95.
La cifra come traccia
Nei confronti della nostra volontà di sapere, che pretende di afferrare l’essere all’origine (am Ursprung), l’essere si comporta come ciò che indietreggia (zurückweicht) e che lascia, nella forma degli oggetti che ci stanno dinnanzi, dei semplici resti (Reste) e delle tracce (Spuren).
K. JASPERS, Von der Wahrheit (1947), p. 37.
Pensata come destrutturazione delle strutture, come sterminio dei termini, l’origine come Um-greifende indebolisce i contorni del concetto (Be-griff) e mostra come la concettualizzazione sia un impossessamento (be-greifen) parziale del senso originario della parola. Così l’origine si lega alla cifra che non è un enigma da decifrare, ma è la forza del significare che, eccedendo sulla definizione concettuale dei termini, li espone alla potenza dell’evocare.
Ciò che le cose e-vocano “in quella trasparenza che diventano attraverso e a partire dall’Umgreifende (durch das Umgreifende von ihm her transparent werden)”,1 è tutto ciò che è sfuggito alla loro oggettivazione, alla loro fondazione all’interno della scissione-soggetto-oggetto (Subjekt-Obiek-Spaltung), che è poi la modalità con cui in Occidente sono sempre state considerate le cose, sia a livello di senso comune, sia a livello di scienza esatta. Il dubbio cartesiano si è infatti risolto in un rafforzamento di quella convenzione pre-scientifica secondo cui le cose sono il loro star-di-contro (Gegen-stand, o-bjectum) a un soggetto che le considera.2
Si è così dimenticato che i dati, a cui si attiene tanto il buon senso quanto la scienza, sono appunto “dati”, portano cioè in sé quel carattere di già accaduto, di già av-venuto, che li connette immediatamente all’origine come al luogo del loro e-venire. In quanto memoria di questo e-vento, la cifra sottrae a ogni oggetto la possibilità di risolversi nella sua oggettività, e alla soggettività, che a ogni oggetto conferisce il suo significato, la possibilità di porsi come origine.
Esponendo ogni dato al suo essere già accaduto, la cifra spezza ogni fondazione dei significati, inaugurando la verità come rottura (Wahrheit im Durchbruch)3 che Jaspers così descrive:
L’esperienza fondamentale dell’essere è in generale un’esperienza di limiti. Ciò che soprattutto importa è dissolvere ogni generalizzazione assolutizzante, per tenersi aperti a una sempre possibile rottura (Durchbruch), perché le tracce dell’Uno (die Spüren des Einen) sono reperibili solo nella rottura effettivamente eseguita (im wirklich vollzogenen Durchbruch). Le figure dell’unità, infatti, non possono che essere figure di rottura.4
L’unità del sapere, questo ideale che l’Occidente ha sempre perseguito, non è una cosa, né un luogo, né un’idea, né qualsiasi altra dimensione che possa essere assunta come principio unico, incontrovertibile e quindi come fondamento inconcusso di un sapere universale e assoluto (verabsolutierenden Allgemeinen), ma è un “tenersi aperto a una sempre possibile rottura (das Sichhoffenhalten für den immer möglichen Durchbruch)”,5 perché solo spezzando i saperi costituiti nella e dall’origine è possibile evitare il risolvimento del senso nel significato e salvaguardare quell’ulteriorità del senso rispetto al significato di cui ogni cifra è traccia (Spur).
Si tratta di quella traccia per cui ogni dato non può nascondere di essere appunto un che di dato, qualcosa che, prima di ogni fondazione, è già accaduto. Il suo accadere è evento gratuito, perché nel suo darsi non è giustificato da altro che dal suo semplice cominciare. L’origine è la traccia, dove l’origine, non designando nulla che possa valere, quanto al suo contenuto, come un che di assolutamente primo, è spazio libero (Raum frei), apertura (Offenheit), pura ampiezza (reine Weite) che non preesiste alle cose che ospita, ma che neppure si risolve nell’interpretazione che di volta in volta si dà delle cose.
Dissolvendo (verschwinden) l’assolutizzazione delle interpretazioni, l’origine risolve ogni cosa in cifra, la sottrae al suo senso de-finito per restituirla, come traccia, alla sua ampiezza. Ciò significa consegnare le cose alle diverse interpretazioni che se ne danno, ricomporre la verità come libertà, scoprire sotto ogni presunta fondazione assoluta quella nascosta verità che la rivela come una delle tante possibili descrizioni.
Svelando le cose non nell’aspetto che hanno quando sono racchiuse nell’interpretazione, ma in quello che acquistano quando sono es-poste come cifre nella rottura dell’interpretazione, Jaspers coglie tra origine e traccia quel nesso che Heidegger indica nella “libertà come essenza della verità”6 e Wittgenstein nella “filosofia, che non può in alcun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio: può in definitiva solo descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è”.7
Lasciare le cose come sono non ha nulla di quell’immobilismo che il modo occidentale di pensare è portato a sospettare. Al contrario questa condizione restituisce le cose al loro essere, sottraendole a quella sistemazione che ogni interpretazione pretende come definitiva. Per questo Jaspers ritiene che:
Non si può caratterizzare l’universalità del linguaggio se non attraverso la sua presenza in tutti i modi dell’Umgreifende. Infatti solo ciò che il linguaggio raggiunge, c’è propriamente, dà notizia di sé, entra nella chiarezza e perciò in movimento (und damit in Bewegung).8
Si tratta di quel movimento che la parola sviluppa come cifra simbolica, articolando il flusso delle rappresentazioni. È in questo movimento, e in esso soltanto che la parola dispiega la sua potenza rivelatrice. Al di fuori, infatti, essa non solo è privata del suo infinito significare, ma, lungi dall’essere rivelazione, diventa determinazione unilaterale e, come tale, tendenzialmente falsa. Per attingere alla pienezza del significato non bisogna allora trascurare il movimento della parola, non bisogna sottrarla a quella che Jaspers definisce la “fantastica corrente del suo accadere (traumhaften Strom des Geschehens)”.9
Come accadimento, l’originarietà del linguaggio non è interpretabile come un prendere inizio, perché ogni inizio è già interno a quell’accadimento originario che è il linguaggio. In tal modo l’ermeneutica jaspersiana mette in chiaro quell’attualità del dire che si dice dicendo, e di cui non si può identificare l’inizio, poiché da sempre si è in esso. Da esso si dispiegano le varie onto-logie, i vari discorsi sugli enti, la cui impossibilità di porsi come assoluti dipende dal fatto che prendono inizio da quello sfondo mobile e indefinito che, invisibile in sé, si fa visibile come periec-ontologia, come perimetro degli enti.10
1 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 38.
2 Id., Descartes und die Philosophie, De Gruyter, Berlin 1937, pp. 66 sgg.
3 Id., Von der Wahrheit, cit., pp. 710-868.
4 Ivi, p. 709.
5 Ibidem.
6 M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit (1930-1943); tr. it. Dell’essenza della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 143-151.
7 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen (1953); tr. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974, § 124, p. 69.
8 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 411.
9 Ivi, p. 412.
10 Sulla distinzione, propria della terminologia jaspersiana, tra ontologia e periecontologia si veda il capitolo 34: “Necessità del naufragio di ogni ontologia. Ontologia e periecontologia”.