16.
Oriente e Occidente
La civiltà greca sembra un fenomeno periferico dell’Asia, da cui l’Europa si sarebbe separata in tempi antichi come da un grembo materno. A questo punto sorge l’interrogativo. Dove, quando e come è avvenuta la rottura? È possibile che l’Europa si perda ancora nell’Asia, nelle sue profondità, nel suo livellamento inconscio? [...] Asia-Europa è una cifra che accompagna l’intera storia universale.
K. JASPERS, Origine e senso della storia (1959), pp. 98-99.
Il rapporto fra Oriente e Occidente si annuncia già nel periodo assiale come una polarità interna che diventa via via sempre più decisiva. Già in Erodoto è espressa con una certa evidenza la coscienza dell’antitesi tra levante e ponente, nella cui contrapposizione il Greco, fondatore dell’Occidente, trova la via della propria progressiva identificazione. I Greci infatti hanno fondato il mondo dell’Ovest, ma in maniera tale che esso continua a esistere solo finché tiene il suo sguardo rivolto all’Oriente, si mette a confronto con esso, lo comprende e se ne distacca, adotta i suoi elementi e li rielabora fino ad appropriarsene, si impegna con esso in una lotta da cui trae, in termini sempre più occidentali, la propria identità.
I Greci e i Persiani, la divisione dell’Impero romano negli imperi d’Occidente e d’Oriente, la cristianità occidentale e orientale, il mondo occidentale e l’Islam, l’Europa e l’Asia sono le successive forme assunte dall’antitesi in cui culture e popoli allo stesso tempo si attraggono e si respingono. Questa antitesi è stata in ogni tempo un elemento costitutivo in cui l’Occidente da un lato e l’Oriente dall’altro si sono riconosciuti. In questo senso, scrive Jaspers, è possibile dire che “la polarità Asia-Europa è una cifra che accompagna l’intera storia occidentale”.1 Il senso di questa opposizione è espresso dall’accentuazione di uno dei due termini che compongono l’antitesi: sfida (Trotz) e abbandono (Hingabe). Di fronte al dispiegarsi del reale nella sua interezza l’uomo del periodo assiale si domanda: perché il reale è così? Secondo Jaspers:
Questa domanda conduce alla sfida contro la radice della realtà o all’abbandono che non sfida, ma confida in ciò che non si lascia pensare.2
La domanda sull’essere e sul perché del suo aspetto (eîdos) risulta ancora una volta decisiva. L’atteggiamento che si assume come risposta risulta discriminante. La sfida, infatti, è ribellione (Empörung) all’essere, è rifiuto della felicità in quanto fuggevole nella corrente del continuo dissolvimento. Si sfida la precarietà del reale, non la si vuol assumere come propria, ci si ribella contro il fondamento da cui si è provenuti. Nella possibilità del suicidio, che nasce da un atteggiamento di sfida, sorge la tentazione di rendere di propria volontà ciò che senza l’intervento della propria volontà è toccato in sorte. Il nichilismo che accoglierà il destino dell’Occidente è già alle origini come rifiuto dell’essere e opposizione al suo accadere.
Oltre al rifiuto che la genera, la sfida contiene il principio della rivolta. Allora, scrive Jaspers: “la sfida assume la forma dell’originaria volontà di sapere”,3 e più o meno affrettatamente propone risposte che esprimono dominio sull’essere e appropriazione della sua storia. Nasce l’anima occidentale che trova in Prometeo e in Adamo il senso della sfida aperta e la traccia della via da seguire. Infatti, scrive Jaspers:
Prometeo si rese colpevole perché portò coscienza, sapere e tecnica agli uomini abbandonati che Zeus voleva mandare in rovina. L’uomo occidentale trovò il senso della propria origine nella ribellione di Prometeo che, anche se incatenato alla roccia, non vien meno a se stesso, ma è capace di una voce d’accusa che conquista nello smisurato dolore dell’impotenza, e che non abbandona la violenza finché la divinità non muta disposizione, ed egli non si sente disposto a riconciliarsi nell’abbandono. Questo mito richiama una colpa remota legata alle origini dell’uomo. Una colpa che, nel suo significato originario, può essere accostata al peccato originale. Il sapere, infatti, che fa dell’uomo un uomo e che gli offre tutte le possibilità connesse al suo effettivo futuro, respinge Adamo dal paradiso. Anche il Dio dell’Antico Testamento teme la pericolosa ascesa di Adamo, “Adamo è diventato come uno di noi”, e con l’espulsione traduce un fatto accaduto in una decisione irrevocabile che continua ad avere la sua efficacia. La colpa originaria della libertà nascente è a un tempo la colpa originaria della violenza divina.4
Alla violenza dell’uomo che si erge nella sfida si accompagna quella dell’essere che si esprime nell’abbandono dell’uomo. Realizzandosi nella liberazione dall’essere (Adamo) o nel suo dominio (Prometeo), l’uomo occidentale si rende colpevole perché capovolge quel rapporto metafisico originario che prevede l’essere come dominante e l’uomo come custode di questo dominio. Di questo capovolgimento ha coscienza la tragedia greca che con Sofocle giunge a dire:
Molte sono le cose inquietanti (deiná)
Ma nessuna più dell’uomo (deinóteros).5
Deinóteros è l’uomo che si esprime nella sfida, è il violento, la cui violenza resta però sempre circoscritta dalla potenza dell’essere. Quest’ultima, nel coro dell’Antigone, è figurata dalla quiete del mare che ha il sopravvento sull’uomo che osa sfidarla, dalla fecondità della terra che prorompe sulla prepotenza dell’uomo che la sfibra con i suoi aratri, che la violenta con la caccia, con la cattura e con la sua animalità selvaggia.
