40.

Dalla phýsis al mondo come età dell’uomo

La parola “mondo (Welt)” suona, nell’antico alto tedesco, “Weralt”. “Wer” significa, come in “Wergeld”, uomo; “alt” rinvia a “Alter”: età (Zeitalter). Secondo questa origine, “mondo” è l’età degli uomini, il tempo degli uomini. La parola potrebbe significare il tempo di una generazione, l’età commisurata all’esistenza umana. Questo senso deve essere inteso come la traduzione dell’espressione latino-cristiana sæculum, che originariamente significava “età” e in seguito “mondo”.

K. JASPERS, Filosofia, I: Orientazione filosofica nel mondo (1932), p. 200.

L’Antico e il Nuovo Testamento non conoscono il kósmos del pensiero aurorale, né il movimento autonomo e onnicomprensivo della phýsis, “sempre vivente che si accende e si spegne secondo giusta misura”,1 ma conoscono il mondo come creazione di Dio in funzione dell’uomo e come abitazione dell’uomo dopo il suo allontanamento da Dio:

Poiché tu hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dell’albero, che io ti avevo espressamente proibito di mangiare, la terra sarà maledetta per cagione tua; con il lavoro faticoso riceverai da quella il tuo nutrimento per tutti i giorni della tua vita, essa ti produrrà spine e tribolazioni, ti nutrirai dell’erba dei campi, col sudore della tua fronte mangerai il pane, finché ritornerai alla terra da cui sei stato tratto, poiché tu sei polvere e in polvere ritornerai.2

Con il peccato il “mondo” biblico acquista un nuovo senso più accentuatamente antropologico. Da ens creatum in funzione dell’uomo, diventa luogo di espiazione di una colpa umana, il suo senso non è più presso di sé, ma presso l’uomo, presso la sua storia sacra o storia di salvezza. Il kósmos perenne che ripete se stesso diventa sæculum, tempo mondano compreso tra un inizio e una fine, tra una creazione e un éschaton, tra una colpa e una redenzione.

Nasce la storia come attesa (Antico Testamento) o come partecipazione (Nuovo Testamento) alla redenzione. In questa storia il mondo non è, come il kósmos greco, theîon e hólon, ma la totalità (hólon) si spezza e il mondo, carico di negatività per la maledizione divina, si contrappone al divino (theîon). A questo punto il filosofo cristiano può contrapporre alla civitas terrena la civitas Dei e tradurre la philía del Greco per il kósmos in quell’amare mundum che, come vuole Agostino,3 acquista immediatamente il significato di non cognoscere Deum.

Tutto ciò comporta un capovolgimento del rapporto tra natura e storia, nel senso che i filosofi greci e i sapienti orientali pensano l’ordine storico-politico in funzione dell’ordine cosmico universale, e in questo senso sono cosmo-politici, perché l’ordine della natura (phýsis) è il paradigma per l’ordine della città (pólis). Platone per edificare la sua politeía guarda l’ordine celeste: l’iperuranio; Lao-Tzu per dare ordinamenti agli uomini guarda il Tao. Iperuranio e Tao sono espressione dell’ordine immutabile a cui il mondo storico-politico si deve adeguare. Scrive infatti Platone:

Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo o un orientamento a esso. Ti rimane però celato che tutto il divenire muove in vista dell’universo, affinché la vita di questo giunga alla sua beatitudine essenziale. La vita non si genera in funzione tua, ma tu vieni generato in funzione della vita cosmica.4

Dal canto suo Lao-Tzu osserva:

Se principi e re fossero in grado di essere guardiani del Tao, allora tutti gli esseri si sottometterebbero a essi. Cielo e terra si unirebbero per lasciar cadere una benefica rugiada che il popolo riceverebbe spontaneamente in parti uguali senza che nessuno debba prendersene cura. [...] L’ordine della città, infatti, seguirebbe l’ordine del Tao la cui rete si getta su vaste estensioni, si apre su di esse e, per quanto allentate siano le sue maglie, nulla sfugge a esse.5

