22.

Il Tao di Lao-Tzu

Il Tao: solo esso permane e non muta. È misura di se stesso, mentre l’uomo, la terra, il cielo e tutte le cose hanno la loro misura nel Tao, perché il Tao era prima che sorgessero il cielo e la terra. Volendo dargli un nome lo chiamo “Grande”. In quanto grande è assolutamente lontano. Ma questo lontano è ciò che a un tempo compenetra ogni cosa e quindi è anche dentro il mio pensiero, perciò devo anche chiamarlo come quello che dalla lontananza è ritornato.

LAO-TZU, Tao-tê-ching § 25.

Lao-Tzu, vissuto secondo alcuni nel VI, secondo altri nel V secolo a.C., nacque nello Stato di Chu nella Cina del Nord. Fu archivista di Stato presso la signoria del luogo. A tarda età, quando la sua terra natale andò in rovina, si mise a viaggiare verso Occidente. Per desiderio di una guardia di confine redasse il Tao-tê-ching in cinquemila parole. Dopo scomparve all’Ovest. La biografia di Ssu-ma Ch’ien riferisce che: “Nessuno sa dove sia finito”.

Lao-Tzu è uno di quei pensatori solitari che l’incomprensione della moltitudine isola, come Geremia ed Eraclito. In un passo del Tao riportato da Jaspers si legge:

Io vago tutto intorno come chi non ha dove rivolgersi. Tutti gli uomini hanno il superfluo, solo io sono un mendicante di strada. Debole è la mia mente, confusa è la mia testa! Gli uomini comuni sono sempre di buon umore, io solo sono triste, rotto come un relitto in mare, cacciato di qua e di là come un oggetto che non appartiene a nessuno. Tutti gli uomini sono utili a qualcosa, io solo sono balordo come un campagnolo. Solo io sono diverso dagli uomini perché venero il Tao (Tao, 20).1

In un altro passo Lao-Tzu, con tonalità che potremmo definire eraclitee, avverte l’incomprensione degli altri per il pensiero che egli annuncia, e ricorda che il pensiero appartiene al Tao, come per Eraclito al lógos:

Le mie parole sono molto facili da intendere e molto facili da seguire, ma nessuno al mondo è capace di intenderle, nessuno capace di seguirle. Queste parole hanno un padre, questi atti hanno un padrone. Poiché parole e atti non sono compresi, io non sono compreso. Sono pochi quelli che mi capiscono e questo mi onora. Perciò il saggio si nasconde sotto rozzi panni e conserva il suo tesoro nel suo intimo (Tao, 70).

La differenza tra il saggio e l’uomo comune è nel modo di intendere il Tao. Il Tao è un concetto antichissimo dell’universismo cinese. Il senso originario della parola era “via”, in seguito significò “ordine dell’universo” e “azione giusta” dell’uomo conforme a quest’ordine, infine fu identificato con una divinità personale, e in questa accezione la parola giunse a Lao-Tzu. A questo proposito Jaspers avverte che:

Lao-Tzu diede a questa parola un senso nuovo, chiamando Tao il fondamento dell’essere, sebbene questo fondamento sia di per sé privo di nome e quindi innominabile. Usando questa parola Lao-Tzu trascende tutto ciò che dicesi essere, l’intero universo e lo stesso Tao concepito come ordinamento cosmico.2

Ma che significa fondamento dell’essere? Non è forse l’essere ciò che, infondabile, fonda ogni cosa, nel senso che la fa essere e apparire? La spiegazione, scrive Jaspers, ci è fornita dallo stesso Lao-Tzu:

Per tanto che l’essere è ciò che vediamo, ascoltiamo, prendiamo, per tanto che è immagine e figura, il Tao è nulla. Il fondamento originario si può raggiungere solo nel Tao privo di essere. Questo fondamento non è nulla nel senso di essere assolutamente nulla, ma nel senso del più che essere da cui proviene l’essere. L’essere sorge dal non essere (Tao, 40).3

