44.

Causalità e destino

Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. [...] Di fatto chi prova un senso di meraviglia riconosce di non sapere. [...] Ma per sapere, occorre acquisire la scienza delle cause. Infatti, diciamo di conoscere una cosa quando riteniamo di conoscerne la causa.

ARISTOTELE, Metafisica, 982 b-983 a.

Alla formazione del numero come espressione matematica concorrono, come si è visto, il concetto di limite e di necessità. Quest’ultimo, come il precedente, subisce una profonda trasformazione nella traduzione occidentale della parola, che segna il passaggio dalla necessità del destino, che sta al di sopra degli uomini e degli dèi, alla necessità causale che trae la sua forza cogente dall’ipotesi matematica nel cui ambito è predisposta.

Il carattere ipotetico della necessità causale, che tanto impiego aveva trovato nelle costruzioni teologiche medioevali e moderne, che dal mondo, tramite la via causalitatis, giungevano a Dio, è stato indicato per la prima volta da Hume, per il quale il rapporto causale non è un contenuto dell’esperienza, perché quest’ultima è in grado di attestare solo un rapporto di successione tra due fenomeni (hoc post hoc), non un rapporto di dipendenza necessaria (hoc propter hoc). Gli enunciati causali sono solo il frutto di quella credenza che nasce in presenza del ripetersi costante della successione empiricamente attestata. Scrive in proposito Hume:

Quando guardiamo intorno a noi verso gli oggetti esterni e consideriamo l’operazione delle cause, non riusciamo mai, nei singoli casi, a scoprire qualche potere o connessione necessaria, cioè una qualche qualità che leghi l’effetto alla causa e che renda l’uno un’ineffabile conseguenza dell’altra. Noi troviamo soltanto che l’uno, presentemente, di fatto segue l’altra. L’impulso di una palla di bigliardo è seguito dal movimento nella seconda palla. Questo è tutto quello che appare ai sensi esterni. La mente non prova alcun sentimento o impressione interna da questa successione di oggetti; per conseguenza, non c’è, in alcun singolo particolare caso di causa ed effetto, cosa alcuna che possa suggerire l’idea di potere o di connessione necessaria.1

Non più suffragata dall’esperienza, la necessità causale viene pensata da Kant come categoria soggettiva, indispensabile per fondare la costruzione dell’esperienza fisico-matematica, a cui si arresta l’intelletto umano in quanto organo della mathesis universalis.2

Esclusa dall’esperienza e compresa nella soggettività, la successione causale è pensata nell’ambito delle ipotesi che non si lasciano giudicare in ordine alla verità, ma in ordine all’utilità che offrono nell’interpretazione dell’esperienza. In questo contesto il presentarsi di ipotesi più utili e più vantaggiose, per il maggior numero di fenomeni che sono in grado di spiegare e per il minor impiego di operazioni richieste nell’esecuzione del processo esplicativo, sancisce non solo la non verità del rapporto causale, ma anche la sua inutilità. Fu quanto puntualmente avvenne con la microfisica del XX secolo che, all’interpretazione causale della natura, sostituì l’interpretazione statistica che, privando la causalità del suo carattere di necessità, la dissolse nell’implicazione probabilistica, che risulta dalla percentuale maggiore dei comportamenti dello stesso segno che intervengono in un processo.

Le conclusioni a cui è giunta la fisica atomica hanno confermato l’osservazione humiana secondo la quale l’ordine causale (hoc propter hoc), che noi attribuiamo all’universo, deriva dall’esperienza dell’ordine temporale (hoc post hoc) a nostra disposizione. L’irreversibilità del tempo, dove il prima precede il poi, fa nascere l’idea dell’irreversibilità del rapporto causale, dove la causa deve precedere l’effetto. L’irreversibilità dei processi fisici è valutata sull’irreversibilità dei processi temporali, per cui l’ordine causale dell’universo altro non è se non il riflesso dell’ordine temporale della nostra esperienza.

Ma che le cose vadano così è un’abitudine del nostro modo di pensare, un’abitudine che crede in qualcosa che non ha mai verificato. La fisica atomica, nel tentare questa verifica, è giunta a sconfessare la credenza nell’irreversibile necessità causale, e ha tradotto la relazione “se... allora sempre” in cui si raccoglie il principio di causalità, in un “se... allora in una certa percentuale”, il che equivale a sconfessare la necessità cogente del principio e dei risultati acquisiti col suo impiego.