I filosofi dell’Occidente, in quanto filosofi cristiani e post-cristiani, capovolgono il rapporto cosmo-politico, subordinano il primo al secondo e quindi la natura alla storia. Da Agostino a Croce ciò che muta è la concezione della storia da cristiana a secolare, ma anche la secolarizzazione rimane all’interno del sæculum cristiano, per il quale il senso della natura è racchiuso nell’intenzionalità dell’uomo, nella sua soggettività che assoggetta il mondo. Non è più l’ordine del cosmo a dettare legge alla pólis, ma è la pólis, come comunità dell’umano, a definire di volta in volta il cosmo. All’orizzonte cosmo-politico si sostituisce l’orizzonte di una politica cosmica alla quale, scrive Heidegger:

Il mondo appare come un oggetto, un oggetto a cui il pensiero calcolante sferra i suoi assalti, ai quali, si ritiene, nulla è più in grado di opporsi, mentre la natura si trasforma in un unico gigantesco serbatoio di energia al servizio dell’industria e della tecnica.6

Ai reggitori della moderna pólis il compito di controllare e dirigere l’uso e lo sfruttamento della terra. Alla storia e ai suoi ritmi il compito di decidere della natura. Questa relazione storica dell’uomo nei riguardi della natura, condivisa in tutto l’Occidente, cioè dai credenti e dai non credenti, è giudaico-cristiana, non greca.

Il Greco non pensava storicamente. La historía non designava un ambito di indagine particolare, distinto dagli altri, ma si riferiva a quanto in generale era indagabile. Historeîn, come forma verbale, significa “indagare”, “conoscere”, “sapere”, “riferire”. L’antico Greco non pensa storicamente, perché pensa cosmologicamente. Là dove tutto è immutabile o diviene nella forma dell’eterno ritorno manca una memoria del passato o un’anticipazione del futuro.7Ogni evento umano passato viene presentificato nell’orizzonte immutabile del mito.

Così, nel sentimento antico, la storia di Alessandro Magno, dopo la sua morte, andò a confondersi con la leggenda di Dionisio, e Cesare non trovò assurda la sua discendenza da Venere. Per Erodoto, come per Tucidide, gli storici dell’antica Grecia, il passato remoto svaniva nel sentimento calmo e atemporale di una struttura non storica, ma periodica o mitica, mentre il passato prossimo era vissuto e narrato in funzione del presente politico. Valga per tutte l’affermazione di Tucidide che apre le sue Historíai dicendo che:

Gli avvenimenti precedenti la guerra tra Ateniesi e Peloponnesi non li considero importanti (ou megála nomízo ghenésthai) né dal punto di vista militare né per il resto.8

Ora è proprio lo sfondo cosmico, che eternamente è ed eternamente si ripete, ciò che non consente al Greco una prospettiva storica, né in ordine al passato né in ordine al futuro, per il quale mancava ogni idea di progresso o di sviluppo, non essendovi in prospettiva alcun fine o alcuna fine temporale. L’entelécheia aristotelica, che è il solo concetto di “sviluppo” maturato nell’antichità, è del tutto atemporale e astorica. La parola, infatti, rinvia a entelè écho che significa: “ho raggiunto il compimento”, “sono compiuto”, nel senso dell’attività (enérgheia) che raggiunge nell’opera (érgon) il suo compimento. Perciò Aristotele può dire:

L’opera (érgon) è fine (télos), e l’atto (enérgheia) si identifica con l’opera (érgon), e perciò anche il nome stesso di atto (enérgheia) deriva da opera (érgon) e tende allo stesso significato di atto compiuto (entelécheia).9

La storia fa la sua comparsa con il cristianesimo e l’Occidente cristiano incomincia a computare il suo tempo in un “prima” e “dopo” Cristo. La coscienza storica che si sviluppa a partire da Agostino10 e da Orosio11 è coscienza di una storia sacra che, anche quando, a processo di secolarizzazione avvenuto, si chiamerà pro-fana, non cesserà di misurarsi sul sacro (fanum). Al sacro appartengono infatti l’inizio e la fine, la creazione e l’éschaton, il passato e il futuro.

