8.

L’impensato e la storia del pensiero

A che ci servono le filosofie della storia costruite con criteri storiografici, quando esse non fanno che abbagliarci con la raccolta sinottica di dati storiografici, pretendendo di spiegare la storia senza mai pensare i fondamenti dei suoi principi esplicativi a partire dall’essenza della storia, e questa, a sua volta, a partire dall’essere stesso?

M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro (1946), p. 303.

Heidegger e Jaspers non possono essere collocati in quella successione lineare dei filosofi a cui siamo abituati dall’impostazione storicistica della nostra cultura. Essi non si inseriscono nella storia dell’Occidente, ma la dirompono; essi invitano a pensare ciò che nell’Occidente è rimasto impensato. L’invito non è dottrina ma è compito, sollecitazione. L’epoca per di più è carente. In essa siamo ospitati come “posteri di un’età frantumata”,1 o come “ultimogeniti di una storia che va rapidamente verso la sua fine”.2 Muoversi in quest’epoca di carenza che, come ha mostrato Nietzsche, è caratterizzata dal crollo delle idee, degli idoli e dei valori metafisici a cui l’Occidente finora s’è ispirato, è difficoltoso e incerto.

Oggi l’uomo si trova nel rischio più grande che non viene tanto dalle capacità di distruzione di cui dispone,3 ma dal pericolo di errare tra gli enti perché l’orma dell’essere si è dileguata. In quest’epoca di carenza e di massimo pericolo assumono una particolare forza profetica le parole di Heidegger che annunciano un “futuro da venire” dopo la “notte del mondo” creata dalla dispersione tra gli enti in cui s’è perduta la metafisica. Siccome però il tempo presente è il tempo in cui, come scrive Hölderlin: “Più non son gli dèi fuggiti e ancor non sono i venienti”,4 l’uomo oggi non può sapere né conoscere, ma solo presentire ciò che “ancora” gli sarà dato da pensare, ma che “finora” gli è rimasto celato.

Nel tentativo di rintracciare l’orma cancellata dell’essere, Heidegger ritorna a quell’epoca “aurorale” che precede la nascita della metafisica dell’Occidente responsabile dell’occultamento dell’essere, mentre Jaspers ritorna al “periodo assiale” dell’umanità in cui l’Occidente ancora non si distingue dall’Oriente, perché il pensiero, nell’ápeiron o nel Tao, pensa, sotto la differenza linguistica, quella stessa cosa che poi resterà impensata nella terra della sera.

Finché non sorgerà una nuova metafisica, che sia nuova nel senso di essere veramente metà tà physiká, ossia oltre gli enti, l’unica possibilità metafisica sarà la ricomprensione storiografica di quanto è stato espresso prima della nascita dell’Occidente e che, a seguito di questa nascita, è caduto nell’oblio. Per questo compito non serve la logica che regola il “pensato”, ma il linguaggio cifrato e il mito che dell’“impensato” sono i gelosi e rispettosi custodi. Seguendo la traccia da loro indicata forse è possibile recuperare quella che Heidegger segnala come “la forza delle più elementari parole” di cui l’Occidente ha smarrito il senso. Forse, riportandoci alle origini del pensiero occidentale, potremo diventare, da ultimogeniti di una storia che va rapidamente verso la sua fine, precorritori di un nuovo inizio. Questo almeno è il senso di quell’incalzante serie di domande che Heidegger si pone:

