1.
Il mondo come utilizzabilità e appagamento
La foresta è legname, la montagna è cava di pietra, la corrente è forza d’acqua, il vento è vento “in poppa”. Di pari passo con la scoperta del “mondo ambiente (Umwelt)” si ha anche la scoperta della natura (Natur). È però possibile prescindere da questa utilizzabilità (Zu-handenheit) e scoprire e determinare la natura come semplice presenza (Vor-handenheit). Ma a questo genere di scoperta la natura resta incomprensibile come ciò che “vive e tende”, ciò che ci assale e ci emoziona nel paesaggio. Le piante del botanico non sono i fiori del campo; le “sorgenti di un fiume”, stabilite geograficamente, non sono la “polla nel terreno”.
M. HEIDEGGER, Essere e tempo (1927), § 15, pp. 143-144.
Filosofare, oggi, è essere fraintesi. L’origine del fraintendimento risiede nel fatto che l’uomo contemporaneo sembra disporre solo di due linguaggi: quello comune attento alle occorrenze quotidiane e quello scientifico che soccorre quello comune nei risultati, pur trascendendolo nei metodi. L’uno e l’altro sono piegati all’utilità immediata o sperata. Quest’ultima rappresenta il massimo sforzo metafisico dell’uomo di oggi, la cui unica trascendenza sembra essere l’utilità del domani, che trova le sue espressioni in ambito fisico nelle imprese spaziali che oltrepassano i confini della terra, in ambito biologico nelle scoperte della genetica che decifrano i misteri del corpo, in ambito economico nella globalizzazione che fa della terra quello spazio comune che tende ad abolire le differenze. Questi sono gli ambiti in cui la tensione metafisica oggi si raccoglie e si esaurisce in un pensiero vago, corrotto dall’emotività o esaltato dall’entusiasmo.
Fede, filosofia, salvezza, verità sono un libero gioco del pensiero, libero come l’arte, come la poesia che godono di quello spazio che il pensiero volto all’utile talvolta concede per riprendersi con rinnovate energie. Se questo è il quadro, qui occorre muoversi, non altrove. Libero gioco del pensiero è dunque la filosofia. E così la si mantenga se ci si vuole far intendere da quanti così pensano. Del resto la filosofia non è un territorio che ha bisogno di difendersi e di farsi valere nei confronti dei territori occupati dalla scienza, perché se è, come dice d’essere, la custode della verità, la verità avrà la forza di imporsi da sé, senza ricorrere alle strenue difese dei filosofi. Quando nessuno attacca che bisogno c’è di difendersi? Oggi la filosofia non ha nemici. Oggi, come al suo inizio, suscita o il sorriso della servetta trace1 o la delusione di quanti le si accostano per sapere, e avvertono che la filosofia non sa nulla. Incontriamola dunque dove si trova: nel libero gioco del pensiero e nella consapevolezza di non sapere.
L’incontro quotidiano con le cose oggi avviene sotto la categoria vincolante dell’utilità, il senso delle cose dipende dalla loro rispondenza all’utile, sull’utile viene misurata e definita la loro essenza. Come ci ricorda Heidegger, la terra è custode di semi, il cielo è sole e pioggia fecondanti, la foresta è piantagione, la montagna è cava di pietra, il fiume è forza d’acqua, il vento è vento in poppa.2 La natura, prima ancora di essere tecnicamente impiegata, è già utilitaristicamente definita. Le cose non sono considerate per quello che “sono”, ma per quello che “servono”. Il “che cos’è” è sostituito dall’“a che serve”. La domanda utilitaristica fonda quella serie di rimandi che collegano le cose tra loro. Le piantagioni della foresta servono per costruire imbarcazioni, le imbarcazioni per trasportare e per pescare, il trasporto e la pesca per appagare altre catene utilitaristiche che, ricollegandosi ad altre utilità, confluiscono tutte insieme verso quell’unico soggetto interpretante che è l’uomo.