La coscienza storica, che può nascere solo con l’acquisizione di queste due dimensioni fondamentalmente ignote al pensiero greco, nasce e si sviluppa all’interno del sacro. Il mondo espresso dalla civitas terrena ha il suo senso e il suo ultimo giudizio nella civitas Dei. Questa si erge a misura del mondo, della natura e di ogni suo evento, e tale rimane anche nel successivo processo di secolarizzazione. In questo modo si passa dalla phýsis greca al mundus come hominis ævum o età dell’uomo. A questo proposito Jaspers osserva che anche nella lingua tedesca:

La parola “mondo (Welt)” suona, nell’antico alto tedesco, “Weralt”. “Wer” significa, come in “Wergeld”, uomo; “alt” rinvia a “Alter”: età (Zeitalter). Secondo questa origine, “mondo” è l’età degli uomini, il tempo degli uomini. La parola potrebbe significare il tempo di una generazione, l’età commisurata all’esistenza umana. Questo senso deve essere inteso come la traduzione dell’espressione latino-cristiana sæculum, che originariamente significava “età” e in seguito “mondo”. La parola “mondo”, che per l’uomo moderno significa ciò che in sé consiste e che nella sua autosufficienza non è divenuto e non perisce, all’origine significava dunque il contrario.12

La coscienza storica tipica dell’Occidente non è quindi il frutto di una tradizione filosofica, ma l’esito dell’annuncio biblico che ha offerto alla meditazione del mondo giudaico-cristiano il passato come memoria creazionistica e il futuro come attesa escatologica. Con il concludersi dell’epoca medioevale questi due elementi perdono il loro spessore religioso, ma non la loro efficacia storica. Il creazionismo diventa creatività scientifica, mentre l’escatologia, mantenendo lo sguardo dell’uomo proiettato verso il futuro, ispira le figure del progresso, dell’utopia e della rivoluzione.

Quando Bacone legge nel Genesi che Dio, dopo aver creato l’uomo, gli ha affidato il dominio di tutte le creature, scorge in questo evento lo scopo della nuova scienza:

In seguito al peccato originale, l’uomo decadde dal suo stato di innocenza, e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze. In seguito alla maledizione divina, il creato non è diventato interamente e per sempre ribelle: in virtù di quella massima “guadagnerai il tuo pane con il sudore della tua fronte” (Genesi, 3, 19) attraverso molte fatiche (non certamente con le dispute e le oziose cerimonie della magia) finalmente è costretto a dare il pane all’uomo e cioè è costretto agli usi della vita umana.13

Ogni altro sapere che non serve a restaurare l’umanità nel suo dominio non esegue il comando di Dio. In questo senso Bacone può pensare la sua riforma scientifica nel solco della redenzione cristiana, e i risultati della scienza come rimedi agli effetti negativi del peccato originale.14 Quando l’illuminismo vive con Condorcet l’ipotesi ottimistica del progresso,15 e il socialismo esprime con Marx l’urgenza della rivoluzione, l’ambito è escatologico, la prospettiva è nel futuro, secolarizzato finché si vuole, ma sempre nella prospettiva giudaico-cristiana, non certamente greca, per cui risulta difficile smentire Schlegel là dove dice che:

Il desiderio rivoluzionario di realizzare il regno di Dio è il punto elastico di tutta la cultura progressiva e l’inizio della storia moderna.16

In Occidente, infatti, il senso della rivoluzione non è nei contenuti che di volta in volta la sua storia offre, ma nell’aver assunto come propria misura, invece delle revolutiones regolari dei corpi celesti, come avevano fatto i Greci, la propria storia proiettata verso un futuro e condotta con la coscienza biblica di doversela e potersela creare da sé. Se l’uomo, infatti, è imago Dei, allora, come Dio ha creato il mondo, così l’uomo, prima per comando di Dio e poi senza Dio, crea il suo mondo, cioè il sæculum, la sua storia.

Se le figure bibliche della creazione e dell’éschaton hanno consegnato all’Occidente cristiano il senso dell’inizio e della fine, del passato e del futuro, quindi la coscienza storica, che ha sostituito la coscienza cosmologica dei Greci, la relazione al nulla, custodita nelle figure dell’inizio e della fine, ha portato alla svalorizzazione del mondo e al primato dell’uomo. Una phýsis che sboccia da sé o un kósmos che sussiste per sé, questo primo e ultimo tema di ogni espressione del pensiero greco, è annullato dall’ipotesi creazionistica ed escatologica, per la quale il mondo è dal nulla (ex nihilo) e si concluderà nel nulla (ad nihilum). Il nulla è l’orizzonte che accoglie il mondo biblico, il suo inizio è inizio della fine.17