Fu il fisico viennese Ludwig Boltzmann3 a scoprire che il principio di irreversibilità dei fenomeni fisici non si fonda sulla necessità causale, ma è l’esito di considerazioni statistiche. Nessuno ignora che la quantità di calore in un corpo è in relazione al moto delle sue molecole, per cui tanto maggiore è la velocità media di queste, tanto maggiore è la temperatura. Da questo principio discende che quando un corpo caldo viene a contatto con uno freddo si ha una collisione tra le loro molecole. Può allora accadere che una di esse, colpendo una molecola più veloce, perda la propria velocità e renda l’altra più rapida e viceversa. Il risultato statistico della serie degli urti ha come esito che il corpo più caldo cede il calore al corpo più freddo. Si tratta di un esito che non è regolato dalla necessità causale, ma è il risultato di una percentuale statistica.

Se le conseguenze pratiche dell’interpretazione statistica delle leggi di natura sono trascurabili, le conseguenze teoriche appaiono alquanto rilevanti, perché quella che prima era considerata una legge assoluta di natura ha finito per rivelarsi una mera legge statistica, non incontrovertibile, ma solo altamente probabile. La possibile estensione del carattere ipotetico a tutte le leggi di natura determina la scomparsa di ogni principio strettamente causale e quindi il dissolvimento di ogni forma di sicurezza che l’uomo, nel corso dei tempi, ha connesso a questo principio. L’interpretazione statistica delle leggi della natura e il calcolo delle probabilità riducono infatti la presunta onnipotenza dell’uomo, e riconferiscono primato alla natura come vis activa e imprevedibile, come cháos che nessun principio riesce a ridurre a kósmos ordinato da leggi rassicuranti.

La ricerca dei nessi causali ha rappresentato una forma di difesa nei confronti dell’imprevedibilità degli eventi a cui gli uomini soccombevano per volere del destino. La tragedia greca, che pensa il destino al di sopra degli uomini e degli dèi, presenta le sue decisioni come irrevocabili, e la serie degli accadimenti che ne derivano come regolati da una necessità così rigorosa da rendere inutile la preghiera degli uomini. Euripide, in un frammento dell’Ipsipile, pone il problema con estrema chiarezza:

O pensieri mortali, o vano errare
degli uomini, che fanno essere a un tempo
e il destino e gli dèi. Perché se c’è
il destino, che bisogno c’è degli dèi?
E se il potere è degli dèi, il destino
non è più nulla.4

Ma proprio la tragedia tenta una prima razionalizzazione del destino, una sorta di spiegazione che ne riduca l’arbitrarietà imprevedibile, e la trova nel contesto esistenziale della colpa e della pena, che connette in un rapporto consequenziale così rigido da non conoscere alcuna limitazione, nemmeno la morte. La morte del colpevole (aítios), infatti, non arresta l’effetto della colpa, che è causa (aitía) delle pene delle generazioni future. La successione triadica della tragedia greca rappresenta il primo tentativo di seguire in un tempo più lungo quel rapporto di causa-effetto, nella forma di colpa e pena, che lo spazio ristretto del presente non consente di verificare. Nell’ignoranza della causa-colpa (aitía) l’apparire dell’effetto-pena è incomprensibile, la sua comparsa è senza ragione, è mistero incomprensibile del fato, è destino imperscrutabile.

Se è possibile ipotizzare l’origine dell’idea di destino nell’ignoranza delle cause, con il potenziamento del valore della relazione causale è possibile pensare la ricerca delle cause come difesa nei confronti dell’imprevedibilità del destino. In fondo il determinismo causale presenta gli stessi caratteri del destino. È cieco e non realizza disegni, non odia né favorisce gli uomini, non ha scopi futuri, ma oltrepassa il passato e il futuro in un presente che ripete se stesso, in ottemperanza a una legge che non consente deroghe né eccezioni.

La differenza è che la legge non è al di sopra degli uomini e degli dèi, ma è conosciuta, anzi posta, dagli uomini come valida anche per gli dèi. Dopo aver anatematizzato “il gran libro della natura”, Galileo osservava che se la conoscenza posseduta da Dio extensive (quanto al numero delle cose conosciute) supera quella posseduta dall’uomo, intensive (quanto al modo di conoscere le cose conosciute) è identica. 5

Conoscere la causa significa prevedere l’effetto, prepararsi al suo evento, sottrarsi all’accadimento imprevisto, ridurre il timore, placare l’ansia in un sapere che sa di sé e del corso immutabile delle cose. Se l’immutabilità del volere del destino intimorisce l’uomo, l’immutabilità del corso delle cose, che non derogano dalla legge causale pre-posta alla comprensione del loro accadimento, lo rassicura.