L’uomo ritiene di conoscere il mondo quando ne ha risolti tutti gli aspetti in mezzi utili al proprio appagamento. Se qualcosa si sottrae allo schema dell’utile diventa insignificante, senza senso, perché ogni senso è custodito dall’utilità, della struttura relazionale dell’“a che”, dal rimando ad altro. Nel commercio quotidiano con le cose il pensiero è dunque sotto il giogo dell’utile, da cui dipende il senso di ogni cosa. Ciò che si libera dal giogo diventa inopportuno, importuno, impertinente nel senso di non-pertinente ad alcunché. I mezzi intervengono allora per togliere di mezzo ciò che non si inserisce utilmente nei processi d’appagamento e quindi è inutile. L’inopportuno, il non-impiegabile, che potrebbe scuotere e problematizzare la tranquilla e mastodontica catena dei mezzi opportuni e impiegabili non ne ha la forza, perché il suo annunciarsi coincide col prender congedo dall’utile, il quale, prima ancora di considerarlo nella sua inseità, lo definisce, in rapporto all’utile, come “inutile” e lo toglie di mezzo, nel senso che lo disinserisce dalla catena dei mezzi.
L’utilità-appagamento non si limita a significare le cose, ma giunge a definire lo spazio e il tempo come prossimità o lontananza dell’utilizzabile. Vicino è ciò che è alla mano (zu Hand), ciò che si lascia inserire nel calcolo dell’utilizzabilità (Zu-handenheit). La collocazione spaziale decide del senso e del valore dell’ente. Le merci valgono se sono prossime al consumatore, se il tempo non le ha deteriorate, cioè rese non idonee all’impiego. Le cose hanno senso se sono al “loro posto”, cioè in quella collocazione che ne rende possibile l’impiego, e se sono in prossimità di altre cose, dalla cui collocazione dipende l’utilizzazione dell’insieme. Il “dove” e il “quando”, lo spazio e il tempo vengono così definiti dall’utile, e l’utile dalla sua capacità di appagamento.
Per appagare, infatti, le cose devono essere “prossime”, “vicine”. I mezzi di comunicazione, avvicinando spazi e riducendo tempi, ridefiniscono ogni volta lo spazio e il tempo, la cui estensione e la cui durata dipendono dall’interesse presente nel soggetto da appagare. In base all’appagamento viene misurato il tempo, la sua divisione o databilità trae origine dall’utilizzazione della terra e dalla distribuzione del lavoro in “tempi d’opera” e “tempi di riposo”. In base all’interesse suscitato dalle cose in vista del loro impiego, l’uomo “non ha tempo” oppure “perde o prende tempo”. Il tempo, come lo spazio, non sono dunque dimensioni oggettive che sussistono per sé. Il loro essere è definito dalla cura che l’uomo ha per le cose in vista della loro utilizzazione. Anche se il tempo si manifesta innanzitutto nel cielo dove gli astri si muovono incuranti delle cose della terra, il tempo è più soggettivo di ogni soggettività, perché il cielo è misuratore oggettivo del tempo in quanto il soggetto uomo si prende cura delle cose sotto il cielo.
Oltre alle cose-mezzo ci sono segni e simboli da intendersi come mezzi per significare le cose. Tali sono i segni stradali, i cippi dei confini, i segni della tempesta per la navigazione, i segnali, le bandiere, i totem e tabù, i feticci delle popolazioni primitive e in genere tutte quelle espressioni il cui significato risiede nel rimandare, nel rinviare alle cose di cui sono segni, simboli, feticci, dèi. Di questo universo di segni rinvianti si compone il linguaggio, le cui espressioni sonore sono intese come mezzi volti a significare ciò di cui sono segni. Il linguaggio serve per comunicare con gli altri esseri con cui, volenti o nolenti, ci si trova in relazione.
Essere nel mondo (In-der-Welt-sein) è a un tempo con-esserci (Mit-dasein). I mezzi che vengono approntati vengono approntati per altri, che sono incontrati nel lavoro insieme all’opera che per loro viene apprestata. Il valore dell’opera dipende infatti dalla possibile utilizzazione da parte degli altri che, dunque, non si aggiungono dall’esterno all’opera, ma ne sono richiamati dalla sua stessa essenza. Il mondo in cui si vive è quindi un con-mondo (Mit-welt), e in virtù di questo essenziale con-essere, gli altri ci si rendono noti come essenziali, in quella trama di rimandi che ogni cosa possiede con la totalità che nel suo insieme costituisce il mondo.
