34.
Necessità del naufragio di ogni ontologia. Ontologiae periecontologia
L’ontologia presenta l’essere come un
ordinamento di oggetti possibili o
unità di significato.
La periecontologia illumina uno spazio
in cui gli enti ci appaiono come ciò che ci viene incontro.
K. JASPERS, Von der Wahrheit (1947), p. 160.
Il dominio dell’uomo sull’ente si è attuato storicamente con la progressiva oggettivazione dell’essere e la sua conseguente riduzione a totalità di enti, rigorosamente organizzati in sistema delle categorie dell’intelletto umano. L’intelletto, fornendo a ogni ente il suo fondamento (Grund), lo sottrae, da un lato, alla precarietà che gli compete in quanto evento di quel fondo abissale (Ab-grund) che è l’essere, dall’altro al mistero che accompagna il suo incondizionato apparire in quell’orizzonte manifestativo in cui è custodita l’originaria verità (alétheia) dell’essere. Infatti, scrive Jaspers:
Questa presenzialità dell’apparire (Gegenwärtigkeit des Erscheinen) non si può comprendere in base ad altro. Questo evento fondamentale per cui qualcosa appare, cioè si mostra, si rivela, c’è, diviene parola, nonostante l’evidenza della sua presenza, è nel suo insieme un mistero. Il mistero si chiarisce quando richiamo alla coscienza l’apparire come tale, il modo in cui esso ha luogo nelle sue molte figure e nei tratti fondamentali che gli convengono come apparire.1
L’ideîn di Platone, l’intellettualismo medioevale, il sapere scientifico dell’età moderna sono le varie forme che la filosofia occidentale ha messo in atto nel tentativo di penetrare il mistero di questa presenza. L’esito, nonostante il polemico contrapporsi delle varie forme, è stato ogni volta identico; ogni volta, cioè, s’è posto nella soggettività dell’uomo il fondamento della presenza, con la conseguente riduzione dell’essere a oggetto per un soggetto. In possesso dell’orizzonte manifestativo, l’uomo, erettosi a nuova dimora della verità non più intesa come “manifestazione (a-létheia)”, ma come “adeguamento (adæquatio)”,2 ha preteso di sapere l’essere, di realizzare in proposito una conoscenza assoluta, cioè sciolta da ogni legame che non avesse riferimento alla soggettività.
Ontologia è il nome che Jaspers dà a ogni filosofia che, partendo dalla soggettività, si propone l’ordinamento degli enti, trascurando ciò che, stando intorno (perí) agli enti, li possiede (échei) nella loro presenza e nel loro essere (periechontología). Scrive in proposito Jaspers:
Il sapere che, nel tentativo di realizzare una conoscenza scientifica dell’essere, procede alla sua articolazione con la derivazione (deduzione e costruzione) di tutti gli enti a partire da principi oggettivamente e adeguatamente considerati, prende il nome di ontologia. Il nome affonda le sue radici nel XVI secolo, il contenuto domina, fin dai tempi di Aristotele, tutte le filosofie nella loro impostazione. La via, invece, che noi seguiamo conduce alla chiarificazione dell’essere come Umgreifende, che in sé racchiude l’origine di tutto, e che, per quanti sforzi si facciano, non diventa mai qualcosa di oggettivo. L’insegnamento che scaturisce da questa seconda via lo chiamiamo, in opposizione all’ontologia: periecontologia. Il suo significato emerge da un’analisi comparata delle due vie.3
Jaspers articola questa analisi in undici punti:
1. L’ontologia presenta l’essere come un
ordinamento di oggetti possibili o
unità di significato.
La periecontologia illumina uno spazio
in cui gli enti ci appaiono come ciò che ci viene incontro.
Questa prima comparazione è già indicativa della distanza che separa l’ontologia dalla periecontologia. Il senso dell’ontologia è espresso dall’uomo che ha oggettivato l’essere in essenze e significati, il senso della periecontologia è espresso dall’essere che, come orizzonte dell’apparire, dà all’uomo notizia degli enti.