La distinzione tra essere e fondamento dell’essere avviene con l’impiego di una terminologia che, affrontata con la logica a cui ci ha abituato l’Occidente, può generare equivoci, soprattutto là dove si definisce il fondamento come più che essere identico al non-essere da cui l’essere si origina. Se con l’espressione più che essere intendiamo l’Ente supremo, l’Agathón di Platone “che supera l’essere in dignità e potenza”,4 fraintendiamo Lao-Tzu, il cui impegno speculativo consiste nella continua e ripetuta negazione di ogni tentativo di entificazione del Tao. Del resto il Tao era già entificato, se non addirittura personalizzato, dalla cultura popolare cinese da cui Lao-Tzu si separa, fondando, proprio su questa distanza, la differenza che si fa via via più radicale tra il saggio e l’uomo comune.

Il Tao è il fondamento dell’essere, ma la parola “essere” è qui impiegata da Lao-Tzu nell’accezione di “ente”: Per tanto che l’essere è ciò che vediamo, ascoltiamo, prendiamo, per tanto che è immagine e figura, il Tao è nulla” (Tao, 40). Ora ciò che si lascia vedere, ascoltare, prendere, esprimere in immagine e figura è appunto l’ente, e siccome il Tao non è nulla di tutto ciò, il Tao è niente.

Come nullità di ente, il Tao rivela il suo primato nei confronti di ogni ente (in Lao-Tzu “di ogni essere”), e come tale è più che essere. Il primato risiede nel fatto che, in assenza del Tao, nessun ente (nessun essere) sarebbe e apparirebbe. In questo senso il Tao è fondamento, non in quanto Super-ente che causa gli altri enti, ma in quanto totalità onnicomprensiva, in quanto Umgreifende, che per la sua nullità ontica è in grado di ospitare gli enti quanto al loro essere e al loro apparire. La coscienza della nullità ontica del Tao è così radicale da indurre Lao-Tzu a rifiutargli persino il nome proposto, e in questo senso il Tao-tê-ching inizia con una frase molto significativa:

Il Tao che può venire espresso non è il Tao eterno, il nome che può essere proferito non è il nome eterno. Il senza-nome è origine del mondo celeste e terrestre (Tao, 1).

Questa espressione, che respinge per il Tao quel tipo di sapere intellettuale e oggettivante che l’uomo solitamente impiega per conoscere le cose finite, apre una serie di enunciazioni negative volte a sottolineare la non onticità del Tao e quindi la differenza ontologica tra il senso dell’essere custodito dal Tao e qualsiasi ente a disposizione dell’uomo. Per esempio è detto:

Si guarda a esso e non lo si vede, perciò lo si dice privo di colore. Si tende a esso l’orecchio e non si ode nulla, perciò lo si dice privo di voce. Si tende la mano verso di esso e non lo si coglie, perciò lo si dice privo di materia (Tao, 14).

All’occhio umano, capace solo di vedere l’aspetto delle cose; all’orecchio, attento solo al suono delle diverse voci; alla mano, che afferra solo la corposità della materia, il Tao, che è nulla di tutto ciò, sfugge. “Il Tao è vuoto” (Tao, 4), è l’abisso infinito la cui profondità è incommensurabile, “ non è mai colmato dalla sua azione “ (Tao, 4). Al tentativo di nominarlo, di coglierlo, di comprenderlo, di pensarlo distinto o di vedere in esso delle distinzioni, si sottrae e scompare del tutto. “Esso ritorna nel nulla” (Tao, 14). La pienezza originaria del Tao è più di ogni riempimento o compimento per noi comprensibile, la sua assenza di forma è più di ogni forma da noi afferrabile:

Esso dicesi forma senza forma, immagine senza immagine. Volgendo a esso lo sguardo non si vede il suo volto, andandogli dietro non si vedono le sue spalle (Tao, 14).

Il volto, le spalle implicano la forma, il limite, la distinzione, la determinazione, la finitudine. Un quadrangolo c’è per il limite determinato dai suoi angoli, un vaso per la divisione spaziale che determina, l’immagine per la figura che rappresenta, mentre:

Il Tao è il quadrangolo più grande che non ha angoli, il vaso più grande che non contiene alcuno spazio, la nota più grande che ha un suono che non si può udire, l’immagine più grande che non rappresenta alcuna figura (Tao, 41).

