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La falsa coscienza e la pretesa inoltrepassabilità dell’apparato tecnico-scientifico
Non si può attendere dagli scienziati la soluzione delle difficoltà che sono venute al mondo per opera loro. Se essi prendono la parola su tali questioni non sono più un’autorità in forza della loro scienza, ma sono solo uomini che, come tutti gli altri, sono chiamati a collaborare. A essi il mondo dà la cognizione dei fatti e delle possibilità della tecnica, ma non deve dar loro l’ultima parola. Aspettarla da loro dipende dalla nostra moderna superstizione scientifica, che nasce da quella falsa coscienza, la quale pensa che la nostra vita sia da basare sulla scienza e sia da dirigere con la scienza.
K. JASPERS, La bomba atomica e il destino dell’uomo (1958), p. 297.
La tragica conclusione della Seconda guerra mondiale, con la distruzione atomica di Nagasaki e Hiroshima, non è per Jaspers solo un fatto storico, ma un indicatore degli esiti nichilistici a cui può condurre lo sviluppo tecnico-scientifico lasciato a se stesso. E questo perché, scrive Jaspers:
La bomba atomica, cioè la possibilità della totale distruzione, sembra incarnare storicamente la potenza del nulla in questa età. Per questo diventa tema di pensiero. Il pensiero si rifugia nella domanda: che ne è dell’uomo se il rischio che nel tempo gli è assegnato lo annienta?1
Di fronte a questa domanda la scienza si ritira in quella che Jaspers chiama la sua “falsa coscienza” che sottrae la scienza alle sue responsabilità, e quindi svolge nei suoi confronti una funzione protettiva. La scienza, infatti, assume responsabilità non in quanto scienza, ma in quanto superstizione scientifica, in quanto cioè pretende di porsi come visione totale del mondo, come assoluto, passando impropriamente dal piano fattuale, in cui dovrebbe trattenersi, al piano eidetico dove non ci si limita a constatare i fatti, ma si esprime un giudizio su di essi, se ne ricerca il senso, e trovatolo, lo si offre “scientificamente”, cioè sotto la specie di una conoscenza oggettivo-fattuale, ma in realtà con intendimenti pragmatici e finalizzati.
Ora, dopo che la scienza s’è posta sul piano eidetico come visione totale del mondo, in grado di esprimere un giudizio su di esso e sulle direzioni da seguire, non può, di fronte alla minaccia, ritirarsi asetticamente sul piano oggettivo-fattuale che è di sua competenza, perché ciò equivale a lanciare il sasso e poi ritirare la mano.
Oltre alle responsabilità che la scienza si assume quando diventa impropriamente superstizione scientifica, ci sono anche responsabilità che la scienza si assume in proprio, quando dice di sé: “mi limito a fare scienza”. Infatti che si debba fare scienza è qualcosa che oltrepassa le categorie oggettive e fattuali della scienza stessa, è qualcosa che non risulta dai dati di fatto, ma da una decisione della coscienza assoluta (absolute Bewusstsein oder Bewusstsein des Seins) che, come originaria apertura all’essere, decide di rapportarvisi con quella coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt) o intelletto intersoggettivo da cui nasce la scienza.
