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Il pensiero come lógos
Lungo è il cammino più necessario del nostro pensiero. Esso conduce verso quel semplice che rimane da pensare sotto il nome di lógos. Per ora ci sono solo pochi segni che ci indicano il cammino.
M. HEIDEGGER, Lógos (Eraclito, frammento 50) (1951), p. 141.
Il pensiero aurorale, osserva Heidegger, fin dal suo inizio ha connesso pensiero ed essere:
La prima scoperta dell’essere dell’ente, dovuta a Parmenide, “identifica” l’essere con l’apprensione intuitiva dell’essere: tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai.1
L’identità parmenidea di pensiero ed essere, qui richiamata da Heidegger, risulta di difficile comprensione per chi, nell’ambito dell’antropologia e del senso comune, è abituato a considerare il pensiero come un attributo dell’uomo. Come l’uomo ha il corpo, così ha il pensiero. Ad avvalorare questa convinzione è la stessa definizione greca: ánthropos: zôion lógon échon, dove il pensiero (lógos) è inteso come una proprietà posseduta (échon) da quell’animale (zôion) che è l’uomo (ánthropos).
Come animal rationale, l’uomo col pensiero accoglie l’essere, e, ponendoselo di contro con le categorie logiche, se lo rappresenta a guisa di oggetto. Questa conclusione, che esprime il senso del soggettivismo moderno,2 è il frutto di una lenta, ma continua e graduale incomprensione del rapporto esistente tra essere e pensiero, il cui inizio è da ricercarsi nella degradazione del lógos a “discorso”, “proposizione”, “parola”, “logica”.
La logica è nata come scienza del pensare, dottrina delle regole e delle forme del pensato. In essa tutti coloro che pensano trovano il loro sostanziale accordo. Nella comunicazione, per destituire di valore il pensiero altrui, si dice che “non è logico”, per rafforzare il proprio si ricorre abitualmente all’espressione “è logico”. La logica è considerata da sempre una scienza sicura, degna di fiducia. Anche se qualcuno rovescia l’ordine di alcune parti tradizionali, qualcun altro esclude il valore di determinati procedimenti, altri ancora recano aggiunte desunte dalla gnoseologia e dalla psicologia, nel complesso domina una confortante unanimità che rassicura e libera da ogni preoccupazione circa l’essenza del pensare.
Custodito e protetto dall’impianto logico, l’uomo occidentale ha perduto oltre al senso dell’essere anche quello del pensare. Alla domanda: “Che cosa significa pensare?” non è in grado di fornire altra risposta se non l’esposizione delle regole logiche che, dice Heidegger: “sono state inventate dai maestri di scuola e non dai filosofi”.3 La logica infatti nacque quando la filosofia greca, giunta alla sua fine, si trasformò in un affare di scuola, di organizzazione, di tecnica. E, scrive Heidegger: “Questo accadde quando l’eón, l’essere dell’ente, fu inteso come idéa e, come tale, divenne ‘oggetto’ dell’epistéme”.4
La logica, come scienza delle idee, e quindi delle proposizioni a cui le idee vengono affidate secondo regole, nacque quando la separazione tra essere e pensare s’era già compiuta, per cui la logica e la sua storia non sono in grado di dir nulla né di fornire alcun chiarimento circa quell’identità tra pensare (noeîn) ed essere (eînai) che Parmenide aveva posto all’inizio del suo poema. Il sentiero avviato da quell’identità procede tra la logica e la scienza “senza neppure toccarle” perché sia l’una che l’altra, secondo l’espressione heideggeriana: “non pensano”.5
Nei dualismi si esercita solitamente il gioco della logica tradizionale, il loro superamento è illogico perché originario, “originario perché greco (ursprünglich, d.h. griechisch)”.6 La grecità qui richiamata è quella del pensiero aurorale che precede la grecità scolastica che ha espresso la scissione essere-pensiero, in cui è riconoscibile la posizione fondamentale dello spirito dell’Occidente. Questa scissione ha una superiorità sulle altre perché tutte le rappresenta. In essa il pensiero non solo è opposto all’essere, ma determina questa opposizione in maniera così radicale da trasformare l’essere in proprio oggetto. Non a caso con Cartesio l’essere sarà riconoscibile come essere solo a partire dal pensiero.
Nella traduzione occidentale lógos è reso con ragione. E in effetti, scrive Heidegger:
Senza dubbio il lógos contiene un richiamo alla ragione come misura direttiva del fare e non fare. Tuttavia, che cosa può la ragione se si mantiene insieme con la non-ragione e con l’anti-ragione (Un-und-Widervernunft) sullo stesso piano di una medesima dimenticanza, che trascura di riflettere sulla provenienza essenziale (Wesensherkunft) della ragione e di impegnarsi in questo suo venire a noi (Ankunft)? Che cosa può fare la logica, loghiké (epistéme), di qualunque specie essa sia, se noi non cominciamo mai a prestare attenzione al lógos e a seguire la sua essenza principale?7
Il senso onnicomprensivo del lógos, che pareggia il senso onnicomprensivo dell’essere, è illuminato dall’uso greco del verbo léghein che, nella lettura di Heidegger, significa “stendere” e insieme “raccogliere”. Tale senso si ripropone nelle parole tedesche legen e lesen spesso collegate con preposizioni e sostantivi, come ährenlesen, traubenlesen che significano “mietere”, “vendemmiare”, dove l’azione di raccogliere il frumento o l’uva non ha altro senso che quello di stendere il raccolto in ordine e tenerlo insieme. Nella raccolta c’è un senso di scelta (erlesen) perché essa non è un semplice accostare qualsiasi elemento, ma è un trascegliere che viene prima (vorlesen) della stessa raccolta.