Il mondo immediato delle cose da utilizzare si compone col mondo pubblico degli altri che vivono con noi (Mit-leben). Qui uno vale l’altro, e per l’uno e per l’altro vengono impiegati i mezzi di trasporto, di trasmissione, di informazione. Questi mezzi del mondo pubblico si raccolgono nell’impersonalità livellante del “Si (Man)”, dove si dice, si pensa, si vieta, si richiede, si lavora, ci si diverte, si studia, si legge, si vede, si giudica. Nasce l’opinione pubblica livellata dalla propaganda e dalla pubblicità, animata dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco dove, scrive Heidegger, nella “più assoluta irrilevanza e impersonalità, il Si esercita la sua tipica dittatura”. Infatti:
Nell’uso dei mezzi di trasporto o di
comunicazione pubblici, dei servizi di informazione (i giornali),
ognuno è come l’altro. Questo essere assieme dissolve completamente
il singolo esserci nel modo di essere “degli altri”, sicché gli
altri dileguano ancora di più nella loro particolarità e
determinatezza. In questo stato di irrilevanza e di indistinzione
il Si (Man) esercita la sua tipica
dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte;
leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si
vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si
tiene lontani, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso.
Il Si, che non è un esserci determinato, ma tutti (non però come
somma), decreta il modo di essere della quotidianità. [...]
La medietà sorveglia ogni eccezione. Ogni primato è silenziosamente
livellato. Ogni originalità è dissolta nel risaputo, ogni grande
impresa diviene oggetto di transazione, ogni segreto perde la sua
forza. La cura della medietà rivela una nuova ed essenziale
tendenza dell’esserci: il “livellamento (Einebnung)” di tutte le possibilità di essere.
[...]
Il Si c’è dappertutto, ma è tale da essersela già sempre squagliata
quando per l’esserci viene il momento della decisione. Tuttavia,
poiché il Si ha già sempre anticipato ogni giudizio e ogni
decisione, sottrae ai singoli esserci ogni responsabilità concreta.
Il Si non ha nulla in contrario che “si” faccia sempre appello a
esso. Può rispondere a cuor leggero di tutto perché non è
“qualcuno” che può esser chiamato a render conto. Il Si “c’era”
sempre e tuttavia si può dire di esso che non sia mai stato
“nessuno”. Nella quotidianità dell’esserci la maggior parte delle
cose è fatta da qualcuno di cui si è costretti a dire che non era
nessuno. [...]
Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso. Il Si, come risposta al
problema del Chi dell’esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni
esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo
essere-assieme.3
Alla dittatura del Si ci si sottomette perché è tranquillizzante fare e comportarsi come generalmente “si” fa e ci “si” comporta. A questa maniera di esistere medio e consueto Heidegger dà il nome di quotidianità (Taglichkeit). Nella quotidianità si vive come “tutti i giorni”, “come ieri, così oggi e domani”, riducendo il più possibile l’eccezionale, il diverso, per uniformarsi a quel modo d’essere che è “in generale” e “perlopiù”.4
Alla base di questa vicenda uniforme c’è il desiderio incondizionato di assicurare se stessi e le cose, dal cui uso e impiego dipende il proprio appagamento. La ragione calcolante e utilizzante può progettare e realizzare le proprie ipotesi di lavoro solo là dove tutto è abituale e il più possibile identico. Solo in un simile contesto tutto è prevedibile e quindi impiegabile, secondo ragione, per la soddisfazione più ampia possibile.
1 A ricordarcelo è K. Jaspers in Einführung in die Philosophie (1953); tr. it. Introduzione alla filosofia, Longanesi, Milano 1959, p. 36: “Talete, il primo dei filosofi greci, venne deriso da una servetta che lo vide cadere in un pozzo perché camminava guardando le stelle. Pretendeva di guardare ciò che è lontano, inetto com’era a rendersi conto di ciò che è vicino”. Questo motivo è stato ripreso da H. Blumenberg, Das Lachen der Thrakerin. Eine Urgeschichte der Theorie (1987); tr. it. Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, il Mulino, Bologna 1988.
2 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, § 15, pp. 143-144.
3 Ivi, § 27, pp. 215-217.
4 Per l’adeguato svolgimento di questa tematica si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 51: “Cultura di massa e sentimento oceanico”.