Siamo noi forse alla vigilia della più mostruosa trasformazione della terra intera e dello spazio storico-temporale a cui essa è legata? Siamo forse alla vigilia di una notte che prelude un’alba nuova? Sta sorgendo solo ora questa terra del tramonto (Land des Abends)? Questo Occidente (Abend-Land) diverrà – al di sopra dell’“Occidente (Occident)” e dell’“Oriente” e attraverso ciò che è europeo – il luogo della storia (Geschichte) futura più originariamente conforme al destino (geschickt)? Possiamo già dirci occidentali nel senso rivelato dal nostro passaggio attraverso la notte del mondo? A che ci servono le filosofie della storia costruite con criteri storiografici, quando esse non fanno che abbagliarci con la raccolta sinottica di dati storiografici, pretendendo di spiegare la storia senza mai pensare i fondamenti dei suoi principi esplicativi a partire dall’essenza della storia, e questa, a sua volta, a partire dall’essere stesso? Siamo noi veramente quegli ultimogeniti che siamo? O siamo anche nel nostro tempo i precorritori dell’alba di tutt’altra età del mondo che ha lasciato dietro di sé tutte le odierne rappresentazioni storiografiche della storia?5

La risposta è custodita nelle attuali possibilità del pensiero. Cresciuti come siamo in quella cultura caratterizzata dal congedo dell’essere, possiamo ancora intendere il senso del linguaggio che lo esprime? Come si devono tradurre quelle parole che il pensiero aurorale, sorto nel periodo assiale dell’umanità, ha impiegato per dire “essere”? Se il linguaggio dell’Occidente serve per esprimere la dominazione dell’ente, non bisognerà far violenza a questo linguaggio affinché la voce dell’essere si tra-duca, cioè pervenga a quel tipo d’uomo, l’occidentale, la cui dimora è avvolta non solo dall’oblio dell’essere, ma anche dall’oblio di questo oblio? A quale pensiero può affidarsi l’impensato?

Qui non si tratta di continuare a pensare (immer-weiter denken), ma, come dice Jaspers, di pensare oltre e al di là (über-hinaus-denken).6 Al di là dell’interpretazione classica, al di là della logica abituale, si tratta di rischiare il pensiero che si esprime nel circolo, nella contraddizione, nella tautologia che sono sì errori logici, ma che non bastano ad arrestare quel pensiero che nella logica ha smarrito il senso del lógos.

Lungo questa via la storia della filosofia diventa significante proprio là dove, dal punto di vista logico, perde quota. Il mito di Platone, l’Uno di Plotino, la tautologia di Anselmo, la coincidentia oppositorum di Cusano, il circolo vizioso di Cartesio, l’impossibilità kantiana della metafisica, l’amore kierkegaardiano per il paradosso, per l’espressione indiretta, per l’ironia e la gioia tragica di Nietzsche, in una parola: l’assurdo per la logica dell’ente diventa cifra per l’ascolto del lógos in cui si raccoglie la voce dell’essere.

Lungo questa via si assisterà allo scandalo della filosofia, giudicata non scientifica nel modo di tradurre e di intendere le parole dei filosofi. Ma che valore può avere una simile obiezione se compito della filosofia è proprio quello di oltrepassare la scienza e, di fronte all’esplicitamente detto, prendersi cura del senso in esso custodito, ma non detto? Se il linguaggio occidentale, per la sua esclusiva attenzione all’ente, ha violentato il linguaggio dell’essere, analoga violenza dovrà essere impiegata nel rendere i significati delle parole, non per intendere meglio, ma per consentire all’essere, da tempo impensato, di farsi parola nel nostro tempo. In vista di questo compito la traduzione è violenza, la sua cura non sarà rivolta al senso letterale della parola, ma a quella stessa cosa che ogni parola in ogni tempo custodisce: l’essere.

La alogica razionale (vernunftige Alogik) e la violenza linguistica sono le vie che Jaspers e Heidegger rispettivamente affidano al pensiero contemporaneo, per avviarlo dal solitamente pensato all’impensato, sì da consentirgli il riscatto da quell’oblio che contrassegna tutta la sua storia. Alla base di questa storia (Geschichte) non c’è una scelta, ma un destino (Geschick). L’oblio dell’essere, e il conseguente nichilismo, è stato determinato dall’assentarsi dell’essere che, alla manifestazione (alétheia), ha preferito il nascondimento (léthe), all’invio di sé (sich schicken) la custodia (das Gewahren che significa “salvaguardare”, “custodire”, donde il latino Veritas e il tedesco Wahrheit).