Che la scienza sia da fare e da non fare non lo può dire la scienza, ma l’uomo, e non l’uomo-oggetto con cui la scienza solitamente ha a che fare, ma l’uomo-soggetto per il quale il fare è un dischiudere le proprie possibilità, un manifestare il proprio essere. Disancorato dalla struttura originaria dell’essere e dell’apparire, il fare viene positivamente valutato dal successo. E non a caso proprio il successo è il criterio a cui fa riferimento il sociale quando giudica la scienza un fatto indiscutibilmente positivo, salvo poi trattenersi di fronte al suo impiego distruttivo, e domandarsi se valeva la pena di inseguirne il progresso. E questo perché, scrive Jaspers:
Una attività cieca, prigioniera dei suoi scopi e in pari tempo smisuratamente accresciuta, porta al nulla. La svolta del nostro destino sarà la conseguenza del criterio, per cui qualunque tecnica, qualunque potere realizzativo, qualunque progresso non bastano. L’uomo deve inserire scienza e tecnica in qualcosa di più comprensivo. Solo al limite del nostro fare incontriamo il compito davvero serio del nostro pensiero. La nostra epoca deve ancora imparare che non tutto è da fare.2
Dal momento in cui la scienza e la tecnica non garantiscono più soltanto le condizioni materiali della produzione e dello sviluppo della società, ma anche quelle della sua distruzione, alla scienza non si può più lasciar fare, ma si deve decidere che cosa deve fare. Sottrarla a un simile giudizio, con la scusa che la scienza non dice che cosa deve o non deve esser fatto, ma semplicemente che cosa può o non può essere fatto, significa consegnarla senza riserve alla volontà di potenza e farne senz’altro uno strumento di distruzione.
La avalutatività, che solitamente si riconosce alla scienza, è, tra le forme della falsa coscienza, la più diffusa e senz’altro la più pericolosa, perché consente agli scienziati di sviluppare liberamente la scienza, esonerandoli dal controllo del suo impiego.3 Questo, non potendo essere esercitato dall’incompetenza della pubblica opinione, è esercitato direttamente dal potere che, tra i vari poteri, dispone, per delega della pubblica opinione, anche del potere di morte. E non è forse il potere di morte l’attributo più alto della sovranità? Se l’umanità si rifugia nella falsa coscienza e decide di lasciar essere lo sviluppo incontrollato della scienza, allora, avverte Jaspers:
L’umanità non può sottrarsi all’alternativa che prevede o la bomba atomica come distruzione della vita pura e semplice o il totalitarismo come distruzione della vita degna di essere vissuta. In un caso o nell’altro si ha a che fare con un’umanità già decaduta dal proprio diritto alla vita.4
La vita, infatti, può essere salvaguardata solo dall’agire umano, inteso come scelta delle finalità da perseguire, e non dal semplice fare, inteso come conseguimento dei risultati a partire dalle procedure tecniche avviate. Questa distinzione, che riproduce quella formulata dal pensiero greco antico tra azione (prâxis) e produzione (poíesis), afferma il primato dell’agire sul fare produttivo, e di conseguenza il primato dell’etica e della politica, che fanno riferimento all’agire, rispetto alla tecnica in cui si esprime il fare produttivo.5 Oggi, invece, scrive Jaspers:
Si pensa di trovare salvezza mediante un superamento tecnico della tecnica, quasi che l’agire dell’uomo, da cui è richiesta la tecnica, possa a sua volta sottostare a una guida tecnica. Nasce da qui quell’attesa illusoria che le condizioni di pace possano essere create tecnicamente, senza un autentico mutamento dell’intera vita.6
È questo, tra i miti prodotti dalla falsa coscienza, il più seducente. Esso mira a far scomparire dalla coscienza dell’uomo la distinzione tra problemi tecnici e problemi pratici (politici, sociali, morali), sì da indurre ricercatori e pubblico ad aspettare dalla scienza e dalla tecnica la soluzione dei problemi posti dalla prassi, mediante un crescente controllo scientifico dei fattori che li determinano.7
Si ritiene che non sia più necessario impegnarsi per modificare l’êthos dell’uomo, il suo modo di soggiornare nel mondo, ma sia sufficiente intervenire con gli strumenti della scienza e della tecnica, che, astenendosi dal giudizio sulla condotta corretta o scorretta dell’uomo, la aggirano con una adeguata strumentazione tecnica che, prescindendo dalle condotte, consente di risolvere i problemi in modo tecnico. Illuminanti sono a questo proposito gli esempi del tecnocrate A.M. Weinberg:
Se gli uomini hanno bisogno di più acqua, gli si dà appunto acqua (magari con un impianto di desalinizzazione), invece di esigere che ne consumino meno. Se la gente vuole proprio guidare l’auto in stato di ubriachezza, gli si danno automobili che non provochino ferite anche in caso di grave incidente.8
In questo modo i problemi che la società pre-tecnologica interpretava come sociali o morali, oggi pensa di poterli risolvere traducendoli in problemi tecnici. A questo punto gli imperativi categorici si lasciano scomporre dalla scienza e dalla tecnica in imperativi ipotetici di natura strumentale, per cui l’eticità del “tu devi” si risolve nell’implicanza conoscitiva “se vuoi... questi sono i mezzi”. Come un tempo la filosofia greca, così oggi la falsa coscienza della scienza identifica la virtù (areté) con la conoscenza, e così risolve il problema etico in un problema di competenza tecnico-scientifica.