Il lógos è dunque quel raccogliere che lascia le cose stese davanti insieme: “beisammen-vor-liegen lässt”,8 dove il lassen non è un lasciare indifferente, ma è cura (anliegen) che le cose siano lasciate come l’essere le ha esposte. Il loro giacere (keîsthai) nell’esposizione è la loro presenza (parousía) che custodisce la loro verità (a-létheia). Il lógos è dunque quella raccolta originaria in cui la phýsis dispiega le cose, esponendole a quella manifestazione (phaínesthai) o presenza che le accoglie.
Solo questo senso originario di lógos consente di comprendere il senso derivato di léghein come dire. Il dire, in cui si articola il linguaggio, non è un fatto fonico che appartiene all’uomo, come poc’anzi s’è visto a proposito della ratio. Separato dal lógos, il linguaggio perde la pregnanza del suo esser-segno e diventa flatus vocis immiserito nella più piatta convenzionalità.
Il linguaggio è nato quando l’uomo s’è messo in cammino verso l’essere. Con la parola, l’uomo che sta nel raccoglimento dell’essere (lógos) raccoglie a sua volta (léghein) l’ordine con cui l’essere espone gli enti. Siccome la parola è vera quando il raccogliere (léghein) da essa operato riproduce l’insieme raccolto dell’essere (lógos), il dire (léghein) dell’uomo presuppone l’udire (akoúein) quell’annuncio raccolto in cui l’essere si esprime. Come il dire, così anche l’udire non è un fatto fisico. Infatti, scrive Heidegger:
Noi riteniamo erroneamente che l’uso degli organi fisici dell’udito sia l’udire vero e proprio. [...] In realtà noi non udiamo perché abbiamo orecchi, ma abbiamo orecchi perché udiamo. [...] Noi siamo veramente tutt’orecchi quando abbiamo completamente dimenticato gli orecchi e la semplice impressione del suono.9
La possibilità del linguaggio è custodita dalla disponibilità all’ascolto di tutte le cose. L’uomo ascolta (hört) tutte le cose perché appartiene (zugehört) a quel tutto raccolto (lógos) in cui le cose dimorano. Non è quindi l’uomo a possedere il linguaggio (ánthropos: zôion lógon échon) ma è la phýsis che, come lógos, possiede l’uomo (phýsis: lógos ánthropon échon) e gli mutua il linguaggio.
Dimenticare questa originaria appartenenza al lógos è farsi sordi alla sua parola, è ridurre la parola a fatto privato, a idía phrónesis che si sottrae a quell’homo-logheîn che consiste nel far tutt’uno (hómo) col lógos (logheîn). Superare l’idía phrónesis nell’homologhía non significa allora raggiungere un accordo, ma trovarsi d’accordo all’interno del lógos in cui si è già. Questo accordo può essere impedito solo dalla sordità e dalla cecità di quanti non hanno orecchi e occhi per il lógos, sono “i sordi, i ciechi, gli istupiditi” cui fa riferimento Parmenide,10 ed Eraclito là dove dice che “coloro che non raccolgono la voce del lógos sono simili ai sordi”.11
Tra lógos e homologheîn esiste un’alterità, una non-coincidenza che non consente al sapere che si trattiene nel lógos di possederlo. L’alterità tra lógos e homologheîn è ciò che consente al lógos di essere ab-solutus, cioè indipendente, e all’uomo di essere se stesso, cioè ricercante e, quindi, dipendente dal lógos.
In questa alterità si colloca l’éros platonico e l’órexis aristotelica, ossia quell’amore per il sapere che non è possesso, quel tendere appassionato che si accompagna alla perenne possibilità dell’errore. L’alterità, che concede spazio all’éros, impedisce al pensiero umano che dimora nel lógos di considerarsi esso stesso lógos, e di scambiare l’insieme raccolto dall’essere con quanto è raccolto dall’attività unificatrice della ragione.
