12.
La verità come alétheia
Se traduciamo alétheia, invece che con “verità”, con “svelatezza”, allora questa traduzione non è solo più letterale, ma contiene anche l’indicazione che induce a pensare e a ripensare il concetto abituale di verità, come conformità dell’asserzione, in quell’orizzonte non ancora capito della svelatezza e dello svelamento dell’ente.
M. HEIDEGGER, Dell’essenza della verità (1930-1943), p. 144.
Una volta colta l’originaria identità tra pensare ed essere, la verità non si lascia più intendere come corrispondenza tra i due termini (adæquatio rei et intellectus), ma come manifestazione, non-nascondimento (a-létheia) dell’essere. In questa accezione la verità non è una proprietà dell’essere, perché è l’essere stesso che, esponendosi e presentandosi, si sottrae al nascondimento e appare come verità. “Se l’esser presente comporta il non-esser-nascosto, essere e verità sono lo stesso.”1
Nessuna meraviglia quindi che nella storia dell’Occidente il senso originario della verità si sia smarrito in corrispondenza allo smarrimento del senso dell’essere, determinando così un passaggio dalla verità come manifestazione (alétheia) alla verità come corrispondenza del conoscere con il suo oggetto (orthótes, adæquatio), quindi alla verità come certezza di ciò che è posto dalla rappresentazione soggettiva (cogito), e infine alla verità come presenza disponibile nell’orizzonte dominato dalla volontà di potenza che vuole se stessa (Wille zur Macht).
Queste figure derivate dispongono di un certo valore veritativo, ma nessuna di esse può essere assunta come verità originaria. Ciò che le accomuna è la riduzione della verità ad attributo del soggetto che, a seconda delle varie epoche, è rappresentato dalla diánoia aristotelica, dall’intellectus tomista, dal cogito cartesiano e dalla nietzscheana volontà di potenza. In questo modo la verità, da manifestazione dell’essere, è divenuta certezza del pensare e del volere umano, e in questa accezione s’è conservata per tutto il corso dell’Occidente.
Questo cambiamento del luogo (Ort) della verità, dall’essere all’uomo, è da imputarsi a Platone che, ponendo l’alétheia sotto il giogo dell’idea, ha separato in idéa e ideîn i termini originariamente uniti nell’alétheia. Prima di Platone, all’essere, pensato come phýsis, era intimamente congiunto il phaínesthai. Heidegger rintraccia un segno di questa unità originaria nell’etimologia di phýsis e di phaínesthai e nell’equivalenza delle rispettive radici “phu” = “pha”.
L’apparire è dunque dell’essere. Ma l’apparire è tanto alétheia quanto dóxa. Dóxa, prima di significare “opinione” o “gloria” nel senso mondano, significava “tenersi nella luce (phuá)”. In questo senso si parlava di dóxa a proposito della gloria di Dio, che successivamente fu estesa agli áristoi, e infine agli enti che godevano di un certo valore o di una certa particolare considerazione. In questi successivi passaggi si assiste a una progressiva soggettivazione della dóxa, che perde il suo originario significato di “stare nella luce” per assumere quello di “opinione soggettiva”, di “apparenza”, che può anche non essere verace per la particolare prospettiva con cui si coglie ciò che viene alla luce.
