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Oltre Marx: la ragione tecnico-scientifica e la vanificazione dell’ipotesi rivoluzionaria
Abbiamo rinunciato (o ci siamo lasciati costringere a questa rinuncia) a considerare noi stessi (o le nazioni o le classi o l’umanità) come i soggetti della storia; ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un solo altro soggetto: la tecnica, la cui storia non è, come quella dell’arte o della musica, una fra le altre, bensì la storia, o perlomeno è diventata la storia nel corso del più recente sviluppo storico; il che trova terribile conferma nel fatto che dal suo corso e dal suo impiego dipende l’essere o il non-essere dell’umanità.
G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (1980), p. 258.
La decostruzione della razionalità del sistema, che è l’intento del cammino percorso da Marx dall’alienazione alla rivoluzione, avviene all’interno della pre-potenza della ragione, perché il comunismo previsto da Marx non è l’“utopistico comunismo primitivo” caratterizzato dalla libera, perché disinteressata, disposizione dell’ente, ma è una forma di razionalità superiore rispetto a quella borghese, in quanto, scrive Marx:
Regolazione veramente razionale del complesso dei rapporti di produzione, sotto controllo collettivo, sulla base dei raggiunti gradi di sviluppo del processo di produzione.1
Analogamente l’idea della libertà rimane sottoposta alla prepotenza della ragione in quanto, secondo Marx, anche dopo questa socializzazione:
Il regno della libertà non ha inizio che al di là della vera e propria produzione materiale, mentre, entro il lavoro determinato dal bisogno e dalle necessità esteriori, essa consiste nel fatto che l’uomo è divenuto interamente sociale e i produttori associati regolano razionalmente il metabolismo nella loro trasformazione della natura.2
La rivoluzione marxiana, allora, non libera l’uomo dalla pre-potenza della ragione, ma, all’interno della prepotenza, dalla signoria del signore. Così facendo la rivoluzione marxiana rende la pre-potenza della ragione ancor più rigorosa, perché le sottrae quel tanto di irrazionalità che ancora la caratterizzava in quanto legata all’arbitrio del signore in possesso dei mezzi di produzione.
Con l’avvento del socialismo, infatti, non solo la produzione diventa più razionale, in quanto non deve più tener conto del profitto del padrone, ma più razionale diventa tutta la società in quanto ha eliminato tutte le contraddizioni che affliggono la società capitalista. Il socialismo di Marx non è scientifico solo per il metodo con cui avviene il superamento del capitalismo, ma è scientifico anche nell’esito, nella società a cui perviene, dove tutto è “razionalmente regolato” sotto il “controllo collettivo”.
Con ciò non si vuole fare un’apologia dell’irrazionalismo, ma semplicemente si vuol avvertire che non ci si libera dalla pre-potenza della ragione scientifica, che pre-determina onticamente l’uomo, mutando la destinazione dell’ente. Dalla pre-potenza di quella ragione l’uomo si libera quando cessa di porre nell’ente la sola ragione del suo essere, come invece gli accade quando si trova in un mondo razionalizzato dalla scienza che, a suo stesso dire, come ci ricorda Heidegger, si occupa solo dell’ente:
Per la scienza ciò che deve essere indagato è l’ente soltanto, e altrimenti – niente; solo l’ente e oltre questo – niente; unicamente l’ente e al di là di questo – niente.3
Ora poi, che l’ente sia definito dal suo valore di scambio, e divenga così “feticcio” che subordina a sé l’uomo (capitalismo), o dal suo valore d’uso e quindi venga più correttamente ridotto a “mezzo” al servizio dell’uomo (socialismo), tutto ciò è senz’altro socialmente molto importante, ma non decisivo agli effetti della vera alienazione, che non è quella che subordina l’uomo all’ente (alienazione denunciata da Marx) ma quella che prevede l’uomo come un soggetto che ha a che fare solo con l’ente.
Qui si nasconde la pre-potenza della ragione, che, delimitando anticipatamente (pre) il campo in cui l’uomo può esplicare le proprie possibilità, gli pre-determina la situazione, e, costringendolo a pensare solo all’ente, e, oltre all’ente, a niente, gli toglie ogni possibilità di desituarsi. In questo modo da “animale non ancora stabilizzato”4 come diceva Nietzsche, l’uomo si vede offrire cento ragioni per stabilizzarsi e per non muoversi più. Infatti, solo in un universo statico, come è appunto l’universo oggettivato dalla scienza, la ragione scientifica può infatti esprimere la sua pre-potenza.
Annunciandosi come rivoluzione politica, la rivoluzione marxiana sottrae il proletariato all’apparato politico del capitalismo, ma non all’apparato tecnologico che, per quanto socializzato, non può derogare dalle sue leggi, senza venir meno a se stesso e alla sua efficienza. La socializzazione, infatti, non ha rappresentato un potenziale liberatorio o un movimento emancipativo, ma un semplice spostamento del rapporto dialettico che non è più, come nel capitalismo, tra lavoro e profitto, ma tra lavoro e quadro istituzionale, la cui razionalità prevede pianificazioni e programmazioni non meno rigide di quelle previste dalla razionalità capitalista.
