78.

Il senso del tramonto

L’essere viene esperito come fondamento. Il fondamento viene inteso come ratio, ragione, conto. L’uomo è l’animale calcolante. Tutto ciò vale in modo unanime, pur nelle variazioni più diverse, lungo l’intera storia del pensiero occidentale. Questo pensiero, in quanto pensiero europeo-moderno, ha condotto il mondo all’odierna età del mondo, l’era atomica. Al cospetto di questo stato di cose, semplice ma nel contempo inquietante per l’Europa, domandiamo: [...] Dobbiamo abbandonare l’essenza dell’uomo e la sua appartenenza all’essere alla furia del pensiero calcolante e dei suoi giganteschi successi, o non piuttosto cercare i cammini lungo i quali il pensiero sia in grado di corrispondere a ciò che è degno di essere pensato, anziché lasciarsi stregare dal pensiero calcolante? [...] A seconda della risposta che si dà a questa domanda, si decide che ne sarà della terra e dell’esistenza dell’uomo sulla terra.

M. HEIDEGGER, Il principio di ragione (1957), pp. 217-218.

Il tramonto dell’Occidente è il concludersi della sua storia. Per Heidegger, infatti, la storia si fonda essenzialmente sulla differenza ontologica tra essere ed ente, per cui ogni epoca è un’epoca dell’essere, un suo sottrarsi affinché un certo ordine dell’ente possa apparire. La storia, quindi, non è da pensarsi come una successione di epoche “quasi fosse un nastro, un filo che annoda le varie epoche”1 sì da poterle dedurre l’una dall’altra. La storia non è di epoca in epoca, ma da quell’epoché, che è il sottrarsi dell’essere, alle epoche che di volta in volta, in forme sempre diverse, grazie a quel sottrarsi, hanno la possibilità di apparire.

Se dunque la storia si fonda sulla differenza ontologica tra essere ed ente, il non riconoscere più questa differenza è l’estinguersi della storia (Geschichte), è il suo concludersi come autentica storicità (Geschichtlichkeit). La nostra epoca, che ha eliminato la differenza ontologica, assicurando l’essere dell’ente all’interno dell’attività tecnica fondata sul calcolo e sulla pianificazione, non è in grado di conoscere per sé alcun autentico futuro, perché l’accadimento di ogni ente, di ogni “novità”, è qualcosa di irrimediabilmente passato, in quanto pre-visto, pre-calcolato, in quanto anticipatamente voluto.

L’epoca della tecnica, come epoca finale della metafisica, assiste così al rovesciamento di quest’ultima nel suo opposto. La meta-fisica cessa di essere tensione oltrepassante il mondo fisico, per diventare l’ordine pienamente attuato di questo mondo, il modo di funzionare di una certa struttura storica, di una certa civiltà.

Risolto l’essere nell’ente, la metafisica non può più sussistere come attività distinta dal mondo, ma si risolve irrimediabilmente in esso, ponendosi come suo ordinamento e sua stabilità. In questo risolvimento la metafisica realizza il suo trionfo e la sua fine, porta a compimento quello che da sempre è stato il suo intento più o meno mascherato: conseguire il dominio dell’ente disponendo incondizionatamente del suo essere.

Quale altro senso avevano i principi della metafisica, quali il principio di non contraddizione, di causalità, di ragion sufficiente, se non quello di assicurarsi l’essere dell’ente, mediante la disponibilità delle cause e delle ragioni sufficienti a garantire l’essere dell’ente piuttosto che il suo non-essere?

La tecnica, con il suo dispiegarsi nel mondo contemporaneo in forma di pianificazione, porta a compimento l’intento della metafisica, costituendo, come s’è visto, dei fondi, delle stabilità che assicurino il possesso definitivo e incondizionato dell’ente.2 Essa è connessa all’essenza della modernità come Neuzeit, che non annuncia un nuovo (neu) tempo (Zeit), ma un nuovo modo più sicuro di vivere il proprio passato. Infatti la modernità è l’epoca della certezza che si autoassicura, è il tempo in cui l’uomo è continuamente alla ricerca di nuovi punti di assicurazione e di stabilità sempre più solidi.

Nella misura in cui il futuro si distingue dal passato solo per la novità dei “fondi” con cui l’uomo si assicura, si conclude la storia (Geschichte) come destino (Geschick), come in-vio (Ge-schick) incondizionato dell’essere e quindi come novità originaria, a favore della a-storicità della civiltà della tecnica, che non ha più nulla da attendere dal futuro, perché ogni nuovo accadimento è da essa condizionato. Alla Geschichte succede la Historie, come capacità di situare la propria posizione inquadrandola nelle “condizioni” storiche, e l’Historismus come costante ricostruzione e chiarimento delle situazioni a partire dalle “condizioni” storiche.

