96.
La verità come via
Noi non viviamo immediatamente nell’essere (Sein), perciò la verità non è un nostro possesso definitivo. Noi viviamo nell’esserci temporale (Zeitdasein), perciò la verità è la nostra via (Weg).
K. JASPERS, Von der Wahrheit (1947), p. 1.
La questione dell’origine, che Cartesio aveva posto nel Cogito come in uno stato di purezza, in un punto di partenza senza presupposti, viene messa in questione da Jaspers con la semplice constatazione che non è possibile concepire un punto di vista puro, perché la realtà temporale in cui viviamo non ce lo consente. È questa la nostra ineludibile effettualità, la pre-comprensione originaria che condiziona ogni comprensione possibile.
Siamo alla grande variante rispetto a tutte le ontologie. Se infatti l’essere conserva la sua centralità e il suo primato, la variazione del punto di partenza determina la variazione del risultato. Il modo di accedervi condiziona l’accesso. Tutto, infatti, accade all’interno di quell’apertura che è l’esserci temporale (Zeitdasein) in cui da sempre si è, e rispetto a cui ogni astrazione volta a prescinderne ricade su se stessa, lasciandosi semplicemente alle spalle l’abisso in cui già è.
L’abisso è “il nostro ineluttabile trovarci nell’essere (Dasein ist die Unmittelbarkeit des Sichfindens im Sein)”1 come originaria apertura all’essere che, nell’orizzonte dischiuso dal nostro esserci temporale, lascia le tracce della sua alterità (Jedesmal ist das Sichfinden verknupft mit dem Spüren des andern).2
L’ineluttabile trovarsi dell’esserci nell’essere e l’annunciarsi dell’essere come alterità dicono da un lato il primato ontologico dell’essere rispetto all’esserci temporale, che prende spicco e profilo rispetto a questa trascendenza immanente; dall’altro, siccome senza esserci nulla acquisterebbe rilievo, perché non ci sarebbe domanda né interrogazione (ohne Dasein ist alles andere nichts),3 non è possibile dispiegare un’ontologia separata dall’interrogazione che la inaugura. In questo senso Jaspers può parlare dell’esserci come di un’origine onnicomprensiva (Das Dasein als umgreifender Ursprung).4
C’è dunque un’origine che condiziona la rivelazione dell’Origine, un Umgreifende che noi siamo (Das Umgreifende, das wir sind) che non concede all’Umgreifende che è l’essere stesso (das Umgreifende, das Seins selbst ist) una manifestazione che non sia già profondamente compromessa. La purezza è il frutto di un’astrazione metodologica che rimuove le condizioni del suo dispiegarsi e del suo radicarsi in un terreno che la predetermina e la oltrepassa. Essa dimentica che quanto le pare principio puro e garantito consegue alla rimozione e all’accantonamento di quell’apertura che dà agli enti significato e toglie loro il diritto di una immodificabile inseità.
Essendo obbligata la via che porta all’essere, siamo sempre su quella strada, e per quanto vari e diversi possano essere i percorsi, non possiamo sfuggire a quell’unica e fondamentale destinazione che è il nostro esserci temporale come apertura non decisa e non voluta, come origine infondata. Volersi tirar fuori dal luogo in cui si è per verificarne il valore e, a cose fatte, rientrarvi, com’è in ogni presunta fondazione ontologica dell’esistenza umana, non è liberazione dal presupposto, ma salto nel vuoto, che lascia dietro l’abisso e prende per buono il terreno su cui ricade. Infatti, se il luogo da cui ci si muove non garantisce se stesso, come può garantire il valore dell’altro?
L’insufficienza di garanzie che circonda l’infondatezza del nostro esserci ci concede solo di permanere nel terreno in cui si è, dove, se non è possibile fondare, non è impossibile descrivere.L’ontologia deve cedere alla geografia, alla grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, che non accorda privilegi ontologici, perché al fondamento (Grund) ha sostituito il terreno (Boden) che, come apertura totale, relativizza le regioni parziali che contiene.
Ma anche il terreno dell’esserci non ha zone franche, e se è punto di vista e non sguardo assoluto, non è punto di vista neutrale. Il terreno a cui si apre non è terreno stabile e sicuro (festen Boden), ma terreno frastagliato, se non addirittura assenza di terreno (Bodenlosigkeit), che si spalanca quando l’interrogazione problematizza quella Gborgenheit, ossia quella superficie che nasconde l’abisso, da cui si tiene lontano il senso comune con le sue ovvie evidenze. Infatti, scrive Jaspers:
Noi viviamo nell’occultamento (Geborgenheit) di queste ovvie evidenze, ma se cominciamo a porre le nostre questioni in ordine alla totalità, allora le ovvie evidenze diventano problematiche e, con la distruzione di quanto finora era rimasto non problematizzato, ci vediamo sottrarre passo passo il terreno su cui stavamo. Infatti, con la prima domanda che poniamo sull’essere, sul sapere e sull’esser-vero comincia il filosofare, ma insieme anche la possibile mancanza di terreno (Bodenlosigkeit).5
Se la fondazione è impossibile, la descrizione fenomenologica è insufficiente, perché la sospensione del giudizio, l’epoché che la inaugura, se ha il merito di sottrarre la verità all’asserzione (Urteil), con la legittimità che le è propria e con la forza metodologica che la caratterizza, resta pur sempre un’opzione circa il modo di comprendere. Per questo, scrive Jaspers:
Non sono da rifiutare né ontologia, né noologia, ma a condizione di vederle radicate nello spazio dell’Umgreifende, che si chiarisce solo in un capovolgimento (Umwendung) del nostro modo di pensare.6
Il capovolgimento consiste nella consapevolezza dell’impossibilità di sciogliere la nostra compromissione con il mondo, per cui ogni distanziamento fondativo dell’ontologia, o noetico della fenomenologia appartengono a quell’intimità. Non c’è infatti fondamento ontologico né impianto eidetico che possano prescindere dall’apertura dell’esserci, che è apertura totale per quel tanto che relativizza le aperture parziali che contiene.
1 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 54.
2 Ivi, p. 64.
3 Ivi, p. 55.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 29.
6 Ivi, p. 209.