Anche la storia dell’Occidente, iniziatasi con l’oblio dell’essere, possiede dunque la sua verità, che però è da ricercarsi in ciò che è custodito, non in ciò che è manifesto. Se l’Occidente ignora il senso epocale della sua epoca, e non si rende conto che il suo tempo è il tempo in cui l’essere si trattiene in sé, compie l’errore di cercare la verità tra gli enti manifesti, nella noncuranza dell’essere nascosto. L’essenza di questo errore è l’errare tra gli enti dimentichi del mistero dell’essere.

Il mistero (Geheimnis), ci ricorda Heidegger,7 consiste nel fatto che l’essere, presentando l’ente, si sottrae per consentire a quest’ultimo di apparire e, sottraendosi, si custodisce nella sua verità (Wahrheit, Veritas). Il mistero contiene quindi la verità dell’essere, la cui dimenticanza determina il volto nichilistico dell’Occidente e dischiude la via del suo tramonto. Anche l’epoca occidentale quindi, con il suo volto nichilistico, appartiene alla verità dell’essere come sospensione (epoché) della sua manifestazione, come non-pensato perché rifiutantesi. Il perché del rifiuto dell’essere, nel momento del suo destinarsi all’epoca occidentale, è avvolto anch’esso nel mistero, alla cui custodia è preposta la filosofia. Custodire il mistero non significa spiegarlo, ma semplicemente evitarne l’oblio che sta alla base di quell’incessante errare tra gli enti, nella falsa supposizione che la verità dimori altrove, lontano dall’essere.

Di questa supposizione è stata vittima la metafisica che si è sviluppata in Occidente; il suo dominio ha coinciso con il congedarsi dell’essere dalla terra della sera, per cui ora si rende necessario un ritorno che riconduca, come scrive Heidegger: “all’aurora del primo mattino della terra-della-sera, dell’Occidente (die Frühe der Frühzeit des Abendsland )”8 in cui l’essere riluceva non ancora adombrato.

Seguendo l’indicazione heideggeriana, che ripone nel primo pensiero greco la chiave della comprensione e del superamento di tutta la metafisica occidentale, ci accingiamo a compiere con Heidegger il passo indietro (zurück zu Schritt) onde rivivere, in un dialogo pensante, quelle possibilità custodite dal pensiero aurorale e poi smarrite nello sviluppo successivo. Come si vede, non si tratta di una pura ricostruzione storica (historisch), ma dell’imporsi dell’originario a partire dalla sua storica (geschichtlich) manifestazione.

Le possibilità di questo dialogo con i pensatori aurorali, le modalità con cui un crepuscolare può accostare il pensiero aurorale non sono affidate alle regole filologiche e storiografiche, ma all’appello dell’essere che sempre, anche se in diversi linguaggi, convoca il pensiero, nella cui attuazione si ritrovano i pensatori essenziali. La loro meditazione solca l’essere, come il contadino il suo campo.9

1 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 80.

2 M. Heidegger, Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 303.

3 K. Jaspers, Die Atombombe und die Zukunft des Menschen (1958); tr. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, il Saggiatore, Milano 1960.

4 F. Hölderlin, Brot und Wein (1801); tr. it. Pane e vino, in Le liriche, Adelphi, Milano 1977, vol. II, p. 113. Questa lirica è commentata da M. Heidegger in Erläuterungen zu Hölderlin Dichtung (1944); tr. it. La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988.

5 M. Heidegger, Il detto di Anassimandro, cit., pp. 303-304.

6 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, pp. 37-39.

7 M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit (1930-1943); tr. it. Dell’essenza della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 147-155.

8 Id., Il detto di Anassimandro, cit., p. 304.

9 Id., Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, cit., p. 315.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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