La volontà, che tutto vuole assicurare e tutto garantire, affinché nulla possa più accadere incondizionatamente sì da sorprendere e intimorire, ma tutto si lasci ricondurre alle condizioni che l’hanno posto in essere, scrive Heidegger, è:

La volontà che si oppone, senza sapere e senza consentire una conoscenza di questo fatto, a ogni destino (Geschick), nel senso in cui questo termine indica l’assegnazione di una apertura dell’essere dell’ente. La volontà che tutto vuole irrigidisce ogni cosa nell’assenza di destino (in das Geschichtlose). La conseguenza di ciò è la astoricità (das Ungeschichtliche), di cui è segno caratteristico il dominio della storiografia (Historie). L’aporia di questa è lo storiografismo (Historismus). Se si provasse a ordinare la storia dell’essere secondo gli schemi della rappresentazione storiografica oggi correnti, tale infelice tentativo confermerebbe nel modo più evidente il dominio dell’oblio del destino dell’essere.3

Tecnica e storicismo, come attività di assicurazione e pianificazione, sono gli aspetti salienti di quella che Jaspers chiama l’epoca della visione del mondo (Weltanschauung) e Heidegger dell’immagine del mondo (Weltbild). “Visione” e “immagine” del mondo sono espressioni che si possono usare solo in riferimento all’epoca moderna, in cui la verità è divenuta la certezza di un soggetto che si certifica da sé, per cui l’ente non ha più alcun essere al di fuori dell’attività rappresentativa e produttiva del soggetto che, in questo modo, costituisce l’unico autentico essere delle cose.

Il trionfo del soggetto, preparato dall’ideîn (vedere) platonico, si accompagna al massimo di oggettività degli enti, che, in tanto possono essere posseduti, in quanto stanno di fronte (ob-jectum, Gegenstand) a un soggetto. Anche le più raffinate e rigorose tecniche moderne di accertamento dell’oggettività, nel senso scientifico della parola, rientrano in quell’attività assicurante e stabilizzante del soggetto, che consente all’oggetto di acquistare una consistenza mai prima posseduta.4

Risolto l’essere in quello che Jaspers chiama l’orizzonte circoscritto della scissione-soggetto-oggetto (Subjekt-Objekt-Spaltung),5 l’ente è assicurato nella misura in cui “rende ragione” di sé al soggetto. Al soggetto dunque e non all’essere spetta l’ultima parola sull’ente.

Ciò significa, scrive Heidegger, che:

Qualcosa “è”, cioè è certificato come ente, solo se è enunciato (ausgesagt) in una proposizione che soddisfa il principio di ragion sufficiente, cioè la tesi del fondamento intesa come principio di ogni possibile fondazione (Begründung) dell’ente.6

L’essere oggetto dell’oggetto, cioè l’essere dell’ente, nella prospettiva del pensiero occidentale, consiste nell’essere rappresentato cioè enunciato, detto, in conformità al principio di ragion sufficiente, per il quale il pensiero è tanto più valido, quanto più riesce a non lasciare nulla di infondato, cioè di inespresso, quanto più riesce a portare alla luce dell’enunciazione tutti i suoi fondamenti. L’esigenza di fondare è l’esigenza di assicurare l’ente, di sottrarlo alla precarietà in cui l’essere lo lascia essere. In questa esigenza di fondazione e di enunciazione di tutti i fondamenti si raccoglie l’essenza del pensiero occidentale e l’inevitabile suo tramonto, perché là dove tutto è fondato, e dove ogni fondamento è esplicitato e detto, non resta più niente da dire.