In sede periecontologica allora non si ha quella dominazione dell’uomo sull’essere che costringe quest’ultimo a esprimersi per bocca dell’uomo, perché in sede periecontologica l’uomo non interpreta, ma ascolta; non interviene a determinare i significati, ma a creare quello spazio libero che consente all’essere di annunciarsi senza l’interferenza di altre voci. Interferenze sono le categorie ontiche della metafisica classica, le categorie gnoseologiche dell’intellettualismo medioevale, le anticipazioni matematiche del pensiero moderno che hanno fatto dell’uomo non l’ascoltatore, ma il costruttore dell’essere.
2. Per l’ontologia: tutto è, ciò che esso
è.
Per la periecontologia: tutto ciò che è, è penetrato dall’Umgreifende; se infatti fosse da questo
abbandonato, sarebbe perduto.
L’ontologia ha inteso l’essere come una totalità di essenze (“ciò che esso è”) le quali, separate dall’essere, hanno avuto nella storia della filosofia vita autonoma e indipendente nei confronti della loro esistenza. Responsabile della separazione è Platone che, riconducendo le essenze alla causa che le fa essere (tò Agathón), le salva nell’eternità dell’iperuranio. Il prezzo della salvezza è però la separazione di essenza ed esistenza, per cui l’essenza della determinazione (il “ciò che è”) è garantita quanto al suo essere, e quindi salvata dal nulla, mentre l’esistenza della determinazione (l’esserci di qualcosa) ha un trattamento diverso: può essere accompagnata dall’essere, ma non necessariamente e soprattutto non definitivamente. Nasce così il concetto di contingenza, che sarà impiegato dalla speculazione medioevale come punto di partenza per la dimostrazione dell’Ente necessario.
A questo punto l’avvertimento di Jaspers è che, definendo l’Intero come totalità di essenze (“il Tutto è, ciò che esso è”), non si salva l’esistenza concreta dello stesso, perché nessuna essenza privilegiata, sia pure l’Ente supremo, può garantire la definitiva vittoria sul nulla. Questa infatti è prerogativa dell’essere, anzi è il suo senso originario, per cui “è” ciò che l’essere ospita nella sua presenza, e non l’idealità raccolta nel suo isolamento.
3. È ontologia la chiarificazione di ciò che è pensato o può essere pensato
nei giudizi.
È periecontologia la chiarificazione della totalità in cui noi e tutte le altre cose ci
troviamo.
Garantire l’idealità nel suo isolamento significa ridurre l’essere all’orizzonte dell’intelletto umano in cui appunto l’idealità è ospitata. Per l’ontologia, quindi, ciò che sta sotto (hypokeímenon) a sostegno dell’ente non è più l’essere, ma il soggetto (subjectum) umano, in quella dimensione intersoggettiva che Jaspers chiama “coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt)”. A questo punto nessuna meraviglia che alla visione ontologica dell’essere, sviluppata nel Medioevo, segua il gnoseologismo moderno che, separando il pensiero dall’essere, ne proibisce il rapporto, riducendo la verità a chiarificazione del contenuto dei giudizi umani.
La parabola del gnoseologismo, che accompagna la filosofia da Cartesio a Kant,4 ha come suo esito il fenomenismo che arresta l’intenzionalità conoscitiva del pensiero non all’essere, ma a quel duplicato dell’essere che è il suo apparire: il fenomeno. Distrutta l’originaria identità di essere e apparire, di phýsis e phaínesthai, con il fenomenismo si vengono a determinare due piani: uno immediatamente presente (l’essere fenomenico), l’altro alle spalle di ciò che è immediatamente presente (l’essere noumenico). In questo modo l’essere, pensato oltre l’apparire, viene avvolto da quella noumenicità che lo porta fuori da ogni possibile interesse umano.