Il Tao è dunque come per Anassimandro l’ápeiron, l’illimitabile che tutto limita, l’incomprensibile che tutto comprende. Il Tao è Umgreifende. Come l’essere di Parmenide, il Tao è immutabile: “Solo esso permane e non muta” (Tao, 25). “Non invecchia” (Tao, 30, 35). “Il Tao è misura di se stesso mentre l’uomo, la terra, il cielo e tutte le cose hanno la loro misura nel Tao” (Tao, 25). “Il Tao è semplice” (Tao, 32, 37), “silenzioso” (Tao, 25), “perfetto nella sua quiete” (Tao, 25).

Come il lógos di Eraclito che ospita l’oppositività dei contrari, così la quiete del Tao non rifiuta il suo opposto. Il Tao si muove, ma questo movimento è assieme quiete, il suo movimento è “ritorno in sé” (Tao, 40). Ciò che nel mondo è contrapposto, nel Tao è uno. Così, per esempio, essere e dovere sono nel Tao la stessa cosa. Come per i Greci la díke, così in Lao-Tzu la legge, secondo la quale ogni cosa accade, è la stessa secondo la quale ogni cosa deve accadere.

Questa identità di opposti che si realizza nel Tao non si risolve in un essere particolare, né coincide con la totalità del mondo. Il pensiero di Lao-Tzu non è panteista. Il mondo, come accadimento della separazione delle determinazioni, non coincide con il Tao che è vuoto perché è indeterminato e senza oggetto. Il Tao ospita il mondo quando si riempie di un contenuto e pone in sé degli enti oggettivi.

Ma in tal modo non viene riempito tutto il Tao in se stesso. Se potesse riempirsi con il mondo che si è prodotto, il Tao sarebbe il mondo (Tao, 4).

Anche al pensiero di Lao-Tzu, quindi, non sfugge l’infinita disponibilità che l’essere ha di sé e la sua inesauribilità nei limiti che delimitano il mondo. Gli enti del mondo sono grazie all’essere che dispone del loro accadimento. A questo punto, conclude Jaspers:

Ci sembra legittimo intendere che il Tao resta, nel suo vuoto, più ricco di possibilità che ogni mera realtà effettiva del mondo. Nel suo essere è più di ogni essere, nel suo fondamento indistinguibile è maggiore di ogni ente determinato e oggettivamente distinguibile. Esso esprime la totalità comprensiva, l’Umgreifende.5

Il pensiero del periodo assiale non ha colto solo la differenza ontologica tra essere ed ente, tra eînai e tà ónta, tra ápeiron e pérata, tra Brahman-Nirvana e dharma, ma anche l’identità o presenza dell’essere nell’ente. La differenza avvertita nel periodo assiale non ha mai annullato l’identità, sì da generare quei dualismi che da Platone in poi saranno tanto familiari alla logica dell’Occidente. La trascendenza non si è mai distanziata al punto da cessare di essere immanente, secondo quella modalità incontraddittoria che la presenza dell’essere nell’ente riesce a realizzare. A giudizio di Jaspers tra le varie espressioni del periodo assiale il Tao è quello che meglio rende il senso custodito dalla trascendenza immanente. Infatti, scrive Jaspers:

Il Tao “che era prima che sorgessero il cielo e la terra” (Tao, 25), “prima del Ti, signore del cielo” (Tao, 4), non è un “altro” assoluto e irraggiungibile, ma è presente. Pur non potendosi percepire, lo si può avvertire come l’essere autentico che è in ogni ente. I segni della sua presenza nel mondo sono questi, qui di seguito descritti6:

a) Il Tao è come non-essere. Dice Lao-Tzu: “Invano gli occhi, le orecchie, le mani cercano il Tao: esso è dappertutto, incombe tutto intorno!” (Tao, 34). “È paragonabile al non-essere, in virtù del quale è ogni essere determinato, come il vaso è in virtù del nulla o spazio vuoto che lo costituisce, o come la casa è in virtù del nulla o vuoto delle finestre e delle porte” (Tao, 11). Il nulla del Tao è quindi quel non-essere per cui ogni ente è. La differenza si completa nell’identità. La trascendenza non respinge da sé l’immanenza. “Poiché è nulla, nessun ente può fargli resistenza, la sua semplicità, per quanto delicata, il mondo non è in grado di intaccarla” (Tao, 32). “Esso attraversa ogni cosa ed è esente da ogni pericolo” (Tao, 25).