Da Platone a Hegel l’idea regolativa del pensiero occidentale è quella di un sapere che non abbia presupposti, perché tutti li ha risolti in sé. Quest’idea è la stessa che sostanzia la metafisica come riduzione di tutto l’essere alla presenza, in modo che nulla sia più nascosto (léthe), ma tutto sia “spiegato”, e nel dis-piegamento (alétheia) dimori senza più rimandare ad altro. In questo modo l’essere, il nascosto, si risolve nella totalità dispiegata che è poi la totalità ontica, per cui, alla conclusione e al culmine della metafisica, dice Heidegger: “Dell’essere in quanto tale non ne ‘è’ niente: l’essere – un nihil”.7

L’equivoco di cui è stato vittima il pensiero occidentale, quando ha assegnato a se stesso il compito di portare tutto all’esplicitazione, è l’aver pensato l’essere sul modello dell’ente che è dato nella presenza. Questo equivoco, che rimane a lungo celato, si rivela in tutta la sua luce nel pensiero di Hegel, dove essere e sistema ontico si identificano senza residui. L’essere cioè non può restare alla lunga qualcosa di presupposto all’enunciazione, e pertanto per non contraddire al principium reddendæ rationis, deve risolversi nell’enunciazione. Rispetto a Hegel, Nietzsche non farà che rivelare il fondo volontaristico del principio per cui “Il sistema tutto spiegato che racchiude ferreamente la volontà nelle sue proposizioni è opera della volontà di potenza”.8

In questo modo il pensiero occidentale, mosso alla ricerca del fondamento per spiegare e assicurare tutte le cose, ha ridotto l’essere stesso a fondamento (Grund), che vale solo in quanto è enunciato dal soggetto in una proposizione, in quanto è rappresentato. Così facendo ha smarrito il senso dell’essere che non è Grund, ma Boden, ossia fondo, suolo, terreno su cui soltanto è possibile edificare l’ente e abitare la terra. Per questo Jaspers dice che oggi l’uomo è senza terra (Bodenlos),9 e Heidegger:

Lo scatenarsi, unico nel suo genere, della pretesa di fornire un fondamento minaccia tutto ciò che vi è di familiare (heimisch) per l’uomo, privandolo di qualsiasi fondamento (Grund) e di qualsiasi terreno (Boden) per un radicamento nella propria terra, fino ad arrivare al punto di sottrargli il suolo su cui sono cresciuti finora ogni grande epoca dell’umanità, ogni spirito capace di grandi aperture e ogni caratterizzazione storica dell’essenza dell’uomo.10

La storia, come aprirsi di ambiti in cui le cose vengono all’essere, è storia della verità, cioè dello svelamento; ma ogni svelamento è possibile solo sulla base di un originario nascondimento. Là dove ogni nascondimento è dissolto perché tutto è dispiegato, il pensiero è alla fine e con lui la sua storia, che di ogni Boden ha fatto un Grund, di ogni fondo nascosto un fondamento esplicativo.

Con il congedo dell’essere dalla terra della sera si dischiude quel tempo che Heidegger, commentando Hölderlin, chiama:

Tempo della povertà estrema (dürftige Zeit) caratterizzato da una duplice mancanza, da un doppio non: che “più non” sono gli dèi fuggiti, e “ancor non” sono i venienti.11

In essa siamo ospitati, scrive Jaspers: “come posteri, uomini di un’età spiritualmente frantumata”,12 o, come dice Heidegger: “ultimogeniti di un’età che va rapidamente verso la sua fine”.13 Muoversi in quest’epoca, che, come ha mostrato Nietzsche, è caratterizzata dal crollo delle idee, degli ideali e dei valori metafisici (gli dèi fuggiti), di cui l’Occidente fino a oggi si è nutrito, risulta difficoltoso e incerto.

L’uomo oggi si trova nel rischio più grande che, scrive Heidegger in implicita polemica con Jaspers: “non viene dalla bomba atomica di cui tanta si parla”,14 ma dal pericolo di trovarsi nell’impossibilità di pensare, perché il pensiero come spiegazione ed esplicitazione ha dissolto ogni terreno nascosto (léthe) da cui, solamente, il pensiero come verità (a-létheia) può fiorire e svilupparsi.

Con il risolvimento della verità dell’essere nella certezza oggettiva dell’ente, all’uomo non resta altro destino che quello di errare tra gli enti, perché l’orma dell’essere si è dileguata. Di qui la particolare forza profetica che vengono ad assumere, in quest’epoca di carenza e di massimo pericolo, le parole di Heidegger che annunciano un “futuro da venire” dopo “la notte del mondo” creata dalla metafisica. Siccome però il tempo presente è il tempo del “non ancora gli dèi venienti”, l’uomo oggi non può sapere né conoscere, ma solo presentire ciò che ancora gli sarà dato da pensare, perché finora gli è rimasto celato. In questo senso, si chiede Heidegger:

Siamo noi forse alla vigilia della più mostruosa trasformazione della terra intera e dello spazio storico-temporale a cui essa è legata? Siamo forse alla vigilia di una notte che prelude a un’alba nuova? Siamo in cammino verso il luogo storico di questo tramonto della terra? Sta sorgendo solo ora questa terra della sera (Land des Abends)? Questo Occidente (Abend-Land) diverrà – al di sopra dell’“Occidente (Occident)” e dell’“Oriente (Orient)” e attraverso ciò che è europeo – il luogo della storia futura più originariamente conforme al destino (geschickten Geschichte)? Siamo noi oggi uomini della terra del tramonto, nel senso rivelato dal nostro passaggio attraverso la notte del mondo? [...] Siamo noi veramente quegli ultimogeniti che siamo? O siamo anche nel nostro tempo i precorritori dell’alba di tutt’altra età del mondo che ha lasciato dietro di sé tutte le odierne rappresentazioni storiografiche della storia?15

La risposta è custodita nelle attuali possibilità del pensiero. Cresciuti come siamo in quella terra caratterizzata dal congedo dell’essere, possiamo ancora intendere il senso del linguaggio che lo esprime? Se il linguaggio dell’Occidente è idoneo solo alla dominazione dell’ente, non bisognerà far violenza a questo linguaggio, affinché la voce dell’essere si “tra-duca”, cioè giunga a quel tipo d’uomo, l’occidentale, la cui condizione è quella di essere avvolto non solo dall’oblio dell’essere, ma anche dall’oblio di questo oblio?

Che cosa deve esprimere il linguaggio? Deve fornire nuove spiegazioni o deve corrispondere all’appello del nascosto? Se il pensiero, che in Occidente s’è sviluppato come spiegazione totale e totale esplicitazione, è giunto al suo trionfo, ma anche alla sua conclusione, se non si vuole che il tramonto del pensiero occidentale coincida con il tramonto del pensiero in quanto tale, non c’è che da mutare prospettiva e passare dal pensiero come spiegazione al pensiero come ermeneutica.

L’ermeneutica jaspersiana che trova il suo linguaggio nella cifra, e quella heideggeriana, che, cor-risponendo con i poeti, va alla ricerca del linguaggio, si fondano sul presupposto che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dalla cifra e dalla parola poetica non costituisce il limite o lo scacco del pensiero, ma il terreno fecondo su cui, solo, il pensiero può fiorire e svilupparsi. L’ermeneutica, che così prende avvio, non è mossa dall’ideale metafisico dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto, e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre all’interpretazione e, nell’interpretazione, lascia in libertà (frei-lassen).

Se l’essere, come dice Heidegger è ciò che sempre è “da pensare (das Bedenkliche)”,16 fedele all’essere non sarà quel pensiero che si pone come esplicitazione totale, ma quel pensiero che, rispetto all’ideale esplicativo dell’Occidente, sarà detto “inadeguato”, mentre in realtà è semplicemente consapevole dell’“inesauribilità” dell’essere.

In questo senso, sia lo scopo sia i modi del lavoro ermeneutico di Jaspers e di Heidegger assumono una fisionomia tutta nuova, perché il rapporto essere-pensiero non è più pensato come un processo causalmente strutturato che agisce sotto la spinta del fondamento (Grund) che di ogni cosa chiede il perché, ma è pensato come appello-risposta, come dono-ringraziamento che caratterizzano il rapporto uomo-essere in quella terra (Boden), che non si risolve mai nel fondamento della metafisica, perché anche l’ambito storico in cui l’esserci si muove e costruisce le sue concatenazioni di cause ed effetti, di premesse e conclusioni, è sorretto, dato, reso possibile dal dono dell’essere che, come dono, si dà (es gibt), e, come parola, dà (gibt) l’essere agli enti.

1 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 162.

2 Cfr. il capitolo 54: “La provocazione della tecnica e la riduzione dell’essere a fondo a disposizione (als Bestand)”.

3 M. Heidegger, Überwindung der Metaphysik (1936-1946, 1951); tr. it. Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 51-52.

4 Cfr. il capitolo 3: “La provocazione della scienza e l’oggettivazione dell’essere (als Gegenstand)”.

5 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, pp. 231-272.

6 M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., p. 49.

7 Id., Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 812.

8 Ivi, p. 907.

9 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 34.

10 M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., p. 61.

11 Id., Erläuterungen zu Hölderlin Dichtung (1944); tr. it. La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 57.

12 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 168.

13 M. Heidegger, Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 303.

14 Id., Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, cit., p. 271.

15 Id., Il detto di Anassimandro, cit., pp. 303-304.

16 Id., Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, p. 38.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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