Con la parola l’uomo esercita una violenza più oscura. Dominando tutte le cose che nomina, si arrischia in tutte le direzioni dell’essere, ma proprio allora si trova lanciato fuori da ogni via (áporos), fuori dalla quiete che gli è familiare, fino ad arrivare alla rovina (áte). Associandosi, crea nella violenza la pólis come luogo della sua dimora, ma proprio per questo resta ápolis, solitario, senza frontiere, in quanto egli stesso le ha poste.
Violentandolo col sapere e dominandolo con la téchne, l’uomo si espone alla potenza tranquilla dell’essere. Resta aperto alla sua strapotenza come incidente, la cui comparsa è regolata dalla forza prorompente dell’essere, che, sottraendosi nella sua verità, appare sotto il giogo dell’uomo. Ma l’apparenza non convince, l’inquietudine non si riduce, l’uomo affina la sua sfida con l’astuzia, nel tentativo di ottenere in dono dal più potente quanto non è riuscito alla propria potenza. Nasce la preghiera propiziatrice, che però non appaga l’uomo che vuole sapere i disegni di Dio, il perché della propria impotenza, il senso del proprio limite, dello scacco, del naufragio della propria volontà di potenza.
Di fronte a tutto ciò la via dell’abbandono si fa seducente, ma prima di decidersi l’uomo vuole sapere, vuole conoscere il senso dell’inevitabilità dell’abbandono. Nasce la teodicea perché, scrive Jaspers:
L’abbandono esige per sé un fondamento. Il sapere che nasce e che alimenta la sfida connessa alla volontà di sapere deve servire all’abbandono che cerca di rendere tutto comprensibile partendo dalla divinità. [...] Di nuovo si ripropone la domanda relativa alla necessità di una compensazione, non in vista di un bilancio soddisfacente, ma in vista di un abbandono nella superiorità possibile dell’esserci che il singolo riconosce grazie alle risposte che si annunciano all’ombra di una concezione universale.6
Abbandonarsi sì, ma non ciecamente. A deciderlo deve essere la ratio, in cui la sfida trova a un tempo l’ultimo ripiego o l’ultima espressione. Mentre, osserva Jaspers:
Il vero abbandono rinuncia al sapere, perché si affida al fondamento dell’essere. L’abbandono è autentico solo nel non sapere, è l’annullamento dell’esserci nell’essere, senza che quest’ultimo possa essere conosciuto. Quando invece l’abbandono cerca una giustificazione nel sapere diventa inautentico, mentre la rassegnazione, intesa come fiducia attiva, è in grado, nel non sapere, di gettare uno sguardo nella trascendenza.7
Non è difficile scorgere nell’antitesi sfida e abbandono la differenza che andrà via via separando l’Occidente dall’Oriente. L’Oriente non ha mai contrapposto l’uomo all’essere, così da generare quella serie di dualismi in cui si è espressa a tutti i livelli la metafisica occidentale. L’uomo orientale non ha mai vissuto la sfida all’essere e quindi anche l’abbandono non è stato frutto di decisione, ma di originaria comprensione della totalità, avvertita come ospitante l’uomo. L’Oriente non ha avuto figure titaniche, mitizzate nell’atteggiamento della sfida, non ha conosciuto la adikía di chi vuole comunque permanere al di là e oltre i propri limiti. In Oriente il pólemos ha assistito al succedersi secondo giustizia, non all’ostinazione tracotante. Il dominio dell’essere non è mai stato vissuto come problema, le espressioni imponenti della sua presenza onnicomprensiva (Umgreifende) hanno tenuto lontano la possibilità dell’oblio, di cui invece fu vittima l’Occidente nel corso della sua storia.