b) Il Tao opera come se non operasse. “Il Tao è in ogni tempo senza azione, eppure non c’è cosa ch’esso non faccia” (Tao, 37). “Non si fa notare, come se fosse privo di potenza, la debolezza è il modo in cui si esterna il Tao. Infinitamente operante, opera senza apparire, nel silenzio del suo non far nulla” (Tao, 40). L’operare del Tao, non è l’operare causale che si prefigge scopi o che prevede effetti. Noi che siamo cresciuti in questa logica abbiamo difficoltà a comprendere come il potere si esprima in debolezza, e il fare nel silenzio del non far nulla.

Rilevare la contraddizione, o intendere le parole come libero gioco poetico significa sottrarsi al pensiero propostoci dal periodo assiale, che, sorto prima dell’impiego logico matematico del pensiero, e quindi della sua assolutizzazione, aveva la possibilità di spaziare in campi che saranno poi preclusi al pensare successivo. Uno di questi consentiva a Lao-Tzu di pensare l’ente come libero accadere, in virtù della debolezza dell’essere che, sottraendosi in quanto nullità di ente, lasciava essere l’ente così come ogni ente è. In questo senso, scrive Jaspers:

La strapotenza del Tao lascia accadere liberamente ogni cosa come se ciascuna fosse quello che è di per se stessa e non in virtù del Tao. Perciò in ogni cosa è insita originariamente l’adorazione del Tao, ma: “Nessuno impone di adorare il Tao, l’adorazione dipende dalla libera volontà di ciascuno” (Tao, 51).7

Il Tao non esercita alcuna costrizione sugli enti in quanto, di fronte a essi, scompare, come se non operasse né avesse mai operato nulla. Il suo modo di essere consiste nel “produrre e non possedere, fare e non tenere più a ciò che è fatto, far sorgere e non dominare” (Tao, 51). “Quando l’opera è ultimata, esso non la dice sua. Ama e nutre tutti gli esseri e non fa da padrone” (Tao, 34). “Operando incontrastato nasconde la sua incontrastabilità: dilegua e si adatta, attutisce la sua forza, attenua il suo splendore, si identifica alla sua polvere” (Tao, 4).

c) Dal Tao ogni ente riceve il suo essere. “Il Tao è un abisso simile al padre primo di tutti gli esseri” (Tao, 4). “Si può ben considerarlo come la madre del mondo” (Tao, 25). Le cose debbono la loro sussistenza a questo padre e a questa madre: “La sua potenza le sostiene, la sua essenza le forma, la sua forza le completa” (Tao, 51). “Senza il Tao non c’è cosa che non si perda, ma egli non si rifiuta ad alcuna cosa” (Tao, 34).

d) Il Tao sta al di là del bene e del male. Il bene e il male sono possibili quando il dover essere si distingue dall’essere e lo supera, come fa l’Agathón di Platone. Allora nascono i valori che valgono più dell’essere, dal momento che l’essere vi si deve adeguare. In base ai valori si giudica la storia, salvo poi far valere ciò che la storia esprime nel corso della sua vicenda promossa dalla volontà di potenza. Porre l’essere al di là del bene e del male significa non subordinarlo ai valori e quindi alle valutazioni umane che li pongono, ma pensarlo come fa Lao-Tzu nell’imperturbabilità di chi fa “apparire e sparire le cose alla maniera del cielo, senza alcuna preferenza per nessuno” (Tao, 79). Infatti:

Tutti gli esseri sorgono insieme e noi vediamo che ritornano di là. Quando gli esseri si sono sviluppati, ognuno ritorna alla sua origine. Il ritorno all’origine si dice quiete. Quiete significa aver compiuto il proprio compito. Aver compiuto il proprio compito significa essere eterno (Tao, 16).