La precarietà del mondo, la sua contingenza, la sua impotenza, nell’economia del discorso biblico, hanno il loro riscatto nell’onnipotenza di Dio. Il senso del mondo infatti non è nel mondo, ma nell’atto volontaristico di Dio che l’ha posto in essere evocandolo dal nulla. Agostino a questo proposito è chiarissimo:

Il responso avuto dal cielo, dalla terra e da tutte le cose che sono in essa diceva: “Non siamo noi Dio, ma egli ci fece (Non sumus Deus, sed Ipse fecit nos)”. [...] Ho interrogato l’intero universo a proposito del mio Dio. E mi rispose: “Non sono io, ma egli mi fece (Non ego sum, sed Ipse me fecit)”.18

Raccogliere il senso del mondo nella volontà di Dio significa affidare a esso un significato, inscriverlo in un progetto, assegnarlo a un fine, perché tutto ciò è implicito in ogni atto volontaristico. Il Genesi stesso non ne fa mistero, ma narra espressamente che Dio, dopo aver creato Adamo ed Eva e dopo averli benedetti, disse loro:

Prolificate, moltiplicatevi e riempite il mondo, assoggettatelo e dominate sopra i pesci del mare e su tutti gli uccelli del cielo e sopra tutti gli animali che si muovono sopra la terra.19

Il segreto del mondo creato da Dio è quindi l’uomo. Questa destinazione verrà confermata nel mistero dell’incarnazione in cui Dio stesso si fa, per amore dell’uomo, creatura nel suo figlio, creatura che, in quanto tale, chiama Dio suo padre. Evocato dal nulla e destinato al nulla, il mondo, a questo punto, non ha più senso in se stesso, ma nell’uomo per il quale è stato creato. Fu così che:

Iddio, che già aveva formato dalla terra tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo, li condusse da Adamo per vedere con qual no-me li avrebbe chiamati; perché il nome che egli avrebbe imposto a ogni animale vivente, quello doveva essere il suo vero nome.20

Allo stesso modo oggi, in assenza di Dio, l’uomo nomina tutte le cose secondo il significato che assumono per lui e secondo il possesso che è stato in grado di realizzare. Evidentemente, con argomenti biblici, non si può obiettare che il nome dato dall’uomo alle cose non è il loro vero nome. Questo lo può dire, e in effetti lo dice, il pensatore greco, per il quale la potenza dell’uomo è superata dalla potenza della natura,21 ma non il pensatore cristiano e post-cristiano per il quale la natura è impotenza alla mercé della potenza prima di Dio e poi dell’uomo.

Oggi, che la scienza e la tecnica hanno dato il nome a tutte le cose, l’uomo, questo “signore delle tecniche (mechanóen téchnas)” come già lo chiamava Sofocle,22 teme che le sorti della natura, dominata dalla potenza dell’uomo, possano sfuggire al controllo che l’uomo è in grado di esercitare sulla propria potenza. La natura, scomposta in atomo, può infatti sfuggire al controllo di questa volontà. Il verificarsi di questa eventualità da un lato rivelerebbe la potenza della natura misconosciuta dalla storia dell’Occidente, e dall’altro condurrebbe questa storia al suo éschaton secondo l’ipotesi biblica. Se questa è la direzione di un possibile senso, comprendiamo quell’incalzante sequenza di domande heideggeriane che chiedono:

Siamo forse alla vigilia della più mostruosa trasformazione della Terra intera, e dello spazio storico-temporale a cui essa è legata? Siamo alla vigilia di una notte che prelude a un nuovo mattino? Siamo in cammino verso il luogo storico di questo crepuscolo della terra? Sta nascendo solo ora questo luogo della sera (Land des Abends)? Questo Occidente (Abend-land) diverrà – al di sopra dell’ “Occidente (Occident)” e dell’“Oriente” e attraverso ciò che è europeo – il luogo della storia (Geschichte) futura più originariamente conforme al destino (Geschick)? Possiamo già dirci occidentali nel senso rivelato dal nostro passaggio attraverso la notte del mondo? A che ci servono le filosofie della storia costruite con criteri storiografici, quando esse non fanno che abbagliarci con la raccolta sinottica dei dati storiografici, pretendendo di spiegare la storia senza mai pensare i fondamenti dei suoi principi esplicativi a partire dall’essenza della storia, e, questa, a sua volta, a partire dall’essere stesso? Siamo noi veramente gli ultimogeniti che siamo? O siamo anche, nello stesso tempo, i precorritori dell’aurora di una ben diversa epoca, che ha lasciato dietro di sé tutte le odierne rappresentazioni storiografiche della storia?23