Oggi l’Occidente minaccia di travolgere l’Oriente con la sua logica di potenza. L’Oriente rischia di estinguersi senza che la sua parola possa essere intesa nel senso in cui è stata enunciata. Le prospettive nichiliste che si dischiudono non sollecitano l’inquietudine del pensiero. L’uomo, “il più inquietante tra le cose inquietanti”, oggi appare acquietato dalla rassegnazione che nasce dall’impossibilità di mutare l’ordine delle cose.
Le conseguenze ultime che scaturiscono dall’originario atteggiamento di sfida, da quell’ergersi tracotante nei confronti dell’essere, ridotto a pura materia da utilizzare, non sono sentite come l’esito conseguente a un proprio atteggiamento scelto e rigorosamente attuato nella storia, ma sono interpretate come accadimento naturale, tipico cioè della natura dell’uomo, a cui non ci si può opporre, perché bisognerebbe “cambiare la natura”. Non solo quindi il nichilismo con le sue conseguenze, ma anche le ipotesi correttive sono pensate nella direzione della sfida, che, intervenendo, ancora una volta cambia l’ordine delle cose secondo giustizia (díke) e natura (phýsis).
Si suppone cioè che la tecnica, ultima espressione occidentale della sfida, sia riducibile con la tecnica, per una sorta di dialettica che, opponendo al medesimo il medesimo, spera il diverso. In questa speranza non nasce neppure il sospetto che la negazione della negazione, così come è stata intuita da Eraclito, debba esprimere non la riduzione della sfida mediante l’intervento di un atteggiamento sfidante di segno diverso, ma la riduzione della prepotenza dell’uomo a favore della superiore potenza dell’essere.
Il periodo assiale, nella sua comprensione dell’essere come Umgreifende, ospita entrambe le possibilità: quella orientale e quella occidentale. In quel periodo, infatti, si ha coscienza della possibilità dell’opposizione uomo-essere, ma il pensiero espresso è ancora voce del lógos che vive prima della divisione, e soprattutto prima della decisione o separazione dell’Occidente dalla comprensione unitaria e dominante dell’essere.
Presentare l’Occidente come una de-cisione, ossia come una separazione dalla verità dell’essere espressasi nel periodo assiale e maturatasi nel pensiero orientale, significa, nell’economia della storia universale, interpretare l’Occidente come una parentesi che, sia pure bimillenaria, resta insignificante nell’economia totale. La drammaticità nasce dal fatto che la potenza dell’Occidente ha raggiunto possibilità tali che le consentono la soppressione dell’Oriente e la riduzione del periodo assiale a semplice passato, in grado di suscitare al massimo curiosità, non certo indicazioni. L’accadere di questo evento segna, secondo Jaspers, la nascita di un uomo qualitativamente diverso da quello espresso fino a oggi perché generato dalla téchne, non dal lógos:
Dopo l’azione esercitata con la tecnica sulla natura, l’uomo si trova a dover subire la reazione del procedimento tecnico sulla propria essenza, che viene inevitabilmente modificata dalla produzione di massa, dalla trasformazione dell’esistenza in un meccanismo tecnicamente perfetto, dalla metamorfosi del pianeta in una sola grande fabbrica. Una volta che sarà avvenuto, come sta avvenendo, il distacco dell’uomo dal fondamento originario, l’uomo sarà abitatore della terra senza patria.8
In questa prospettiva svanisce ogni possibilità di giudizio, cioè non si può dire se l’uomo che si appresta a nascere sarà superiore o inferiore, perché a mutare non è solo il misurato, ma la misura. Rispetto al lógos, l’uomo della téchne è “smisurato”, cioè “fuori-misura”, e, a quanto pare, oggi proprio di questo trae vanto la civiltà occidentale nella sua dimenticanza della verità dell’essere e nella sua attenzione esclusiva alla produzione dell’ente.
1 K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte (1959); tr. it. Origine e senso della storia, Comunità, Milano 1965, p. 99.
2 Id., Philosophie (1932-1955): III Metaphysik; tr. it. Filosofia, Libro III: Metafisica, Utet, Torino 1978, p. 1006.
3 Ivi, p. 1008.
4 Ivi, p. 1009. Sull’origine dell’uomo come emancipazione dalla violenza divina si veda U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo (1984), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 14: “Il dramma divino”, e capitolo 15: “La violenza del Sé e la passione dell’Io”. Da un altro punto di vista questo stesso tema ritorna in Id., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, Parte I: “Simbologia della tecnica: la scena del Caucaso”.
5 Sofocle, Antigone, vv. 332-333.
6 K. Jaspers, Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., pp. 1012-1013.
7 Ivi, p. 1015.
8 K. Jaspers, Origine e senso della storia, cit., p. 131.