99.
Il salto nello spazio simbolico
Il salto porta il pensiero, senza ponti, cioè senza la continuità di un avanzamento progressivo, in un altro ambito e in un altro modo di dire.
M. HEIDEGGER, Il principio di ragione (1957), p. 97.
Nel maggio del 1952, in una conferenza letta alla radio bavarese, Heidegger disse che:
Non c’è un ponte che conduca dalla scienza al pensiero; l’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa.1
Da occidentali quali siamo non possiamo accostare questa “regione totalmente diversa” con l’abituale schema concettuale che costituisce la violenza prima di ogni discorso, e neppure con il rapimento poetico, perché questo, anche quando va al di là dell’abuso retorico, non lascia mai alle sue spalle le scansioni determinanti del discorso.
Il salto (Sprung) che ci conduce nella “regione totalmente diversa” lascia alle sue spalle anche l’itinerario ermeneutico che Heidegger aveva dispiegato, fin dalle prime battute di Essere e tempo, come accettazione della finitudine, e in seguito, teorizzando la storia come storia del linguaggio, come pura trasmissione di messaggi. Così intesa la storia, Heidegger non poteva essere accusato di aver cambiato posizione, e a chi glielo faceva notare, poteva tranquillamente rispondere:
Ho lasciato una posizione non per sostituirla con un’altra, ma perché anche quella era solo stazione di cammino. Quel che rimane costante nel pensare è solo il cammino.2
Ma per la “regione totalmente diversa” il cammino non basta, occorre il salto che, a differenza del cammino, “porta il pensiero, senza ponti, cioè senza la continuità di un avanzamento progressivo, in un altro ambito e in un altro modo di dire (Weise des Sagens)”.3
Praticando il salto, sarà possibile intendere cosa nasconde la filosofia di Heidegger proprio là dove sembra estenuarsi in un linguaggio che non dà mai l’impressione di approdare, in quel chiamare infinito dove spesso non è più dato distinguere chi chiama e chi è chiamato. Sì, certo, l’essere (Sein) e l’esserci (Dasein), ma qui vorremmo sporgere dal circolo ermeneutico (il cammino) per tentare, secondo l’immagine di Nietzsche, di liberare il mondo dei simboli4 da quella realtà che lo domina e lo misura, non solo attraverso la struttura repressione-sublimazione com’è nell’esercizio di Freud, ma anche attraverso l’insorgenza della trascendenza del significato com’è in ogni ricerca linguistica. Se siamo in grado di lasciarci alle spalle anche queste due ipoteche, forse potremo accedere alla libertà del simbolico, e quindi al salto che ci conduce all’altro lato dell’abisso che è “una regione totalmente diversa”.5 In Identità e differenza Heidegger esce con questa espressione:
D’improvviso può verificarsi il caso che il pensiero si trovi sollecitato a domandarsi: “Che vuol dire dunque questo essere che tanto si nomina?”.6
Di fronte all’improvviso sorgere di questa domanda siamo dislocati, non si tratta più di discorrere dell’essere, ma di rispondere a un richiamo che chiede il senso di questo discorrere. La libertà di muoverci rispetto alla stabilità delle strutture, che l’ermeneutica ci aveva concesso, viene qui trascesa in quella libertà più radicale che concerne il darsi stesso di queste strutture, l’apertura stessa degli orizzonti.
L’attenzione non è più intenzionata a una risposta, ma allo spazio stesso dell’interrogazione, dove a interrogare non siamo noi, ma è lo spazio simbolico che, dischiuso dalla parola “essere”, ci ha improvvisamente sorpreso nel dialogo dell’interrogazione. È uno spazio che non si può esplorare dall’esterno o descrivere come solitamente si descrivono le cose, perché quando a promuovere l’interrogazione è il simbolo, la domanda non è ancora abbastanza determinata perché l’ipocrisia di una risposta si sia già introdotta sotto la maschera dell’interrogazione.
Il simbolo, infatti, non è mai “questo” o “quello”, nel senso in cui la logica connette un predicato a un soggetto. L’espressione “è”, attribuita al simbolo, ha sempre e solo un significato transitivo. Del simbolo si potrebbe dire quello che Heidegger riferisce dell’essere quando afferma che è questo o quello, nel senso che “fa essere (west)” questa o quella cosa, nel senso che la “eventua (ereignet)”.
L’impossibilità di definire il simbolo con la logica della ragione occidentale testimonia un’impossibilità linguistica, intimamente connessa con l’incapacità di questa logica di parlare senza sopprimere la fonte stessa del suo linguaggio. Ma un linguaggio costruito sulla rimozione della sua fonte è un linguaggio a cui mancano le parole per esprimerla. E questa carenza non è, come giustamente dice Heidegger, “semplice povertà linguistica”,7 ma è essa stessa evento simbolico, l’evento della sua rimozione.