1 Eraclito, fr. B 30.

2 Genesi, 3, 17-19.

3 Agostino di Tagaste, De civitate Dei (413-426), XIV, 28; tr. it. La città di Dio, Rusconi, Milano 1984, pp. 691-692.

4 Platone, Leggi, Libro X, 903 c.

5 Lao-Tzu, Tao Tê Ching. Il libro della via e della virtù, Adelphi, Milano, 1973, § XXXVII, p. 97.

6 M. Heidegger, Gelassenheit (1959); tr. it. L’abbandono, Il melangolo, Genova 1983, p. 34.

7 Si veda in proposito U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 14: “L’anima e le figure del tempo”.

8 Tucidide, Storie, Libro I, § 1, Rizzoli, Milano 1989.

9 Aristotele, Metafisica, Libro IX, 1050 a, 21-24. A proposito del carattere “astorico” della temporalità greca, Karl Julius Beloch, nella sua Griechische Geschichte, Leipzig 1893-1904, vol. I, 1, p. 125, scrive che: “I tentativi, peraltro assai tardi, dei Greci di costituire qualcosa di simile a un calendario o a una cronologia, seguendo il modello egizio, sono di un’estrema ingenuità. Il calcolo in base alle Olimpiadi non determina un’era, come invece accade nella cronologia cristiana, ma è piuttosto un espediente tardo e puramente letterario, non familiare al popolo, che sembra non sentisse affatto il bisogno di una cronologia che fissasse nel tempo le esperienze dei padri e degli avi, malgrado alcuni eruditi si interessassero al problema del calendario. La stessa lista olimpionica prima del 500 a.C. è un’invenzione, quanto la più antica lista attica degli arconti e quella romana dei consoli. Circa la colonizzazione greca non abbiamo alcuna data autentica e prima del V secolo in Grecia nessuno ha pensato di scrivere una documentazione degli eventi storici. Possediamo l’iscrizione di un trattato fra Elis e Herea, che sarebbe dovuto valere ‘cento anni a partire da quest’anno’. Quale fosse poi quell’anno non è detto”.

10 Agostino di Tagaste, De civitate Dei, cit.

11 Paolo Orosio, Historiarum adversus paganos libri I-VII (417-418); tr. it. Storie contro i pagani, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1976.

12 K. Jaspers, Philosophie, I: Philosophische Weltorientierung (1932-1955); tr. it. Filosofia, I: Orientazione filosofica nel mondo, Utet, Torino 1978, p. 200.

13 F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, II, 52, p. 795.

14 Per una più ampia documentazione dello stretto legame che esiste tra teologia cristiana e scienza moderna si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 33: “L’epoca moderna e il primato della scienza e della tecnica come deriva teologica”.

15 J.A.N. de Condorcet, Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, Agasse, Paris 1795.

16 F. von Schlegel, Ideen, da “Athenäum” (1800), in Kritische Friedrich Schlegel Ausgabe, a cura di E. Behler, J. Anstett, H. Eichner, München-Paderborn-Wien 1958, § 94.

17 A proposito del nichilismo sotteso al concetto di creazione si veda E. Severino, Essenza del nichilismo (1972), Adelphi, Milano 1982 e in particolare i saggi: Sul significato della “morte di Dio” (1969), pp. 253-263, e Risposta alla Chiesa (1971), pp. 317-387.

18 Agostino di Tagaste, Confessiones (401); tr. it. Confessioni, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1992-1997, Libro X, § VI, 9, p. 19.

19 Genesi, 1, 28 (corsivo mio).

20 Genesi, 2, 19 (corsivo mio).

21 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 1, § 2: “L’inviolabilità della natura”.

22 Sofocle, Antigone, vv. 365-366, in Tragedie e frammenti, Utet, Torino 1982.

23 M. Heidegger, Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 303-304.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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