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Heidegger: la differenza ontologica e il passo indietro
La differenza tra essere ed ente è l’orizzonte nel cui ambito la metafisica, il pensare occidentale nella totalità del suo essere, può essere ciò che essa è. Il passo indietro si muove quindi dalla metafisica verso la possibilità interna a essa. [...] È un passo che richiede una durata e una costanza, la cui portata noi non conosciamo ancora. Intanto una cosa è certa, e cioè che tale passo esige una preparazione, una disposizione esistenziale che non può essere più rimandata.
M. HEIDEGGER, Identità e differenza (1957),p. 220.
Una volta che l’uomo è riscattato dalla definizione che lo pensa a partire dall’animalità ed è inteso come luogo della manifestazione dell’essere, il primo dovere che attende chi si incammina lungo il sentiero che conduce alla comprensione del problema dell’essere è quello di “non raccontar favole (mythón tina diegeîsthai)”. Questa citazione, tratta dal Sofista di Platone (242 c), compare nelle prime pagine di Essere e tempo, l’opera heideggeriana impegnata nella ricerca del senso dell’essere. Ma che cosa significa “non raccontar favole”? Risponde Heidegger:
Non pretendere di determinare l’ente attraverso un riferimento derivato da un altro ente, quasi che l’essere avesse il carattere di un possibile ente.1
Questa chiarificazione mette sotto accusa la metafisica occidentale che in tutte le forme assunte ha sempre preteso di spiegare un ente (sensibile, creato, mondano) sul fondamento di un altro ente (sovrasensibile, increato, divino). Secondo Heidegger questo tentativo è destinato al naufragio. Per rendercene conto è necessario cogliere quella differenza ontologica tra ente ed essere che sta alla base di tutta la sua speculazione. “Ente (das Seiende)” è il termine che indica ogni determinazione della realtà, e corrisponde al greco tò ón. “Essere (das Sein)” è ciò che entifica l’ente, ciò che lo fa essere ente e non ni-ente, e corrisponde al greco eînai. “Verità ontica” è la verità che riguarda l’ente, “verità ontologica” è la verità che riguarda l’essere.
Dopo questa chiarificazione terminologica è possibile entrare nel vivo della questione, seguendo quella domanda filosofica fondamentale che accompagna dal suo nascere la storia della metafisica. La domanda vuol comprendere perché questo ente, quest’altro ente, e in generale tutti gli enti, che quanto alla loro essenza potrebbero anche non-essere, si trovano a essere. In altri termini: “Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?”.
Si è visto che la cattiva impostazione della domanda è pregiudiziale per il senso della risposta.2 Se la domanda viene collocata all’interno di quell’anticipazione matematica costituita dal principio di causalità, il significato che esprime è il seguente: “Chi fa essere l’ente piuttosto che il nulla?”, dove è sottinteso che il “chi” è pensato come un ente, perché il principio di causalità, come del resto ogni anticipazione matematica, si trattiene nell’ambito ontico, dove sono rintracciabili solamente cause ed effetti.
Come in tutte le anticipazioni matematiche in cui non esiste una libertà di risposta, ma, come scrive Kant, sono attese quelle sole risposte previste dall’anticipazione stessa,3 così nell’anticipazione causale la domanda: “Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?” non può significare altro se non la richiesta di una causa, di un fondamento, di un ente in grado di sottrarre la totalità degli enti alla possibile rapina del nulla. Quando la storia della filosofia parla di Arché, di tò Agathón, di Atto puro, di Causa prima, di Causa sui, di Ratio, chiama con diversi nomi quello stesso Ente pensato a fondamento della totalità degli enti. L’anticipazione logica della domanda decide del contenuto “ontico” della risposta.