Accanto alla non-latenza dell’ente, accanto alla sua verità c’è quindi anche l’apparenza, la dóxa. L’implicanza dei due termini, ricorda Heidegger, costituisce uno dei motivi fondamentali della tragedia greca. Nell’Edipo re di Sofocle, per esempio, Edipo, che all’inizio è il salvatore dello Stato nel pieno splendore della sua gloria e della benevolenza accordatagli dagli dèi, viene allontanato da questa apparenza – che non è una semplice veduta soggettiva che Edipo ha di se stesso, ma ciò in cui si verifica l’apparire del suo esserci – fino a che si verifica la non-latenza o verità del suo essere come uccisore del padre e profanatore della madre. Il tragico, che conduce da quell’inizio glorioso a questa fine orribile, è una lotta continua fra l’apparenza (o latenza della vera identità di Edipo) e la verità (o non-latenza del suo vero essere).2
Ma l’apparenza (dóxa) non si limita a occultare la non-latenza dell’essere (alétheia), ma occulta anche se stessa presentandosi come vero essere. Infatti, scrive Heidegger:
L’apparenza non si limita a far sì che l’ente appaia quello che propriamente non è, essa non si contenta di dissimulare l’ente di cui è apparenza, ma occulta, come tale, se stessa, in quanto si mostra come essere. Dato che l’apparenza dissimula così, essenzialmente, se stessa, occultando e travisando, diciamo giustamente che l’apparenza inganna.Questo inganno risiede nell’apparenza stessa. È solo per il fatto che l’apparenza stessa inganna, che essa può ingannare l’uomo, collocandolo così in un’illusione. Ma l’illudersi non è che uno dei modi, fra gli altri, per cui l’uomo si muove nel triplice mondo ove si intersecano l’essere, la nonlatenza e l’apparenza.3
L’apparire, che fa tutt’uno con l’essere, in quanto manifestazione dell’essere nell’ente, determina nel contempo il nascondimento e l’oblio dell’essere ogniqualvolta, con l’assolutizzazione dell’apparire dell’ente, si riduce l’essere a niente. Nell’apparire si decide dunque la fedeltà o meno all’essere, il richiamo a esso o il suo oblio, che coincidono rispettivamente con la verità dell’essere o con la dóxa. Da quest’ultima dipende l’errore, ovvero quel trattenersi nell’apparenza scambiandola per non-latenza. Se l’apparire manifesta e insieme nasconde l’essere, ne consegue che l’essere si costituisce solo “nell’apparenza e contro l’apparenza”,4 contro cioè la sua assolutizzazione, che ha luogo ogni volta che l’apparire dell’essere è ridotto all’apparire dell’ente, per cui dell’essere ne è niente.
A questo punto occorre de-cidersi, cioè separare la via che conduce all’essere da quella che conduce al non-essere e all’apparenza. A questa decisione ci invita Parmenide là dove, scrive Heidegger, all’inizio del suo poema separa:
1. La via che conduce all’essere, che è in pari tempo la via che porta nella non-latenza. Questa via è imprescindibile. 2. La via che conduce al non-essere, via che in realtà non può essere percorsa; come tale è impraticabile. [...] In base alla meditazione su queste due vie si possono fare i conti con la terza che ha il medesimo oggetto della prima, ma nonconduce all’essere. [...] È la via della dóxa nel senso dell’apparenza.5
La via dell’apparenza presenta una pericolosa ambiguità; gli uomini che la percorrono sono detti da Parmenide “bicefali”. Essa, infatti, pur dando l’impressione di procedere lungo la via dell’essere, trapassa nella “via impraticabile” del non-essere, nel tentativo contraddittorio e alienante di annullare l’essere, perdendosi nell’orizzonte dell’ente. È infatti l’ente che “appare” sulla via della dóxa, e che viene accolto senza distinguere l’essere che, stando di là dall’ente, si annuncia nei suoi sémata.
Identificare l’essere con i suoi sémata, non distinguere cioè l’essere dall’ente, significa avviarsi, senza saperlo, lungo quella “via impraticabile” contrassegnata dall’oblio dell’essere, e quindi dalla sua riduzione a non-essere. La via del non-essere non è altro che la via della dóxa, vista nel suo aspetto più alienante, che è quello dell’ambiguità della manifestazione-nascondimento dell’essere stesso. L’alienazione di coloro che errano lungo la via della dóxa è infatti quella di chi “non sa ritrovarsi” nell’essere in cui è già.
L’essere che viene dalla latenza tende a occultarsi nell’apparenza. Custodirlo “nell’apparenza contro l’apparenza” significa cogliere con Eraclito l’oppositività, il pólemos come struttura dell’essere. L’essere cioè è ciò che viene alla luce (a-létheia) dal suo contrario (léthe = latenza) e ama rifugiarsi nel suo contrario (dóxa = apparenza).
Siccome la verità è un accadimento integrale, la verità ospita anche la sua negazione, che ha luogo quando vi è spazio solo per l’ente e non per l’orizzonte entro cui l’ente accade. Ma concedere spazio solo all’ente, come appunto fa la dóxa, significa, al limite, non concederglielo affatto, perché l’ente è, finché è l’ulteriorità dell’essere che lo fa essere. La dimenticanza di questa ulteriorità è ciò che riconduce la terza via, quella della dóxa, alla seconda, che è “impraticabile”, perché diretta al non-essere. L’ospitalità che la verità concede alla propria negazione è ciò che consente a quest’ultima di dominare dall’interno la verità, assumendo essa stessa l’apparenza di verità. Ciò non determina solo l’oblio dell’essere, ma anche l’oblio dell’oblio che ne rende più difficile il superamento.