La periecontologia jaspersiana, quando invita a creare lo spazio libero (Raum frei), invita appunto a dissolvere il velo fenomenico costituito dall’ordine categoriale che l’intelletto umano sovrappone all’essere, in modo che questo non sia più nascosto nell’immediatezza della sua manifestazione. Solo allora l’essere non apparirà più nella dualità della res extensa contrapposta alla res cogitans a seguito dell’infranta unità di phýsis e phaínesthai, ma come quella totalità in cui (das Ganze worin) l’uomo, con tutte le altre cose, dimora.
4. L’ontologia offre una chiarificazione
oggettiva.
La periecontologia offre una chiarificazione non oggettiva.
L’ontologia, come s’è visto, riduce l’essere alle sue determinazioni oggettive, ma se l’oggetto, come dice l’etimo, è ciò che sta-di-contro (ob-jectum, Gegen-stand) al soggetto, affinché la relazione dello star-di-contro si costituisca è necessario che l’essere sia concepito non come un termine della relazione (oggetto), ma come quell’orizzonte che, comprendendo (Umgreifende) soggetto e oggetto, ne consente il naturale rapportarsi.
L’ontologia quindi non è in grado di fondare la chiarificazione oggettiva che pretende, mentre la periecontologia, pensando l’essere non come oggetto ma come Umgreifende, lo pensa come condizione per cui qualcosa (l’oggetto) può star-di-contro (gegen-stehen) a qualcos’altro (il soggetto). In questo modo sia il soggetto sia l’oggetto non cadono al di fuori di quella totalità circoscrivente che è l’essere, ma vi compaiono come suoi momenti in quel campo di presenza in cui l’essere si dischiude. Non essendo però la presenza dell’essere una “presenza a...” ma un dischiudersi originario e onnicomprensivo, non si potrà avere una conoscenza oggettiva dell’essere, per cui ogni pretesa dell’ontologia in questo senso è destinata a naufragare.
5. L’ontologia può essere rappresentata
simbolicamente da una tavola che contenga i
criteri di ordinamento (e figurativamente da una greca
ornamentale che nei suoi rapporti geometrici dia il senso della
staticità).
La periecontologia può essere rappresentata da un mosso intreccio di rapporti (simili, in sede
figurativa, ai nordici ornamenti di nastri).
Questa quinta comparazione esprime la differenza che sussiste tra la logica dell’intelletto che anima la coscienza in generale e la logica della ragione che, oltrepassando i limiti fissati dall’intersoggettività, si esprime nel rapporto dialettico dell’opposizione e relazione. Per quest’ultima un termine è significante non quando è considerato nella sua identità con se stesso, o, per dirla con Jaspers, quando è incasellato in una tavola che con i suoi criteri di ordinamento ne stabilisce il suo definitivo significare, ma quando è visto nella sua relazione con la totalità.
Questo principio non è una novità jaspersiana, ma è il fondamento della dialettica hegeliana. Quando Hegel afferma che il significato di qualsiasi termine consiste nella negazione della sua finitezza e quindi nel suo progressivo relazionarsi alla totalità, esprime l’autentica natura della verità, la cui essenza non è stabilita una volta per tutte dalla staticità delle definizioni intellettuali, ma muta col progressivo ampliarsi dell’orizzonte manifestativo. Ma, a differenza di Hegel, Jaspers afferma l’inesauribilità di questo orizzonte rispetto alle possibilità comprensive della ragione, perché, a suo giudizio, onnicomprensivo (Umgreifende) non è lo sguardo della ragione, ma l’essere.
Ritenere la ragione “onnicomprensiva” significa infatti scostarsi dal soggettivismo espresso dall’intellettualità della coscienza in generale solo nel metodo, ma non nell’intento espresso dalla volontà di ergere l’uomo a misura di tutte le cose. Anzi proprio con Hegel questo intento giunge alla sua massima espressione. Il richiamo poi agli ornamenti figurativi: la staticità della greca ornamentale che conclude se stessa e il movimento del nordico intreccio di nastri che prosegue all’infinito stanno a significare che non si danno significati definitivi, e come tali ordinabili una volta per tutte in tavole da cui si possono desumere all’occorrenza, ma solo significati che richiedono di essere di volta in volta determinati in funzione della loro relazione alla totalità.