Lo spazio per un diverso pensare è immediatamente sottratto dall’impostazione logico-causale del pensiero diretto alla ricerca del fondamento. Quest’ultimo è cercato nell’ambito degli enti, il solo a disposizione della logica causale, per cui l’Ente supremo (das Seiendeste), preposto a fondamento ultimo dell’essere degli enti, è a sua volta fondato da quella logica che, seguendo la sua via ontica, altro non può trovare che un ente causa di tutti gli enti. In questo senso l’ente-Dio è un prodotto logico, per cui il valore della teologia ontica (della teologia che pensa Dio come ente) dipende dal valore della logica causale che lo fonda. L’ipoteticità di quest’ultima non può non coinvolgere l’esistenza di Dio, pensata come risposta a quella domanda causalisticamente impostata.
Un modo di impostare la domanda: “Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?”, al di fuori della logica causale, è il seguente: “Che senso ha che a essere sia l’ente e non piuttosto il nulla?”. Qui il “perché” non rinvia alla ricerca di una causa, ma alla comprensione di un senso. La ricerca non abbandona subito l’ente a cui inerisce la possibilità del nulla, per andare alla ricerca di quell’ente in grado di garantirlo dalla minaccia contenuta in quella possibilità, ma, trattenendosi presso l’ente, lo penetra, per così dire, nel suo significato, allo scopo di comprendere il senso racchiuso nel suo “è”.
L’ente, infatti, è “ciò che è”. Il piano di ricerca che così si dischiude non è più ontico, ma ontologico; non perviene all’ente-ragione o all’ente-fondamento, ma si trattiene nelle prossimità di quell’“è” da cui attende l’indicazione del “perché”. Al “perché” della risposta (weil) subentra, meglio compreso, il “perché” della domanda (warum?). Al discorso logico si sostituisce il silenzio proprio di chi si dispone all’ascolto di una parola (lógos) in grado di annunciare il senso. La parola è “essere”.
L’essere è l’impensato da pensare. “Impensato” perché la metafisica che si è sviluppata in Occidente, con la sua impostazione “onto-teo-logica”,4 s’è raccolta intorno all’ente obliando l’essere; “da pensare” perché nell’oblio dell’essere non è possibile pensare ente alcuno.
“Essere” ed “ente” sono in un rapporto di identità e differenza. Questo duplice rapporto va tenuto costantemente presente per evitare da un lato la dimenticanza della differenza, il cui oblio determina l’assorbimento dell’essere nell’ente e quindi lo smarrimento del senso dell’essere come ha puntualmente fatto tutta la metafisica occidentale, dall’altro la dimenticanza dell’identità, il cui oblio separa a tal punto l’essere dall’ente da entificare il primo, che viene raccolto nell’inseità della sua radicale trascendenza, e da rendere insignificante il secondo quanto al suo “è”.
Dire che l’essere è identico all’ente significa affermare che l’essere è sempre l’essere dell’ente, che non v’è altro essere all’infuori di quello che si trova presso l’ente, per cui l’ente è pres-ente. L’essere è identico all’ente perché è la sua “presenza”. Il perdurare di questa presenza è il perdurare dell’essere dell’ente, il suo sottrarsi è il non esser più dell’ente: è il ni-ente. Sullo sfondo di questa identità, per cui non esiste alcun essere in sé a prescindere dall’“è” dell’ente, a prescindere cioè dal suo accadimento originario, dire che l’essere è differente dall’ente significa negare che l’essere sia l’ente, perché, se così fosse, l’ente non potrebbe nemmeno accadere nell’essere perché sarebbe già essere.
Pensare in questi termini l’identità-differenza significa dire che l’essere dispone dell’accadimento dell’ente, della sua sottrazione al niente, mentre l’ente non dispone di sé perché, se non fosse per l’essere che lo fa essere, per sé sarebbe “ni-ente”. Questo discorso vale ovviamente anche per l’Ente supremo che in quanto ente, come ogni altro ente, non può disporre di sé, e tanto meno può disporre dell’essere di tutti gli altri enti. La metafisica svoltasi in Occidente, nel tentativo di sottrarre la totalità degli enti alla possibile rapina del nulla mediante il ricorso a un Ente supremo, ha pensato l’essere come qualcosa a disposizione di quest’ultimo, e quindi ha smarrito il senso dell’essere che non è a disposizione di alcun ente, ma, al contrario, dispone l’accadimento di ogni ente. Alla base dello smarrimento del senso dell’essere c’è la sua identificazione, il suo assorbimento nell’Ente supremo, c’è quindi la dimenticanza della differenza ontologica che non vale solo per questo o quell’ente, ma per ogni ente.