Il potenziale rivoluzionario rappresentato dal proletariato s’è dissolto nei paesi capitalisti con la riduzione dei negatori del sistema in collaboratori, e in quelli comunisti con la loro elevazione a “controllori sociali”. Nell’un caso e nell’altro la razionalità del sistema s’è rinsaldata, traducendo il potenziale rivoluzionario in strumento di coesione sociale.
Al di sotto del proletariato che collabora con la razionalità del sistema, c’è la folla dei reietti, degli stranieri, dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati, degli invalidi, che però non possono svolgere il ruolo del proletariato storico, perché, a differenza di quest’ultimo che era necessario al sistema come sua forza di produzione, il sottoproletariato non è in grado di ricattare il sistema.
Il sistema, infatti, si è assestato senza aver bisogno di includere i sottoprivilegiati, la cui povertà non coincide con lo sfruttamento, perché il sistema non vive del loro lavoro. Siccome non possono smantellare la razionalità del sistema ritirando la loro cooperazione, i sottoproletari possono tutt’al più promuovere istanze d’appello, che però diventano efficaci solo se conquistano gruppi di classi privilegiate disposte a sottrarre la loro cooperazione al sistema.
Per scongiurare questa eventualità interviene lo Stato con la sua politica assistenziale. Società e Stato, infatti, non sono più in quel rapporto che la teoria marxiana aveva definito come rapporto di struttura e sovrastruttura, perché l’intervento statale serve per reggere la struttura sociale e mantenerne la razionalità che la presiede.
Oggi la politica non interviene più a risolvere problemi pratici, ma solo problemi tecnici all’interno della razionalità del sistema, che è riuscito a collegare gli interessi privati con quelli sociali, al punto che la difesa di entrambi è possibile solo con il mantenimento del sistema nella sua integrità.
Là dove la forma della valorizzazione del capitale privato o del consolidamento del quadro istituzionale coincide con i criteri di distribuzione dei risarcimenti sociali che garantiscono la lealtà delle masse a questa forma, i problemi da risolvere non sono più di natura pratica ma solo tecnica. Sotto il morbido dominio della scienza e della tecnica, che mascherano la prepotenza della loro ragione, facendo credere alle coscienze che i problemi della prassi si possono risolvere solo con il perfezionamento tecnico, si raggiunge lo scopo dell’adattamento passivo dell’uomo al sistema, non più costruito dall’uomo, ma all’uomo pre-costruito.5
Quando il sistema non ha più a che fare con l’homo faber (a cui faceva riferimento Marx), ma con l’homo fabricatus dalla sua razionalità, non ci sono più limiti all’esercizio della sua pre-potenza, perché ogni azione umana è sottoposta alle leggi rigorose del calcolo razionale non solo ai fini della produzione, com’era nell’ipotesi di Marx, ma soprattutto ai fini dell’attuazione di questo calcolo, che sarebbe impossibile senza la rigorosa legalità di ogni accadimento.
È quanto sta avvenendo nell’età della tecnica, dove il calcolo assurge al rango di “legge di natura” che investe tutte le manifestazioni di vita della società, perché non sarebbe razionale quel calcolo che lasciasse margini all’imprevedibilità nel sistema che intende controllare. Ne consegue che, per la prima volta nella storia, l’intera società, almeno tendenzialmente, è sottoposta a un calcolo razionale le cui leggi descrivono e prescrivono le azioni dei singoli individui, ai quali la legalità del calcolo appare come un dato imprescindibile, perché da esso dipendono le condizioni generali d’esistenza.
Parliamo di “condizioni generali d’esistenza” perché nell’età pretecnologica la reificazione dell’uomo, la sua riduzione a cosa avveniva per la volontà di un altro uomo, sia che questi si esprimesse come individuo o come classe, per cui era possibile da parte dei “reificati” individuare nell’abbattimento di quella “volontà” la condizione della loro liberazione.
Tutte le rivoluzioni che scandiscono i passaggi d’epoca nell’età pre-tecnologica erano praticabili perché accadevano, all’interno dell’umano, tra una volontà opprimente e una volontà oppressa. Perché le rivoluzioni esplodessero era sufficiente quella “presa di coscienza”, secondo l’espressione di Marx, capace di segnalare la base irrazionale dell’oppressione e la conseguente razionalità della successiva liberazione.