A un simile risultato si perviene percorrendo questa serie di passaggi: i comandi etici sono asserzioni che il gruppo sociale impone ai suoi membri; il fondamento della loro obbligatorietà risiede nel fatto che sono volizioni del gruppo per la difesa di se medesimo. Il fondamento dell’etica è quindi sociale. L’etica non si studia in filosofia, ma nella società dove ha luogo il contrapporsi delle richieste. Per risolvere i conflitti sociali che nascono da questa contrapposizione non è necessario l’impiego della violenza, basta la chiarificazione scientifica delle motivazioni che contrappongono le richieste. La chiarificazione è da operarsi in vista delle finalità che il gruppo sociale si prefigge.
Non si tratta più di vedere se la proprietà privata è sacra o è un furto, ma di capire quali finalità sono sottese a questo problema impropriamente formulato in termini morali. Se la finalità è quella di assicurare a tutti un benessere materiale, allora tocca all’analisi scientifica chiarire, sulla base degli strumenti tecnici a disposizione, se questa meta sia raggiungibile in maniera migliore mediante l’iniziativa privata o mediante la nazionalizzazione dei mezzi di produzione.
In questo modo un problema che era “pratico”, cioè morale e sociale solo perché male impostato, si lascia risolvere mediante la sua formulazione in termini scientifici.9 Così facendo, prosegue la falsa coscienza, la scienza non prevarica, non dice ciò che l’uomo deve o non deve fare. Essa è consapevole di questa sua incompetenza, semplicemente si pone al servizio dell’uomo per chiarificare le sue volizioni, le finalità che si propone, i mezzi a disposizione per raggiungerle percorrendo la via più breve, evitando i conflitti che nascono solo da una scorretta formulazione del problema e da un’ignoranza dei mezzi a disposizione.
Di fronte a un’ipotesi così seducente non c’è alcuna difficoltà a concedere che i problemi morali non sono di natura filosofica ma sociologica, non nascono cioè da esigenze incondizionate, ma dal contrapporsi di valutazioni diverse che emergono all’interno del gruppo sociale che di volta in volta si afferma. Del resto, ce lo ricorda Heidegger:
L’“etica” appare per la prima volta, insieme alla “logica” e alla “fisica”, nella scuola di Platone. Queste discipline nascono nel tempo in cui il pensiero si fa “filosofia”, la filosofia si fa scienza (epistéme), e la scienza diventa una cosa di scuola e una pratica scolastica. Nel passare attraverso la filosofia così intesa, nasce la scienza e perisce il pensiero. Prima di questo tempo, i pensatori non conoscevano né una “logica”, né un’“etica, né la “fisica”. E ciò nonostante il loro pensiero non è né illogico né immorale.10
Eppure, anche se non c’è alcuna difficoltà a concedere che spesso i problemi sociali possono essere risolti più facilmente e in tempi più brevi dalla scienza che non dall’etica o dalla politica, alla natura di questi problemi la scienza non è estranea, come invece ritiene di essere e come la sua falsa coscienza proclama. La scienza infatti non è, come dice, semplice strumento nelle mani dell’uomo per il risolvimento dei problemi che di volta in volta si presentano, perché a generare questi problemi è la scienza stessa e il suo sviluppo.