6. L’ontologia rinvia a ciò che direttamente si offre alla considerazione del
pensiero che non opera alcun trascendimento.
La periecontologia consente di avvertire ciò che indirettamente si annuncia nel pensiero che
trascende.
Stante la clausura ontica, tipica di ogni ontologia, non esiste, nello spazio da questa dischiuso, alcun pensiero trascendente. Lo stesso pensiero di Dio non esce dalle categorie intellettuali che lo sostengono e che conducono all’affermazione di un principio capace di rendere coerente l’ordine categoriale che l’ha posto. In altri termini, Dio non è qualcosa che l’ontologia dimostra, ma è il suo presupposto fondamentale, nel senso che un pensiero che legge l’essere nel rapporto matematico di causa-effetto, quando perviene a Dio come Causa sui non opera alcun trascendimento, ma pone solo la condizione che giustifica il parametro di lettura assunto.5
Trascendere, infatti, significa oltrepassare la categoricità dell’intelletto e avvertire ciò che non si esaurisce nella categoricità postulata. E questo perché “trascendenza” significa alterità rispetto alla possibilità comprensiva del soggetto, il quale, quando ne diviene consapevole, riduce la sua tracotanza al silenzio devoto che si addice di fronte al mistero che lo oltrepassa e che “indirettamente” egli avverte nel proprio limite comprensivo. Solo a questa condizione l’uomo è misurato dall’essere. In ogni altro caso si erge impropriamente a misura.
7. L’ontologia pensa l’essere suddiviso in
specie, che nel
loro insieme non costituiscono specie alcuna, ma sono in
quel rapporto reciproco stabilito dall’analogia dell’essere.
La periecontologia pensa l’essere come ciò che, nei confronti degli
enti determinati, passa per primo, o
come ciò che suscitando sostiene e
accoglie ogni ente conferendogli significato, senza per
questo diventare esso stesso un oggetto.
La comparazione tra ontologia e periecontologia raggiunge qui il suo vertice speculativo. L’ontologia classica, con la sua divisione dell’essere in specie, aveva perduto il senso profondo dell’essere, perché, in questa divisione, l’essere era significante solo nell’accezione specifica, ossia: come “essere-sostanza” che nasce e che muore, come “essere-accidente” che sopraggiunge all’essere-sostanza, determinandolo di volta in volta diversamente, e infine, come “essere-sostanza-privilegiata” che non diviene e si determina come Dio.
Le varie specificazioni dell’essere realizzavano fra loro un rapporto di analogia, ovvero avevano, nella differenza, qualcosa in comune: il fatto di essere. Questo essere, però, considerato in se stesso, altro non era se non una mera astrazione; qualcosa, cioè, cui si perveniva con un procedimento logico che prendeva le mosse dall’analisi delle specificazioni.
A questa interpretazione, propria dell’ontologia, la periecontologia di Jaspers reagisce facendo osservare che l’essere non è ciò cui si perviene partendo dalle determinazioni, ma ciò che “passa per primo (Vorhergehende)” nei confronti delle determinazioni, e, con il suo passare, conferisce alle determinazioni quel significato che non avrebbero, qualora fossero pensate separatamente dall’essere che le fa essere.