Il rapporto con il linguaggio simbolico diventa così un rapporto privilegiato, dove il simbolo viene o non viene in luce come fatto linguistico, in quanto eventua o non eventua dei vocaboli, esprime o non esprime delle culture, istituisce o non istituisce dei linguaggi. In questa prospettiva, il linguaggio non è qualcosa che è in potere dell’uomo, al contrario è l’uomo che è in potere del linguaggio, in quanto può dire solo ciò che nell’ambito di un certo linguaggio rientra.
Per questo, dice Heidegger: “L’uomo parla in quanto cor-risponde al linguaggio”.8 Al dire che più non conosce la sua fonte corrisponde il tacere del linguaggio simbolico e il suo costituirsi come semplice segno che più non rinvia. Tale è il linguaggio occidentale che, saldando il soggetto al predicato: “questo è questo e non altro”, dice l’oblio della fonte, la sua dimenticanza.
Ma il nuovo linguaggio che a questo punto si rende necessario non si lascia costruire in base a un nuovo pensiero che dovrebbe condurre all’oltrepassamento. “La mancanza della parola adatta”,9 ce lo ha insegnato Heidegger, non è una deficienza del vocabolario, di un singolo o di una cultura, ma il limite dell’apertura simbolica, dove ognuno di noi si trova e che nessuno può superare con una semplice escogitazione linguistica.
Ciò significa che l’ambito entro cui le cose avvengono e significano non dipende solo dalla particolare interpretazione entro cui ha luogo l’esperienza del mondo, ma da un certo linguaggio che precede e condiziona ogni possibile interpretazione. Il linguaggio simbolico, infatti, presenta la cosa inserendola in un mondo, in un ordine, in una struttura linguistica da cui ogni senso e ogni significato dipende.
Se quel mondo, se quell’ordine, se quella struttura linguistica ignorano la propria fonte, non ci sarà cosa che possa liberare messaggi simbolici, ma, per ciò che dice, ogni cosa sarà segno che conferma quel mondo, quell’ordine, quella struttura. A questo punto non dobbiamo attenderci nulla dal significato delle parole, ma se mai dal loro silenzio. Ciò significa cercare nel detto il non detto, non per smascherare ciò che non si voleva o non si poteva dire (Freud) ma per cercare ciò che, nell’esplicitazione totale compiuta dal linguaggio occidentale, è rimasto implicito e così trattenuto.
Lamentando la limitazione e la povertà del nostro linguaggio, Heidegger invita a percorrere lo spazio del taciuto. Le sue espressioni chiedono che si dischiudano rapporti che vadano oltre quelli conclusi dalla logica occidentale, onde consentire alle cose di aprirsi a una presenza che non si risolva immediatamente nelle rappresentazioni di quella logica. Esse chiedono che si dischiudano mondi, che si spalanchino aperture capaci di concedere al linguaggio un respiro più ampio, e alle cose un senso meno dimentico dei significati non ancora raggiunti dal linguaggio dell’Occidente.
Ma per questo sono necessarie nuove parole, dove la novità non è nell’aggiunta di nuovi vocaboli, ma nel nuovo senso che quelli antichi assumono quando, di fronte al linguaggio, ci si dispone non come di fronte a uno strumento, ma come di fronte a una parola che parla. Si tratta ovviamente di una parola che parla non nella forma dell’enunciazione-esplicitazione propria del linguaggio della ragione occidentale, perché in questa forma si lascia esprimere solo il segno e non il simbolo10 che, rifiutandosi a ogni esplicitazione e a ogni enunciazione, non è mai ciò che si pensa, ma ciò in cui e da cui si pensa.
Al linguaggio dell’Occidente che dice come le cose sono, occorre quindi sostituire il linguaggio che non dice ma ritorna dal detto a ciò che non è detto, e che dal detto è ri-chiamato. Il ritorno non risale alla causa (Grund), ma allude a un fondo inesplorato (Ab-grund). Luogo e non-luogo del discorso, il simbolo dis-loca ogni parola, ogni espressione linguistica, che è compresa non quando si capisce ciò che dice, ma quando si colloca ciò che dice in ciò che non dice, eppure ri-chiama (Ge-heiss).
1 M. Heidegger, Was heisst Denken? (1952) (conferenza); tr. it. Che cosa significa pensare?, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 88.
2 Id., Aus einem Gespräch von der Sprache zwischen einem Japaner und einem Fragenden (1953-1954); tr. it. Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 91.
3 Id., Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 97.
4 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. III, 1, § 2, pp. 26-30.
5 Anche G. Vattimo ne Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980, scorge questa direzione e, nelle pagine 42-43, 105, ne accenna come a una possibilità.
6 M. Heidegger, Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, in “Teoresi”, 1967, p. 228.
7 Id., Das Wesen der Sprache (1957-1958); tr. it. L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 128.
8 Id., Die Sprache (1950); tr. it. Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 43.
9 Id., L’essenza del linguaggio, cit., p. 129.
10 Sulla differenza tra “segno” e “simbolo” nell’accezione in cui questi termini sono qui impiegati si veda U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo (1984), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 5: “Il gioco dei segni e il conflitto dei simboli”.