Questo brano di Lao-Tzu richiama quello di Anassimandro la cui díke, come s’è visto,8 lungi dal riferirsi a contesti giuridici o morali, esprime la necessità dell’essere che, imperturbabile, regola l’accadimento degli enti nei rispettivi limiti. Quando con Nietzsche la volontà di potenza espressasi nell’Occidente cesserà di elevare valori,9 in base a cui giudicare l’accadere storico, il pensiero ritornerà a pensare “l’eterno ritorno dell’uguale”, ossia quella figura in cui l’essere apparve all’umanità del periodo assiale.

I caratteri fondamentali del Tao ricompaiono come caratteri fondamentali dell’uomo vero, il cui operare si realizza mediante il non agire, l’essere mediante il non-essere, la forza mediante la debolezza. L’uomo decade dalla sua condizione originaria quando, invece del Tao, vuole se stesso. Ciò si realizza con l’intenzionalità dell’azione diretta a uno scopo e con la scelta di uno dei contrari per poter operare in qualche modo nel mondo. Nel primo caso smarrisce il Tao, perché l’intenzionalità si dirige al contenuto del proprio volere, che è sempre rivolto a uno scopo, nel secondo abbandona l’unità degli opposti, in cui il Tao si manifesta, per quel contrario che l’intenzionalità pratica assume come scopo da realizzare nel mondo. L’azione intenzionale, che deve sempre operare una distinzione e una separazione a favore di uno dei contrari per poter agire nel mondo, isola i due lati opposti e quindi smarrisce il Tao che nella loro unità si manifesta, come già il lógos di Eraclito.10

Wu-wei è l’inazione in cui vive l’uomo che si prende cura del Tao. Wu-wei non significa non far niente, ma “agire come se non si agisse”, operare senza far prevalere l’opera, tendere alla comprensione totale della realtà senza fissarla nella forma dell’ente determinato e dell’oggetto conosciuto. Se l’operare è promosso dalla mira intenzionale che, scegliendo, trascura il non scelto, l’operare perde l’onnicomprensività (Umgreifende) del Tao, e si raccoglie nei limiti del volere finito proteso al possesso delle cose.

L’inazione di Lao-Tzu è dunque quell’attività promossa dal Tao e non dalla volontà di potenza che vuole se stessa e le cose del mondo. Per questo: “Il saggio si mantiene nell’attività dell’inattività, opera e non conserva, agisce e non pretende, vivifica e non ha, sostiene e non comanda” (Tao, 2). “Il saggio non vuole se stesso perché sa che chi vince gli altri è forte, ma chi vince se stesso è un eroe” (Tao, 10).

Per Lao-Tzu il mondo umano si trova nella caduta dal Tao. La maggior parte degli uomini sono lontani dal Tao. “La dottrina del non parlare, il vantaggio del non agire, sono cose che ben pochi raggiungono nel mondo” (Tao, 43). La ragione di questa caduta non sta in un fatto verificatosi una volta per tutte nel passato come una sorta di catastrofe dell’essere, ma ha luogo ogni volta che l’intenzione pratica, l’autoriflessione e la volontà di sé assumono il sopravvento.

In un dialogo riportato da Chuang-Tzu tra Lao-Tzu e Confucio, Lao-Tzu dice: “Quando si proviene dal Tao ciò non avviene automaticamente o per potere dell’uomo, quando lo si perde nemmeno ciò accade automaticamente, ma è in potere dell’uomo”. Ciò significa, scrive Jaspers, che: “non si può provenire dal Tao in forza della propria intenzione volontaria, mentre per la propria intenzione volontaria lo si può perdere”.11

Dallo smarrimento del Tao, che è al di là del bene e del male, nascono le virtù, le regole, le norme di vita, e in generale l’etica. Come il mondo greco conobbe l’etica solo in occasione dello smarrimento del lógos, vero êthos o soggiorno dell’uomo, così nel pensiero di Lao-Tzu l’etica nasce quando l’uomo ha smarrito il proprio soggiorno nel Tao:

Quando si è abbandonato il grande Tao esistono allora l’amore umano e la giustizia. Quando compaiono l’intelligenza e il sapere esiste insieme la grande impostura. Quando i sei tipi di affinità non sono in armonia si ha assieme il dovere dei figli e l’amore del padre. Quando il governo è in decadenza e in scompiglio, esistono allora i servi fedeli (Tao, 18).