Per Eraclito erano le Erinni, donne furibonde e avide di vendetta, a controllare il corso inquieto della natura: “Il sole non oltrepasserà le sue misure, perché altrimenti le Erinni, ministre di Díke, lo ricondurrebbero nella sua orbita”.6 Per Democrito, secondo la testimonianza di Aristotele, la natura è regolata dal determinismo rigoroso della causalità, per cui “Nulla avviene a caso, ma esiste una causa determinata di tutte le cose che noi diciamo prodursi spontaneamente o per caso”.7

Le due posizioni non esprimono semplicemente due diverse interpretazioni della natura, ma nella loro successione cronologica indicano un tragitto che, dall’inquietudine propria di chi si pensa deciso dal destino, conduce alla quiete di chi sa che “nulla avviene a caso”, perché conosce la legge secondo cui tutto avviene. Il desiderio di superare l’inquietudine generata dall’imprevedibile dischiude quel cammino che non a caso si conclude nell’ataraxía e nell’aponía, nella quiete della mente e del corpo di cui parlano gli stoici.

La vendetta di cui sono avide le Erinni della mitologia greca e la giustizia di cui sono ministre confermano il contesto esistenziale da cui ha preso le mosse la ricerca della causa. La vendetta pensata come legge (lex Talionis), quindi come espressione di giustizia, pareggia le offese nella modalità della causa e dell’effetto, che poi ritroviamo nella consequenzialità rigorosa della colpa e della pena. Il principio: causa æquat effectum può essere capito solo se si considera che la pena non può essere né maggiore né minore della colpa, perché altrimenti non si seguirebbero i dettami di giustizia.

Infine la relazione causale precede l’effetto proprio come è necessario che la colpa sia commessa prima che venga comminata la pena. In questo modo si connette il concetto di tempo con quello di causa e lo scorrere del tempo rappresenta il corso della giustizia. Le Erinni sono infatti nate dal sangue di Urano caduto su Gaia perché Crono (il tempo?) vendicò l’ingiustizia del padre verso i figli, castrandolo. Così, vendetta e retribuzione, colpa e pena, giustizia e tempo compaiono nel mito come quelle figure che verranno definitivamente assestate dal pensiero razionale nella semplice e al tempo stesso potente relazione di causa ed effetto che fornirà a ogni cosa il suo fondamento, la sua spiegazione, la sua causa, la sua ragion d’essere.

Comincia il tempo della filosofia come ricerca delle cause, dove l’efficienza, la finalità, la materia e la forma offriranno, come vuole il testo di Aristotele, la ragione di ogni ente,8 mentre l’essere, che non ha né causa né ragione, né spiegazione, né fondamento, si assenta da un pensiero che ha dimenticato il senso sfuggente del destino per la ricerca controllata della causa.

L’opposizione destino-causalità è, fra le antitesi, quella che maggiormente ha tormentato l’umanità nel suo pensarsi già decisa o in grado di decidere tutte le cose. Ogni lingua, anche se ha già conosciuto la scienza e l’impostazione causale del pensiero, possiede un certo numero di parole adombrate dal senso del destino, tali sono: “sorte”, “fatalità”, “caso”, “predestinazione”, “vocazione”. Sono cifre, non concetti. Su di esse gravita un’immagine del mondo che non è l’immagine che l’uomo s’è razionalmente costruito. Il destino sfugge alla logica della ragione che l’idea di causalità sostanzia, mentre alla causalità sfugge il senso del mistero che il destino gelosamente custodisce.

Nell’idea di destino si manifesta la nostalgia cosmica di un’anima che ha perduto la sua patria ed erra in paesi stranieri, in cui pure trova mezzi di sussistenza e ragioni per vivere, ma non senso. All’idea di destino non v’è anima che possa sottrarsi, per quanto senso pratico possieda e per quanta potenza tecnica possa disporre il suo intelletto. Vi sono dei momenti in cui ogni causalità del mondo esteriore risulta sconvolta, e prepotente s’impone l’esigenza di un senso che nessun impianto causale è in grado di soddisfare, perché in gioco non è la ragione (la causa) di un evento, ma lo stesso e-venire degli eventi.