Questo “passar per primo” dell’essere nei confronti delle determinazioni non allude a una precedenza logica, perché, essendo l’essere solidale con le sue determinazioni, non può precederle, ma deve “passare con loro”, per cui se la periecontologia non sostenesse questa compresenza, cadrebbe nell’errore opposto a quello in cui cade l’ontologia, nel senso che quest’ultima pensa le determinazioni senza l’essere, e la periecontologia penserebbe l’essere senza le determinazioni, come accade nella gnoseologia rosminiana a proposito dell’essere ideale.6
Esclusa dunque questa precedenza logica, è opportuno precisare che nel contesto di Jaspers il “passar per primo” ha un duplice significato: innanzitutto un significato polemico nei confronti dell’ontologia che perviene all’essere “dopo” l’esame delle determinazioni, non rendendosi conto che se le determinazioni sono pensate senza l’essere, le determinazioni non sono, in secondo luogo, un significato fenomenologico che accosta la periecontologia jaspersiana all’ontologia heideggeriana: entrambe, infatti, si presentano come fenomenologia, o come esame dell’orizzonte trascendentale dell’essere, che, non pensato, non consente di pensare ente alcuno.
Va da sé che il pensiero dell’essere non è un pensiero oggettivo, ma è l’aprirsi dell’uomo a quello spettacolo originario costituito dalla presenza dell’essere, è il suo soggiornare in quel phaínesthai in cui la phýsis, dischiudendosi, accoglie gli enti (tà phýsei ónta) e li rende significanti.
8. L’ontologia ovvia l’impossibilità di definire
il “Primum” attraverso l’analisi dei diversi significati dell’essere, e
attraverso l’eliminazione dei significati impropri.
La periecontologia, al contrario, supera l’impossibilità di
definire il “Primum” attraverso
l’unità del pensiero dell’Umgreifende in
tutti i modi dell’Umgreifende (e precisamente, trascendendo
il piano dell’oggettività, così da portarsi al cospetto della
presenza).
Sulla base delle osservazioni svolte nella comparazione precedente, appare chiaramente che l’essere non è ciò a cui si perviene attraverso un processo inferenziale a partire dall’ente, ma l’essere è lo stesso “presentarsi” degli enti, è quel “passar per primo” nella coscienza, la quale, proprio perché investita dall’essere, è in grado di cogliere gli enti come significanti.
Questa precisazione si rende necessaria per definire la differenza tra l’ontologia classica e la periecontologia di Jaspers, la cui intenzione va oltre, nel cuore stesso dell’ontologia, e precisamente là dove quest’ultima raggiunge quell’Ente privilegiato (Dio) che si pone a sostegno della totalità degli enti.
L’ontologia infatti pone come “Primum”, ovvero come fondamento della totalità, un Ente la cui definizione è ottenuta attraverso l’analisi dei diversi significati di ente, e l’eliminazione di quei significati che non gli possono competere in quanto “Primum”. La periecontologia, invece, pone come fondamento della totalità non un Ente in grado di sostenere la totalità degli enti, ma l’essere pensato come la stessa presenza dell’ente. La sua indefinibilità è dovuta al fatto che l’essere non è l’ente, anzi nei confronti dell’ente, è niente, per cui tentare di afferrarlo è come stringere il vuoto.
Per raggiungerlo, è necessario, come precisa Jaspers: “trascendere il piano dell’oggettività e portarsi al cospetto della presenza” che si dischiude non al pensiero oggettivo che ha occhi solo per l’ente, ma al pensiero trascendente (das andere Denken) che, ponendosi oltre l’ente, è nella possibilità di cogliere quel nulla di ente in cui l’essere consiste, quella presenza in cui tutti gli enti sono accolti.
9. L’ontologia si chiede: “Che cosa è?”, e in
base a questa domanda, costruisce un quadro delle determinazioni
dell’essere, un edificio di enti, perché quello che essa vuole è
un sistema dell’essere.
La periecontologia si chiede: “In che cosa consiste l’essere?”, e
in base a questa domanda non costruisce un quadro delle
determinazioni dell’essere, non costruisce un edificio di enti,
perché quello che essa vuole è una
sistematica di ciò che è.