Al di là dell’etica, il Tao è anche al di là della logica, ossia di quel pensiero intellettuale che, ritenuto idoneo alla comprensione dell’ente, non è assolutamente idoneo alla comprensione del Tao. Tentare di esprimere il Tao con le regole della logica significa averlo già smarrito, perché: “Chi sa, non parla, chi parla non sa. Chi conosce il Tao non lo affida alla parola, chi lo affida non lo conosce” (Tao, 56). Siccome la parola è sempre parola di qualcosa, il Tao è indicibile. Ciò che lo esprime è la presenza lontana o la lontananza presente, è ciò che la logica chiama contraddizione, opposizione, paradosso: “Volendo dargli un nome lo chiamo grande. In quanto grande è l’assolutamente lontano. Ma questo lontano è ciò che a un tempo compenetra ogni cosa e quindi è anche dentro il mio pensiero, perciò devo chiamarlo come quello che dalla lontananza è ritornato” (Tao, 25). “Le vere parole sono come rovesciate, assurde” (Tao, 78).

Il gioco fra i contrari ospitati dal Tao confonde l’intelletto finito regolato dall’identità logica che oppone i contrari in un rapporto escludente. Dopo un vano dibattersi tra paradossi evanescenti, l’intelletto finito è “costretto a camminare con la testa all’ingiù”, perché è incapace di abbracciare la totalità onnicomprensiva (Umgreifende), e quindi di comprendere come dal non-essere proviene l’essere, dal non sapere la verità, dall’inazione l’azione. Solo il circolo, che per la logica è vizioso, è in grado di esprimere il Tao che, essendo “legge a se stesso” (Tao, 25), si lascia comprendere solo “in se stesso” (Tao, 54) e “mediante se stesso” (Tao, 21). Solo quando il pensiero abbandona la sua intenzionalità, rivolta esclusivamente agli enti, nasce con il non-essere degli enti la possibilità di cogliere l’essere.

Per questo il pensiero di Lao-Tzu non conosce la distinzione tra metafisica, etica e logica. Infatti, finché le cose sono legate al Tao, non si distinguono fra loro. Pensare nella distinzione significa allora pensare nello smarrimento del fondamento originario, quando ogni cosa, separandosi dall’altra, si erge falsamente a totalità e si assolutizza nell’opposizione dell’incontraddittorietà logica, nell’isolamento dell’intenzionalità morale, nella finitezza metafisica e, in generale, nella divisione che si afferma in occasione della dimenticanza dell’Uno.

1 La numerazione che qui seguiamo è quella adottata da K. Jaspers, in Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, che si rifà alla traduzione tedesca del Tao-tê-ching compiuta da V. von Strauss nel 1870, ristampata a Leipzig nel 1924. Salvo qualche variazione, si tratta della stessa numerazione dell’edizione italiana del Tao-tê-ching. Il libro della via e della virtù, Adelphi, Milano 1973.

2 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 1186.

3 Ivi, pp. 1187-1188.

4 Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b.

5 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 1187. Anche Heidegger accoglie l’identità tra il senso custodito dall’essere e il senso custodito dal Tao. Si veda a questo proposito il colloquio tra Heidegger e il prof. Tezuka dell’Università imperiale di Tokyo in M. Heidegger, Aus einem Gespräch von der Sprache zwischen einem Japaner und einem Fragenden (1953-1954); tr. it. Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 83-125.

6 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 1187.

7 Ivi, pp. 1187-1188.

8 Cfr. il capitolo 18: “L’ápeiron di Anassimandro”.

9 Cfr. il capitolo 70: “La volontà di potenza e la svalutazione di tutti i valori”.

10 Cfr. il capitolo 19: “Il lógos di Eraclito”.

11 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 1197.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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