In questo equivoco è caduto il pensiero moderno a partire da Cartesio, il cui cogito, invece di misurarsi sul lógos, ha assunto se stesso a misura di tutte le cose, precludendosi così la possibilità di giungere all’essere vero. Alla verità come manifestazione è subentrata la verità come certezza soggettiva, alla presenza del tutto raccolto (lógos) l’oggettività del tutto unificato (ratio), alla filosofia come amore la scienza come possesso e dominio, all’essere che domina (walten) e dominando perdura (verweilen) è subentrato il dominio dell’uomo il quale, prevaricando e oltrepassando i limiti dell’ospitalità concessagli dal lógos, ha reso così inospitale il mondo da ritrovarsi, nel nostro tempo, senza patria (heimatlos). Contro questa possibile tracotanza s’era già espresso Eraclito là dove dice:
Non ascoltando me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno (Ouk emoû, allà toû lógou akoúsantas homologheîn sophón estin èn pánta eînai).12
Nell’interpretazione abituale il frammento significa che noi dobbiamo ascoltare il lógos perché ha qualcosa da dirci. Questo qualcosa sarebbe appunto “Èn pánta”, a proposito del quale Heidegger osserva:
Un’infinita molteplicità di sensi è racchiusa in queste due parole pericolosamente inoffensive. [...] Èn pánta non è ciò che il lógos enuncia. Èn pánta dice in quale maniera il lógos dispiega il suo essere. [...] L’èn pánta di cui parla la sentenza di Eraclito ci dà il semplice cenno nella direzione di ciò che il lógos è.13
Il lógos come èn pánta è l’apertura dell’orizzonte unitario (èn) della totalità (pánta) che dissolve l’apparente isolamento dei singoli molteplici (idiótes). L’èn non si mostra in se stesso, ma presentando il molteplice (tà pánta). Esso è come la luce che, al dire di Eraclito, governa tutte le cose presenti: “tà dè pánta oiakízei keraunós” e, pur condizionando la visibilità, resta in se stessa invisibile. Come la moîra di Parmenide che, impartendo le parti, destina alla presenza tutte le cose presenti, così l’én di Eraclito non è la totalità delle cose presenti, ma è la presenza che condiziona ogni presente, o, come dice Heidegger: “il raccoglimento dell’invio alla presenza”.14
Quest’ultima precisazione vuole evitare il risolvimento dell’én nel pánta, risolvimento che sta alla base di ogni forma di immanentismo o comunque di ogni riduzione ontica del senso dell’essere. Da questa eventualità ci mette in guardia Eraclito per il quale:
L’Uno, l’unico Saggio non accoglie eppure accoglie il nome di Zeus (Èn tò moûnon léghesthai ouk ethélei kaì Zenòs ónoma).15
Come mai? La risposta è contenuta nell’antitesi. Se l’én è colto come lógos, ovvero come ciò che, presentando ogni cosa presente, non può essere esso stesso una cosa presente fra le altre o sopra le altre, come è appunto Zeus, a cui la moîra ha attribuito una parte sia pure quella suprema, allora l’Uno non accoglie il nome di Zeus. Ma se l’én è colto come pánta, allora il tutto delle cose presenti appare sotto il governo della cosa presente suprema, e l’Uno si vede investito del nome di Zeus.
Accogliere il nome di Zeus significa entificare l’essere, pensarlo non più come ciò che presenta gli enti, ma come ciò che si identifica con l’ente, sia che si tratti della totalità dell’ente (tà pánta), sia che si tratti dell’ente supremo (Zeus). A questo punto la differenza tra panteismo e teismo è irrilevante. In entrambi i casi, infatti, si è voluto dare un nome all’essere, dove dare un nome significa conoscere, possedere in un sapere sicuro ciò che si sottrae a ogni sapere, raccogliere in un concetto determinato ciò che sfugge a ogni raccoglimento e a ogni determinazione, perché è il raccoglimento stesso che, inviando alla presenza, determina.
Il teologismo, nato dall’ambiguità del lógos come èn pánta, si è affermato per tutto il corso dell’Occidente, lasciando la sua impronta nel razionalismo metafisico e scientifico contrassegnati dall’oblio dell’essere e dalla conseguente assolutizzazione dell’ente. In ciò risiede la vera hýbris di cui parla Eraclito: “È necessario spegnere la tracotanza (hýbris) più che un incendio”.16 La tracotanza è la dis-misura dell’uomo che, nella direzione teologica, pretende un sapere totale e assoluto, dando un nome all’essere. La riduzione della dis-misura è indicata ancora una volta dall’homologheîn che, “piegandosi alla misura del lógos”, ne custodisce l’indicibilità e con essa l’irriducibilità alle proprie private opinioni (idía phrónesis). Piegarsi alla misura del lógos che ci trascende è dunque l’essenza della saggezza (sophón).
1 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, § 44, p. 327. Il riferimento è a Parmenide, fr. B 5.
2 Cfr. Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanismo”.
3 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 130.
4 Ibidem.
5 M. Heidegger, Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, Lezione I, p. 41: “Die Wissenachaft denkt nicht”.
6 Id., Introduzione alla metafisica, cit., p. 108.
7 Id., Lógos (Heraklit, Fragment 50) (1951); tr. it. Lógos (Eraclito, frammento 50), in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 142.
8 Ivi, p. 143.
9 Ivi, pp. 145-147.
10 Parmenide, fr. B 6.
11 Eraclito, fr. B 34.
12 Id., fr. B 50.
13 M. Heidegger, Lógos (Eraclito, frammento 50), cit., pp. 149-150.
14 Ivi, p. 150.
15 Eraclito, fr. B 32.
16 Id., fr. B 43.