Questa nona comparazione mostra quanto poco filosofica sia la domanda ontologica, quanto scarso sia il suo potere di penetrazione, quanto rilevante il suo disinteresse per l’essere. Chiedersi infatti “Che cos’è qualcosa” significa dare per scontato che il qualcosa sia, quindi non preoccuparsi del suo essere e, in generale, del senso dell’essere.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio, pensato come Primum ontologico che fa essere e non essere tutte le cose, elimina il problema relativo al senso dell’essere e dispensa da un’ulteriore ricerca, per cui, all’ombra della risposta teologica, altro non rimane che ordinare le varie determinazioni dell’essere, secondo quegli schemi intellettuali precedentemente impiegati per la dimostrazione dell’esistenza di Dio.
Ne nasce un sistema di enti che ha il suo fondamento non nell’essere, risolto nell’ipotesi teologica, ma nell’intelletto umano, che ha operato questa risoluzione. Ma che vale costruire un sistema delle determinazioni dell’essere se poi non si è in grado di fondare la dominazione dell’essere sul nulla? È vero che il pensiero intellettuale, occupandosi sempre e solo dell’ente, non s’è mai trovato di fronte al problema del nulla, ma questo dice solo che il pensiero intellettuale non esaurisce le possibilità del pensiero e che quanto è da esso presieduto, ontologia compresa, non è filosofia.
L’ontologia, infatti, nella dimenticanza della fondazione sopra accennata, ha costruito un sistema di enti che culmina nella posizione del Primo ente da cui gli altri derivano. A questo punto l’obiezione è fin troppo ovvia: nella misura in cui “Primo ente” non significa “essere”, il Primo ente non è in grado di salvare la totalità di “ciò che è” dal nulla, perché la salvezza è dell’essere in quanto essere, non dell’essere in quanto una certa determinazione, sia pure la più alta.
Distruggere il sistema significa, a questo punto, porre la totalità dell’ente, ivi compreso l’Ente supremo, nella massima oscillazione che contempla la possibilità di non-essere. Solo nella prospettazione costante di questa possibilità, che investe sistematicamente tutto ciò che è, senza badare alla diversa dignità dell’ente creata dal sistema, sarà possibile avviarsi verso la comprensione del senso dell’essere su cui insiste la domanda periecontologica.
10. Nell’ontologia il Primum ontologico, ossia il principio di tutto l’essere, è oggettivato e
tematizzato.
Per la periecontologia il Primum
periecontologico, ossia come noi ci troviamo
nell’Umgreifende, rimane una questione filosoficamente
imprescindibile.
Tra ontologia e periecontologia corre anche una differenza metodologica fondamentale: l’ontologia è un procedimento deduttivo, impegnato a derivare la totalità dell’ente da un principio, la periecontologia è un procedimento fenomenologico, che assume come suo punto di partenza quell’originario trovarsi dell’uomo nell’essere, che non si lascia ulteriormente indagare. L’impostazione metodologica non è indifferente alle sorti e allo svolgimento del problema.
Nell’impostazione ontologica della filosofia, infatti, il soggetto questionante non pone se stesso in questione, ma considera la questione che gli sta davanti (Gegen-stand) in termini oggettivi, senza esserne coinvolto. Non è il problema a investire il soggetto, ma è il soggetto che pone il problema da una posizione di indipendenza e neutralità, quale l’intersoggettività intellettuale è in grado di garantire. Dall’ontologia questa impostazione metodologica passerà alla scienza. Nel metodo scientifico, infatti, il soggetto non è posto in questione, le sorti del problema non scuotono la sicurezza di quest’ultimo, il cui destino non ne è coinvolto, perché comunque vada la questione, non ne va dell’essere stesso di chi l’ha posta.
Questa metodologia, utile in sede scientifica dove l’attenzione è per la tutela dell’oggettività, è del tutto inadeguata in sede filosofica dove il soggetto non sceglie la questione, né se la pone davanti in termini oggettivi, ma è da questa investito in termini così radicali da non poterne assolutamente prescindere. L’uomo infatti si trova nell’essere, la sua condizione non è quella di chi ha scelto una sorte, ma di chi si è trovato coinvolto nella sorte dell’essere. La situazione imprescindibile e inoltrepassabile (unüberschreitbar) che lo caratterizza è quella di trovarsi aperto alla manifestazione dell’essere, dischiuso allo spettacolo della sua verità. Da questa situazione inizia la filosofia come coscienza dell’essere, e quindi di sé, in quanto ci si sa decisi dall’essere.