Ma quando la reificazione, la riduzione dell’uomo a cosa, non è più l’effetto di una volontà, quindi di un evento irrazionale, ma l’effetto della razionalità del calcolo che prevede come unico mutamento della storia quello conseguente a un ulteriore perfezionamento della razionalità, allora non avremo più, come nell’età pre-tecnologica, il dominio dell’uomo sull’uomo, ma il dominio della razionalità del calcolo su tutti gli uomini. Ciò comporta, come scrive Lukács, che:
La differenza che sussiste tra l’operaio di fronte alla singola macchina, l’imprenditore di fronte a un certo tipo di evoluzione delle macchine, il tecnico di fronte allo stato della scienza e alla redditività della sua applicazione tecnica, è una differenza di grado, puramente quantitativa, e non direttamente una differenza qualitativa nella struttura della coscienza.6
Ma quando la struttura della coscienza è divenuta formalmente uniforme perché, da un punto di vista formale, identica è la struttura che chiede al lavoratore la cessione delle proprie capacità oggettivate e cosalizzate e all’intellettuale la cessione delle proprie facoltà non di meno oggettivate e cosalizzate, le une e le altre nelle forme previste dall’apparato tecnico, allora diventa metodologicamente difficile, se non impossibile, percepire la reificazione a cui l’apparato tecnico riduce chiunque in esso si esprime.
Là infatti dove capacità, facoltà, qualità non appaiono più come costitutivi dell’uomo, ma come cose che l’uomo “possiede” ed “esteriorizza” alla stregua di tutte le cose, perché solo come “cose” esse sono funzionali al calcolo razionale dell’apparato, allora, solo annullando la propria soggettività e risolvendola in pura oggettualità, quindi solo al prezzo di una reificazione completa, l’uomo può vivere nell’età della tecnica.
A questo punto non si profilano possibilità rivoluzionarie finché l’uomo non ritorna a pensare. Ma che cosa deve pensare, se la totalità dell’ente è stata fagocitata dal sistema e razionalizzata dalla sua pre-potenza? In una situazione del genere non resta che il ni-ente, che il sistema non controlla, ma che al tempo stesso richiama ogniqualvolta si richiede il senso della sua razionalità e del suo sviluppo, che è sempre sviluppo all’interno del sistema e mai oltrepassamento.
Senza oltrepassamento non c’è vera rivoluzione, ma solo riforma o revisione che, lungi dal distruggere il sistema, lo assestano, lo rendono più idoneo alla sua funzione che è quella di essere strumento di conservazione, per cui l’uomo, man-tenuto nella sua situazione, è nell’impossibilità di desituarsi.
Un sistema siffatto che presume di porsi come la totalità, e che al domani consegna solo l’estensione della propria pienezza, mutila l’essenza dell’uomo, a cui è data la facoltà di totalizzare ma non la totalità, la ricerca ma non il compimento, la trascendenza e non la clausura dell’immanenza. Così mutilato, l’uomo si vede ridotto, come scrive Jaspers, da e-sistenza possibile (mögliche Existenz) a mero Esser-ci (blosse Dasein) che ha nei limiti della situazione (ci), per lui pre-disposta dalla pre-potenza della ragione, il suo ultimo orizzonte.7
L’essenza della vera rivoluzione è nell’oltrepassamento di questi limiti, per cui l’uomo recupera la sua libertà, non come libertà di movimento all’interno del sistema, ma come possibilità di oltrepassamento. La prepotenza della ragione, infatti, si riduce e viene riconsegnata alle possibilità dell’uomo solo se l’uomo, disponendo ancora di un pensiero trascendente, può oltrepassare i limiti stabiliti dalla razionalità del sistema.
In questo senso Jaspers dice che: “la trascendenza esiste solo per l’esistenza”,8 ossia per quel tipo d’uomo che non ha smarrito la possibilità di de-situarsi (ec-sistere) oltre l’ente (trascend-ente), controllato dalla razionalità del sistema, a partire dalla situazione (il “ci” dell’Esser-ci) in cui si trova immancabilmente inserito.
Con la rinuncia a questa possibilità l’uomo rinuncia a un tempo alla propria essenza, alla propria libertà e alla trascendenza. Non si può infatti smarrire la trascendenza e pretendere di guadagnare, proprio con questa perdita, la vera esistenza, perché non ci si può desituare dopo aver fatto coincidere la totalità con l’orizzonte circoscritto della propria situazione.
Nessuna sollecitazione può venire infatti dall’appagamento. E non a caso la razionalità del sistema oggi tende ad appagare tutti, lasciando morire chi ancora non può appagare, onde garantirsi la lealtà di ciascuno nella sua situazione, che è poi quella che, per ognuno, la razionalità del sistema, con la sua pre-potenza, ha pre-disposto.
1 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie (1867-1883); tr. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1964-1968, Libro III, capitolo 2, p. 70 (corsivo mio).
2 Ivi, p. 71 (corsivo mio).
3 M. Heidegger, Was ist Metaphysik? (1929); tr. it. Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 61.
4 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (1886); tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. VI, 2, § 62, p. 68.
5 Per un approfondimento di questa tematica si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 44: “La tecnica e l’impotenza dell’etica”.
6 G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstsein (1923); tr. it. Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano 1971, pp. 127-128.
7 K. Jaspers, Vernunft und Existenz (1935); tr. it. Ragione ed esistenza, Marietti, Torino 1971, pp. 168-177.
8 Id., Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 110.