Il quadro onto-teo-logico espresso dalla metafisica, pensando la differenza ontologica a proposito di tutti gli enti e sopprimendola a proposito dell’Ente supremo, finisce col privilegiare un ente fra tutti gli enti senza esibire il senso del privilegio accordato. La metafisica può proseguire la propria direzione onto-teo-logica solo dopo aver indicato il senso di quell’affermazione da cui è partita, ossia dopo aver mostrato in virtù di che cosa, come vuole l’espressione di Platone: “Il Bene non è l’essere, ma si colloca oltre l’essere e lo supera in dignità e potenza”.5
Questa dignità (presbeía) e questa potenza (dýnamis), in quanto oltrepassano l’essere, si pongono in quell’alterità dall’essere che solo il nulla è in grado di significare. Si dischiude così l’epoca del nichilismo come epoca della dimenticanza della differenza ontologica e quindi del senso dell’essere. E questo perché, dice Heidegger: “Promuovere solo l’ente nella dimenticanza dell’essere – questo è nichilismo”.6
Il nichilismo non annulla l’essere, ma considera l’essere come unnulla, appunto perché considera l’ente come un tutto. Non a caso Nietzsche, che si colloca negli ultimi tempi dell’epoca metafisica, definisce l’essere “ultima esalazione di una realtà che svanisce”.7
Il richiamo a Nietzsche ci induce a meditare sui sentieri dischiusi dalla volontà di potenza che ha determinato la dimenticanza della differenza ontologica e quindi la riduzione dell’essere al nulla. Differenza ontologica significa che l’ente, che essenzialmente può non essere, si trova a essere; si trova a essere non per sé, ma perché l’essere acconsente al suo accadimento. L’incondizionatezza dell’accadimento è ciò che turba l’uomo, il quale, trovandosi fra gli enti su cui fa affidamento, non può sopportare l’incondizionatezza del loro accadere, ma ne vuole in qualche modo condizionare l’accadimento. L’uomo vuole in qualche modo decidere le sorti di quegli enti su cui poggia la sua vita.
La volontà di potenza che qui si annuncia muta l’ottica metafisica: all’essere che incondizionatamente determina l’accadere dell’ente, il quale accade finché l’essere gli si accompagna, preferisce un Dio, che si può anche pregare affinché l’evento accada secondo le attese, o una Ragione dal cui sviluppo si attende che le cose accadano come anticipatamente si era preventivato. Quando la teologia e la scienza si muovono nella dimenticanza dell’essere procedono sospinte dalla volontà di potenza che, anche quando parla della bontà di Dio o del positivo progresso della Ragione, altro non pensa che all’uomo e alla sua incondizionata volontà di volere. In questo senso dice Heidegger:
L’uomo, da diversi punti di vista, ma ogni volta deliberatamente, prende posto nel bel mezzo dell’ente, senza per questo essere l’ente più elevato.8
Alla dimenticanza del senso dell’essere si accompagna la dimenticanza dell’essenza dell’uomo, la cui dignità non risiede nella volontà di potenza, ma in quella non-potenza sull’accadimento che lo rende idoneo alla comprensione della verità. A questa infatti si accede solo se si lascia essere l’ente così come è, ossia come ente dell’essere. Il genitivo esprime una duplice appartenenza dell’ente all’essere e dell’essere all’ente. Come precisa infatti Heidegger: “L’ente non è senza l’essere, così come l’essere non è senza l’ente”.9
In questa appartenenza è custodita la differenza tra essere ed ente come differenza tra “l’andare-a... (Überkommnis)” e “l’arrivare-a... (Ankunft)”. L’andare-a... implica l’arrivare-a... senza esserlo; così come l’arrivare-a..., pur differenziandosi dall’andare-a..., lo implica come ciò che l’ha reso possibile. Possiamo dire che l’essere è nell’ente solo se affidiamo a quell’“è” il senso transitivo di andare nell’ente, pervenire all’ente, determinando così quell’arrivo che è l’ente. Solo dell’ente si dice che è (ist), perché l’essere non è, ma si dà (es gibt). Nel darsi dell’essere consiste l’essere dell’ente e il suo svelarsi. Se verità, alétheia, significa non-nascondimento, l’essere è la verità dell’ente, perché con lo stesso atto con cui l’essere sottrae l’ente dal nulla lo sottrae dal nascondimento e, svelandolo, lo presenta. In questo senso l’essere è la presenza dell’ente.