A questo punto l’intersoggettività della coscienza in generale (das Bewusstsein überhaupt), di cui si serve l’ontologia per la costruzione del sistema e la scienza per la sua interpretazione del mondo, non serve perché l’impostazione che la caratterizza, il suo distacco dal problema sono inadeguati alla natura del problema stesso, che non sta davanti come oggetto a un soggetto, ma è Umgreifende, onnicomprensivo, totale.
Destarsi al problema dell’essere è possibile, secondo Jaspers, solo con la coscienza assoluta (absolute Bewusstsein oder Bewusstsein des Seins), ovvero con quella dimensione coscienziale che si rapporta all’essere non nella distanza dell’oggettivazione, ma nell’intimità di chi si sa dall’essere donato (geschenkt werden). Da queste premesse l’ultima comparazione:
11. Per l’ontologia tutti gli enti sono derivati dal Principio.
Per la periecontologia è impossibile concepire l’Umgreifende come ciò da cui noi possiamo derivare.
Per noi il punto di partenza è il presente storico della nostra
esperienza della realtà, delle nostre idee, del nostro amore. Da lì
giungiamo alla comprensione di noi stessi attraverso un itinerario
che la nostra coscienza filosofica illumina e rende possibile.
Lungo il cammino occorre tener presente che l’essere non è quella
costruzione che abbiamo edificato col nostro sapere, ma la presenza
di ciò che appare qui e ora, nella sua profondità, fino al fondo
originario.
In sede ontologica l’uomo si coglie come derivato dall’Ente supremo da cui procedono tutti gli enti. In sede periecontologica, l’uomo, per sapere qualcosa di sé, deve partire dalla sua esperienza, dalle sue idee, dal suo amore, che sono, nel loro insieme, quel primum fenomenologico che costituisce il piano della presenza immediata (die Gegenwart des Hier und Jetzt). Questa deve essere interrogata nella sua profondità (in ihrer Tiefe) affinché riveli il suo fondo originario (bis zum Ursprung). A questo livello, la risposta non tarda ad annunciarsi, perché è contenuta nella stessa presenza che si dispiega.
La presenza, infatti, è un carattere che compete all’essere in quanto essere, perché solo ciò che è può manifestarsi, non essendo concepibile un manifestarsi di ciò che non è. Ma, a questo proposito, occorre avvertire che ciò per cui l’essere si manifesta non è altro da ciò per cui l’essere è, o, che è lo stesso, ciò per cui l’essere toglie la negazione del suo svelamento (e quindi si manifesta), è ciò per cui l’essere toglie il nulla (e quindi è). Questo “ciò” è la positività stessa dell’essere, il suo imporsi perché non è nulla.
Esaminare “il piano della presenza del qui e dell’ora nella sua profondità, fino al fondo originario (die Gegenwart des Hier und Jetzt in ihrer Tiefe bis zum Ursprung)”, significa rendersi conto che ciò per cui l’essere si presenta o appare è ciò per cui l’essere è; in altri termini significa rendersi conto della positività dell’essere. A questo punto la differenza tra ontologia e periecontologia è giunta alla sua massima chiarezza. La periecontologia lascia parlare l’essere, l’ontologia fa parlare l’essere secondo quel linguaggio che le categorie ontologiche impongono.