L’uomo che nasce oggi si trova infatti inserito, volente o nolente, in una situazione storica, così fortemente condizionata dalle componenti scientifiche e tecniche, che ogni possibilità di desituazione è quasi nulla.11 Se la coscienza dell’uomo è principio di desituazione, di trascendimento, questa coscienza ha scarsissime possibilità d’espressione, perché i problemi che nascono per mantenersi nella situazione sono così numerosi e così ingenti da occupare tutta la vita dell’uomo, sì da non consentirgli alternativa alcuna. La scienza, cioè, non è semplice strumento per il risolvimento dei problemi dell’uomo, ma ha generato questi problemi al punto che all’uomo non basta una vita per risolverli.
Il progresso scientifico e tecnico, infatti, ha strutturato la società in termini così rigidi e uniformi che desituarsi significa essere immediatamente esclusi dalla comunità, che diventa inospitale per quanti non si adeguano alla sua forma di “civiltà”, che è poi la forma che la scienza e la tecnica le hanno dato. Le componenti scientifiche e tecniche che intervengono nella determinazione dell’ordine esigenziale che caratterizza questa civiltà sono così elevate da richiedere all’uomo l’impiego di tutto il suo tempo e di tutte le sue forze per la conservazione della propria situazione.
È vero che la scienza dice solo ciò che è, e non ciò che deve essere. Ma il “ciò che è” è stato da essa determinato in termini così rigidi e complessi che, per esserci, occorre abbandonare ogni dover essere o poter essere altrimenti. Altrettanto vero è che la scienza non indica i problemi da affrontare, ma si limita a risolvere quelli che l’uomo le sottopone, ma i problemi dell’uomo d’oggi sono così condizionati dallo sviluppo tecnico e scientifico, che la scienza non può più presentarsi sotto l’aspetto innocente o neutrale del semplice strumento, perché è orizzonte onniavvolgente, o come dice Jaspers è Umgreifende:
Mai nella storia la scienza ha determinato in modo così decisivo, come oggi e nei due ultimi secoli, gli avvenimenti del mondo e il comportamento delle singole persone. [...] La sua perfezione, la sua portata e la sua influenza, mai prima d’ora raggiunte, hanno fatto di essa il punto d’orientamento dell’uomo, il suo Umgreifende.12
In questo non riconoscersi per quello che è, la scienza nasconde la sua falsa coscienza. Incanta l’uomo disponendosi come strumento che accresce il suo potere, mentre in realtà gli riduce le possibilità custodite dalla sua essenza in quanto essenza situata, che, a differenza di tutte le altre, è però capace di desituarsi, di aprirsi al trascendimento.
1 K. Jaspers, Die Atombombe und die Zukunft des Menschen (1958); tr. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, il Saggiatore, Milano 1960, pp. 529-530.
2 Ivi, p. 4.
3 Sulla non neutralità della scienza e della tecnica che si sentono esonerate da ogni giudizio di valore quando invece sono da sempre inscritte nella volontà di potenza si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 54, § 1: “La tecnica come assoluto astorico”.
4 K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, cit., p. 281.
5 Sul rapporto tra “agire” e “fare” e quindi tra etica e tecnica si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 44: “La tecnica e l’impotenza dell’etica”.
6 K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, cit., p. 4.
7 Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 44, § 8: “Il tramonto del presupposto umanistico e la sostituibilità dell’etica con la regolazione tecnica dei comportamenti”.
8 A.M. Weinberg, Quick Technological Fixes, in “Kursbuch”, n. 14, 1968, pp. 28-32.
9 Si veda a questo proposito H. Reichenbach, The Rise of Scientific Philosophy (1951); tr. it. La nascita della filosofia scientifica, il Mulino, Bologna 1961, e in particolare il capitolo 17: “La natura dell’etica”.
10 M. Heidegger, Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 305.
11 Questo tema ha il suo adeguato svolgimento in U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 54: “Il totalitarismo della tecnica e l’implosione del senso”.
12 K. Jaspers, Wesen und Wert der Wissenschaft (1938); tr. it. La natura e il valore della scienza, in La mia filosofia, Einaudi, Torino 1946, p. 109.