Se la differenza tra essere ed ente è la differenza tra l’inviarsi-a... e l’arrivare-a..., il superamento della metafisica onto-teo-logica, che si è sempre trattenuta all’arrivo nella dimenticanza dell’invio, può avvenire solo con un passo indietro (zurück zu Schritt) in grado di risalire dall’arrivo all’invio. Solo in questo modo l’arrivo può essere pensato come “arrivo” e l’ente può essere pensato nel suo “è”. A partire da queste considerazioni, Heidegger conclude dicendo:
Questo che è stato detto vale soprattutto per il tentativo del nostro pensare nel passo indietro, cioè dall’oblio della differenza in quanto tale a questa, alla coscienza di essa, come il diporto dello svelante andare-a... (Überkommnis) e dell’ascondentesi arrivo, dell’arrivare-a... (Ankunft). [...] Possa una tale osservazione rischiarare il cammino nel quale un pensare è in via, quel cammino che il passo indietro viene tracciando, al di là della metafisica nell’essenza di essa, al di là dell’oblio della differenza in quanto tale nel destino dell’inoggettivabile (perché sottraentesi) nascondimento del diporto.10
1 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, § 6, p. 84.
2 Cfr. il capitolo 4: “La domanda filosofica in Heidegger e Jaspers”.
3 I. Kant, nella Prefazione alla seconda edizione della Kritik der reinen Vernunft (1787); tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1959, ha illustrato molto bene il procedimento della domanda scientifica impostata sulla base dell’anticipazione matematica. In quel passo si legge che: “Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato, con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso, che egli stesso sapeva già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta, e, più tardi, Stahl trasformò i metalli in calce, e questa di nuovo in metallo, togliendovi o aggiungendo qualche cosa, fu una rivoluzione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con i princìpi dei suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, con le redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno. È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbian valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi princìpi: per venire, bensì, istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sebbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge”.
4 La metafisica che si è sviluppata in Occidente è onto-teo-logica perché, a seguito dell’impostazione logica della domanda, scaturisce una risposta sul piano ontico che approda all’affermazione dell’ente-Dio (teologismo) causa e ragione di tutti gli enti. Si veda a questo proposito M. Heidegger, Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, in “Teoresi”, 1967, pp. 215-235.
5 Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b: “Ouk ousías óntos toû agathoû, all’éti epékeina tês ousías presbeíai kaì dynámei hyperéchontos”.
6 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 207: “In die Vergessenheit des Seins nur das Seiende betreiben – das ist Nihilismus”.
7 F. Nietzsche, Götzendämmerung, oder: Wie man mit dem Hammer philosophiert (1889); tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI, 3, p. 73. Citato da M. Heidegger in Introduzione alla metafisica, cit.,p. 46.
8 M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit (1931-1932, 1942); tr. it. La dottrina platonica della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 190.
9 Id., Nachwort zu “Was ist Metaphysik?” (1943); tr. it. Poscritto a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, cit., p. 260.
10 Id., Identità e differenza, Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, cit., pp. 229, 234.