Nell’uno e nell’altro caso ci si rifà alla manifestazione dell’essere o, come dice Jaspers, al piano della presenza. In seguito su questo piano nascono due diversi atteggiamenti: quello periecontologico che lascia parlare ciò che si manifesta, e quello ontologico che mortifica sul nascere la voce di ciò che si manifesta per sostituirvi la propria. L’esito è che, nel primo caso, a parlare è il Lógos, nel secondo, a parlare è quella lettura o interpretazione del Lógos, di cui i vari sistemi filosofici, dalle ontologie classiche all’Enciclopedia di Hegel, hanno dato ampio saggio.
La differenza ora registrata non decide solo dell’orizzonte teoretico, ma anche dell’orizzonte pragmatico. Infatti, se a parlare è il Lógos, l’uomo è colui che ascolta il discorso dell’essere; se invece a parlare è l’interpretazione del Lógos, l’uomo non è più l’ascoltatore, ma il dominatore dell’essere, colui che impone all’essere il proprio linguaggio. In questa situazione l’essere non è più ciò che sta dinanzi, perché dinanzi sta l’uomo col suo discorso, che, invece di rischiarare, oscura l’essere, sino a dimenticarne il linguaggio essenziale che lo rapporta a esso.
La periecontologia di Jaspers è un invito a lasciar parlare l’essere che si manifesta e nei termini in cui si manifesta. Naturalmente chi è abituato ad aver in testa una costruzione dell’essere, dove tutto si articola logicamente partendo da controllati principi, non può essere soddisfatto della periecontologia, in quanto, privato del sostegno di quella costruzione, non sa dove dirigere la propria mente, e soprattutto il proprio modo di vivere. La sua è la sensazione di una radicale mancanza di terreno (Bodenlosigkeit).
Ma se il terreno è fallace, perché si è imposto a quel suolo originario che è l’essere stesso, il terreno deve essere tolto, lo spazio deve essere creato, affinché l’essere possa annunciare il suo Lógos, non più oscurato, questa volta, dalla chiacchiera interessata dell’uomo che, con la sua costruzione o sapere dell’essere, pretende che l’essere parli il suo linguaggio. Solo quando le costruzioni dell’essere verranno eliminate, e l’essere potrà annunciare la sua voce non più contraffatta, solo allora l’uomo potrà sapere dall’essere qualcosa di sé in maniera incontrovertibile.
Jaspers, dopo duemila anni di costruzione dell’essere, invita la filosofia a ritornare alle origini, quando l’essere non era una costruzione umana, ma ciò che si dispiegava davanti allo sguardo, e come tale assumeva le sembianze del “divino”, nell’accezione greca di theós (dio), che deriva dalla radice thea, che significa “vedere, contemplare”, da cui theáomai che traduciamo con “guardo”, “contemplo”, “sono spettatore”. Dalla stessa radice derivano le parole italiane “teorema” che è ciò che si manifesta dopo una serie di passaggi, e “teatro” che, a sipario aperto, è ciò che si dispiega davanti allo sguardo.
1 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 155.
2 Cfr. il capitolo 26: “La gnoseologia dell’adeguamento come mutamento del luogo della verità”.
3 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, pp. 159-160. Questo passo e le comparazioni che seguono tra ontologia e periecontologia si possono leggere in traduzione italiana corredata da commento in U. Galimberti (a cura di), K. Jaspers, Sulla verità, La Scuola, Brescia 1970, pp. 66-79. Inoltre, a proposito del significato etimologico e teoretico dei termini Umgreifende e periecontologia, si vedano il capitolo 7: “Jaspers: l’Umgreifende e l’operazione filosofica fondamentale”, il capitolo 81: “La funzione simbolica della cifra e la trascendenza immanente”, e il capitolo 82: “La funzione desituante della cifra e l’operazione filosofica fondamentale”.
4 Si veda a questo proposito G. Bontadini, Studi di filosofia moderna (1966), Vita e Pensiero, Milano 1996.
5 Cfr. il capitolo 33: “La sublimazione di intelletto e volontà nella determinazione teologica dell’essere”.
6 A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee (1830), Edizione nazionale a cura dell’Istituto filosofico italiano, Roma 1940, voll. III-V.