Allora l’angoscia provata dall’uomo di fronte al destino, e sopita da quella rete di rigorosi rimandi causali che avrebbero dovuto spiegare ogni cosa, riappare più tragica in quell’assenza di senso che si determina quando la ragione, abituata ormai a spiegare il come di tutte le cose, tace impotente di fronte al perché del loro accadimento. “Perché in generale c’è qualcosa e non piuttosto il nulla?”9 Qui, per rispondere non basta indicare la causa di ogni cosa, qui la domanda chiede che senso ha l’esserci di ogni cosa con o senza la sua causa. Perché il suo accadere invece del suo astenersi?

Se la legge causale è un vincolo che l’angoscia dell’uomo impone all’originario phyeîn della phýsis, se è una profonda difesa dell’uomo che tenta di controllare, mediante il potere del concetto, il tormentoso enigma dell’e-venire di tutte le cose, l’enigma si fa ancora più assillante per un intelletto ormai dominatore, che dal senso di questo enigma si sente contraddetto. Per risolvere l’enigma non basta ricondurre le cose alle loro cause, dando così a ciascuna il proprio nome, anche se per le arti magiche primitive chiamare qualcosa con il suo nome significava esprimere potere su di esso.

Un tempo si dominavano le potenze malvagie chiamandole con il loro nome, si indeboliva o si uccideva il proprio nemico eseguendo certi procedimenti magici sul suo nome. Con la nascita della scienza queste estrinsecazioni primordiali dell’angoscia primitiva riappaiono in quella tendenza volta a eliminare quanto risulta inafferrabile alla concettualità intellettuale, che esprime la sua potenza nominando tutte le cose secondo la quantità. Respinto così l’inaccessibile, la scienza riduce la natura alla propria immagine logica, e la filosofia seguì la scienza nella creazione di un’immagine meccanicista e rigorosamente determinista del mondo.

Con la necessità logica in possesso dell’uomo ci si difese dalla necessità del destino, con la magia della concettualità dalla magia del mistero, il cui volto inaccessibile ha generato nel pensiero aurorale un timoroso rispetto, e nel pensiero moderno un’angosciata e perciò prepotente reazione. Alla contemplazione del primo è subentrata la volontà del secondo di assoggettare, di meccanizzare, di disarmare. Ma il destino (Geschick) che destina ogni evento, la cui successione compone la storia (Geschichte), destina anche quell’evento, la ragione scientifica, che tenta la soppressione del destino e del mistero in esso racchiuso.

Questa terminologia heideggeriana, che richiama il linguaggio religioso, non deve far pensare alle porte dell’inferno che non prevarranno (portæ inferi non prævalebunt), perché qui l’inferno non è l’antitesi, ma il volto attuale del destino, ciò che il destino lascia essere di sé in occasione del suo assentarsi: l’assenza di senso e quindi la domanda che lo richiede.

Raccogliendosi in questa domanda, la filosofia può riprendersi dall’alienazione in cui è caduta quando, nell’epoca della nascita e del trionfo della scienza, che ha coinciso con l’epoché o sospensione della manifestazione dell’essere, s’è presa cura della sorte o destino (Geschick) della ragione scientifica, invece che della sorte o destino dell’essere.

1 D. Hume, An enquiry concerning human understanding (1758); tr. it. Ricerca sull’intelletto umano, in Opere, Laterza, Bari 1987, vol. II, Sezione VII: “Dell’idea di connessione”, p. 69.

2 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781, 1787); tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1959, Parte II, I: “Analitica trascendentale”, §§ 10-12.

3 L. Boltzmann, Vorlesungen über Gastheorie (1896-1898), in Wissenschaftlichen Abhandlungen, Leipzig 1909.

4 Euripide, Ipsipile, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, Sansoni, Firenze 1970, fr. 3.

5 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Opere, Barbera, Firenze 1929-1934, vol. VII, p. 700.

6 Eraclito, fr. B 94.

7 Democrito, fr. A 68.

8 Aristotele, Metafisica, Libro I, 983 a, 24-26: “È indispensabile acquisire la scienza delle cause prime, infatti diciamo di conoscere una cosa quando riteniamo di conoscerne la causa prima”.

9 Cfr. il capitolo 4: “La domanda filosofica in Heidegger e Jaspers”.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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