A lantháno, che in greco non significa “nascondere”, perché è usato nel senso intransitivo di “stare nascosto”, di ritenersi quasi in un riparo, in una custodia, si collega la forma media epilanthánomai, “oblio”. Alla filologia, che comprende con estrema chiarezza questo passaggio, sfugge il senso custodito, che è quello dell’insediarsi dell’oblio nella dimora stessa della verità. A questo proposito, scrive Heidegger:
L’uomo moderno, che fa di tutto per dimenticare il più rapidamente possibile, dovrebbe pur sapere cos’è l’oblio. Ma non lo sa. Ha dimenticato l’essenza del dimenticare, ammesso che mai vi abbia riflettuto in modo sufficiente, cioè che lo abbia pensato collocandolo nell’ambito essenziale dell’obliatezza (Vergessenheit). Questa indifferenza di fronte all’essenza dell’oblio non dipende solo dal carattere frettoloso della vita moderna. Ciò che accade in tale indifferenza viene esso stesso dall’essenza dell’oblio, che ha la proprietà di sottrarsi e di essere risucchiato nel vortice stesso del suo occultamento.6
Il mondo moderno non capisce l’intimo rapporto che intercorre fra lantháno ed epilanthánomai perché non capisce che occultamento e oblio non dipendono dall’uomo, ma dalla struttura veritativa dell’essere, che si presenta (a-létheia) assentandosi (lantháno), onde consentire all’ente di apparire come esso è. Nell’assentarsi della presenza c’è un senso di “riparo”, di “custodia”; l’assentarsi dell’essere, cioè, custodisce la presenza dell’ente come tale, e nello stesso tempo la propria alterità rispetto alle cose presenti, sì da evitare di essere identificato con l’ente che pure rende presente. Per questo Eraclito dice: “La natura ama nascondersi (Phýsis krýptesthai phileî)”.7
Ma come è possibile questo nascondimento? Non è forse la phýsis ciò che emerge, ciò che sboccia da se stesso come lo sbocciare di una rosa? Phýsis e krýptesthai non sono contrapposti, ma reciprocamente implicantisi. Infatti è il sottrarsi dell’essere ciò che consente il dispiegamento dell’ente, in quanto si custodisce come essere, in quanto si nasconde. La phýsis allora ama (phileî) il léthe nel senso che ne ha bisogno, come del luogo in cui l’essere custodisce la sua identitàdifferenza dall’ente. L’oblio di questa differenza conduce all’identificazione dell’essere con l’ente e quindi alla considerazione dell’essere come niente. In questo oblio è raccolta la storia nichilista dell’Occidente che, dimentica del segreto dell’essere, si vede costretta a errare tra gli enti.
Alla verità come manifestazione si oppongono due tipi di nonverità: la non-verità come nascondimento (die Unwahrheit als Verbergung) e la non-verità come erranza (die Unwahrheit als die Irre).
Se la verità è manifestazione, il non della non-verità è la negazione della manifestazione, il non-disvelarsi. Se la verità è uscir fuori dal nascondimento, se è il non (a-) del nascosto (léthe), il nascondimento è essenziale alla verità come il vinto è essenziale al vincitore. Il nascondimento non è occultamento di questo o quell’ente, ma è quell’orizzonte che precede e accompagna la manifestazione di ogni ente. La verità, infatti, nell’atto in cui manifesta un ente, lo strappa dal nascondimento precedente, e al tempo stesso, proprio perché disvela quell’ente, lascia essere nel nascondimento la totalità degli enti.
Se il non-nascondimento è l’essenza della verità, il nascondimento che precede e accompagna ogni disvelamento veritativo è la non-essenza della verità, è il segreto (Geheimnis) che precede ogni disvelamento, e a cui ogni parziale disvelamento, in quanto oscuramento della totalità, di nuovo si rapporta.
Se l’uomo dimentica il segreto che accompagna il parziale disvelarsi degli enti, per volgersi esclusivamente agli enti che gli sono manifesti, allora si allontana dall’essere ed erra tra gli enti. L’errare (irren) dell’uomo tra gli enti è la non-verità come errore (Irrtum). L’uomo che come ec-sistente è aperto alla totalità dell’ente che rimane nascosto (segreto), obliando il segreto in-siste esclusivamente sull’ente manifesto e, così insistendo, erra tra gli enti (errore).
