando si realizza in quell’operazione filosofica fondamentale che consiste nel retrocedere dall’oggettivo (l’oscurità della prigione) all’inoggettivo (la luce) che lo condiziona. Quest’operazione consiste nell’über-hinausdenken, nel “pensare oltre e al di là” di ogni oggettivazione ontica, per avvertire quell’“altro” dall’ente che, pur trascendendolo, lo fa essere e lo manifesta.
L’über-hinaus-denken (il pensare oltre e al di là) di Jaspers corrisponde allo zurück zu Schritt (il passo indietro) di Heidegger. Per entrambi si tratta di passare, indietreggiando, dall’ente all’essere, partendo e superando quella prigionia dell’ente in cui si è trattenuto il pensiero dell’Occidente in tutte le sue fondamentali manifestazioni. Questo ritornare dal sempre pensato (l’ente) al rimasto impensato (l’essere) implica il superamento della metafisica occidentale che, proprio a causa del suo esclusivo trattenersi presso gli enti, ha generato la scienza e ha perduto la filosofia.
Non a caso oggi la filosofia, dopo l’esperienza positivista che ha circoscritto il pensiero alle sole possibilità scientifiche, è in cerca della propria identità, del proprio luogo. La speculazione di Heidegger e di Jaspers sono l’indicazione della via (“Wegmarken” dice Heidegger) che dall’ente conduce all’essere, e dello spazio libero (“Raum frei” dice Jaspers) da cui prende avvio il cammino che si protende oltre e al di là, dove l’essere traluce nascondendosi. Precludersi la via è proibirsi l’essere, o, come con forza afferma Jaspers: è antifilosofia (Unphilosophie) e nichilismo (Nihilismus).17
1 Del termine Umgreifende sono state date numerose traduzioni tra cui menzioniamo ulteriorità (Luigi Pareyson), tutto-abbracciante (Cornelio Fabro), tutto-circonfondente (Renato De Rosa), comprensività infinita (Ottavia Abate), orizzonte circoscrivente (Enzo Paci); i francesi usano i termini englobant, enveloppant. Nella presente trattazione, una volta chiarito il senso, s’è preferito lasciare il termine nell’espressione tedesca, il cui significato emerge dalle parole che lo compongono: “greifen” che significa “afferrare, prendere”, e “um” che è una preposizione che dà il senso della “circoscrizione, della com-prensione”. “Um-greifende” è allora “ciò che, afferrando, circoscrive; prendendo com-prende”. Ciò che è circoscritto e com-preso è, stante il senso dell’operazione filosofica fondamentale, sia il significato oltrepassato, sia l’orizzonte oltrepassante. L’uno è presente con l’altro, ogni significato è presente con la totalità del suo “altro”, e la loro compresenza è appunto l’Umgreifende.
2 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 715.
3 Id., Über meine Philosophie (1941); tr. it. La mia filosofia, in La mia filosofia, Einaudi, Torino 1964, p. 28.
4 Id., Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 458.
5 M. Heidegger, Lettre à Jean Beaufret (Freiburg, 23-11-1945), in Lettre sur l’humanisme, Aubier, Paris 1964, pp. 181-182. Analoghe considerazioni si trovano anche in Anmerkumgen zu Karl Jaspers’ “Psychologie der Welanschauungen” (Recensione critica scritta negli anni 1919-1921, inviata a Jaspers nel 1921 ed edita soltanto nel 1973 dopo la morte di Jaspers); tr. it. Note sulla “Psicologia delle visioni del mondo” di K. Jaspers, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 431-471.
6 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 458.
7 Id., Philosophie (1932-1955): III Metaphysik; tr. it. Filosofia, Libro III: Metafisica, Utet, Torino 1978, p. 989. Implicito è qui il riferimento a Platone che, al contrario, concepiva il Bene (tò Agathón) come fondamento dell’essere.
8 Id., Von der Wahrheit, cit., pp. 458-459.
9 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., capitolo IV, parte I, § 4: “Immanenza e trascendenza”, pp. 1076-1079.
10 Ivi, p. 969.
11 Cfr. il capitolo 34: “Necessità del naufragio di ogni ontologia. Ontologia e periecontologia”.
12 Si veda a questo proposito K. Jaspers, Einführung in die Philosophie (1953); tr. it. Introduzione alla filosofia, Longanesi, Milano 1959, pp. 62-63: “Presa consapevolezza dell’Umgreifende, diviene per noi più facile anche la comprensione di quelle dottrine dell’essere o metafisiche, che nei millenni hanno parlato di fuoco, materia, spirito, processo universale e così via. Esse non si esaurivano in un semplice sapere oggettivo, come esse stesse spesso credettero e per cui vennero successivamente ritenute false. Esse erano in realtà un’espressione cifrata dell’essere, risultante da un pensiero filosofico volto a realizzare la chiarificazione di sé e dell’essere sul fondamento di un certo momento storico dell’Umgreifende. L’errore è stato nell’assumerle come una determinata oggettivazione, facendole valere come l’autentico essere”.
13 Id., Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 147: “Il sapere fondamentale del modo in cui siamo al mondo rinuncia a un sapere totale e assoluto che non esiste. Perciò il sapere fondamentale non può costituire il punto di partenza di una deduzione che voglia derivare tutte le cose. Esso serve piuttosto come strumento per individuare le distinzioni fra le diverse situazioni particolari della ricerca teoretica o della vita pratica. Il sapere fondamentale non può determinare il suo senso con un metodo apprendibile, ma mediante la forza del porre in questione che ogni volta deve portare a trovare nuovamente il diverso particolare. Insegna a evitare confusioni ed errori in quell’essere originario che noi siamo o possiamo essere. Il sapere fondamentale fa luce mediante distinzioni critiche là dove non arrivano concetti sufficientemente definiti. Esso favorisce la chiarezza del nostro vivere. Esso compie una distensione nella nostra coscienza e vi produce l’apertura”.
14 Dante Alighieri, La Divina Commedia (1313-1321), Editrice italiana di cultura, Roma 1959, “Paradiso”, XXX, 12.
15 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 149.
16 Ivi, p. 164.
17 K. Jaspers, Der philosophische Glaube (1948); tr. it. La fede filosofica, Marietti, Torino 1973, Lezione V: “Filosofia e antifilosofia”, pp. 138-164.