Ora, come il segreto, in quanto non-manifestazione, è la non-essenza della verità (Un-wesen der Wahrheit) che nella manifestazione consiste, così l’erranza, in quanto attenzione esclusiva agli enti manifesti, nella dimenticanza del segreto dell’essere, è l’anti-essenza dell’essenza della verità (Gegenwesen zum Wesen der Wahrheit). Col disvelarsi di questo o quell’ente si avvera il segreto come nascondimento dell’essere; con la dimenticanza del segreto si avvera l’errore come erranza tra gli enti manifesti. L’essenza della verità è quindi sospesa tra la non-essenza della verità (oscurità come segreto) e l’antiessenza della verità (oscurità come oblio del mistero e conseguente errare tra gli enti).
Siccome all’essere appartiene un nascondersi che, diradando, lascia trasparire la luce, l’essere appare originariamente nella luce di un sottrarsi che nasconde. Il nome di questa radura che lascia trasparire la luce è alétheia.8
L’incomprensione dell’alétheia rende gli uomini simili agli asini, di cui parla Eraclito, che “prendono la paglia piuttosto che l’oro (ónous sýrmat’ àn helésthai mâllon è krusón)”.9 Ciò capita perché i più (hoi polloí) cercano il vero nella dispersione del molteplice anziché nella semplicità dell’Uno che, dispiegando il molteplice, si ritrae. Alla base di questo comportamento c’è una motivazione: l’Uno non si lascia prendere perché nel dispiegare si ritrae, mentre gli enti dispiegati, essendo esposti e a disposizione, si lasciano manipolare, assecondando così la volontà di potenza che anima quanti hanno dimenticato e perso di vista la potenza dell’essere.
Sulla traccia di Eraclito, Heidegger ha così mostrato l’essenzialità del léthe, che non è pura dimenticanza umana, ma alterità dell’essere che è assente rispetto alla presenzialità delle cose. Questa alterità è intesa, con Eraclito, non come lontananza dell’essere rispetto all’uomo, ma come eccessiva vicinanza. In questo senso, scrive Heidegger:
Noi crediamo troppo facilmente che il segreto di ciò che è da pensare sia ogni volta qualcosa di remoto e giaccia profondamente celato sotto strati di occultamento difficilmente penetrabili. In realtà esso ha il suo luogo essenziale nella vicinanza che avvicina ogni essere presente che avviene e che custodisce ciò che è avvicinato. Ciò che costituisce l’essere della vicinanza, per il nostro modo di rappresentazione abituale che si immerge tutto in ciò che è presente e nel suo impiego, è troppo vicino perché sia per noi possibile, senza preparazione, sperimentare e pensare in modo adeguato rettamente la potenza della vicinanza.10
Essendo noi essenzialmente e strutturalmente nell’essere, l’essere ci è troppo vicino (zu nächts) per poterlo mettere a fuoco oggettivandolo, così come si oggettivano tutte le cose. L’impossibilità dell’oggettivazione dell’essere, se da un lato esprime la sua intrascendibilità, dall’altro richiede un modo d’accostamento differente da quello proprio della nostra abituale rappresentazione che, vincolata al piano oggettivo, non è in grado di cogliere ciò che non è oggetto. Per questo è necessaria una preparazione, che è possibile solo nella filosofia originata dalla meraviglia. La meraviglia dischiude l’alétheia perché allontana dall’abitualità astratta dell’attenzione ontica che, dice Heidegger: “possiede lo strano potere di dis-abituarci dall’abitare nell’essenziale”.11 Essenziale è la scoperta del léthe che custodisce il movimento dialettico intrinseco all’emergere del vero come a-létheia.
1 M. Heidegger, Nietzsche Wort “Gott ist tot” (1943); tr. it. La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 220.
2 Id., Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 116.
3 Ivi, p. 118.
4 Ivi, p. 117.
5 Ivi, pp. 120-121. Il riferimento è a Parmenide, fr. B 2, B 6.
6 M. Heidegger, Alétheia (Heraklit, Fragment 16) (1943); tr. it. Alétheia (Eraclito, frammento 16), in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 180-181.
7 Eraclito, fr. B 123.
8 M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit (1930-1943); tr. it. Dell’essenza della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 156.
9 Eraclito, fr. B 9.
10 M. Heidegger, Alétheia (Eraclito, frammento 16), cit., p. 191.
11 Id., Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, vol. II, Lezione II, p. 22.