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Nel linguaggio l’evento dell’essere
L’Evento (Ereignis) accorda ai mortali la dimora nel loro vero essere, e, con questa, la capacità di essere parlanti.
M. HEIDEGGER, Il cammino verso il linguaggio (1959), p. 204.
Evento dell’essere significa che l’essere appartiene all’evento (Ereignis), che non è dato prima o fuori del suo e-venire. Dell’essere, infatti, non si dice, come dell’ente, che “è”, perché l’essere non è, “si dà (es gibt)”. Dice in proposito Heidegger:
L’Evento (Ereignis), visto nel mostrare costitutivo del dire originario, non può essere oggettivato né come un fatto né come un avvenimento: può solo essere esperito, all’interno del dire originario come il donante. Non c’è nulla al di fuori dell’Evento, cui l’Evento possa essere ricondotto, in base a cui esso possa essere spiegato. L’evento non è il risultato (Ergebnis) di qualcos’altro. Esso è al contrario la donazione (die Er-gebnis). Solo il generoso dare di questa può concedere qualcosa come quel “si dà (es gibt)”, del quale “l’essere” ancora ha bisogno, per pervenire, come essere presente, a ciò che è proprio (eigen).1
E ancora:
L’Evento è una realtà semplice in sé. Rimane tuttavia difficile da pensare, perché il pensiero deve prima perdere l’abitudine a credere che ciò che viene qui pensato come Evento sia “l’essere”. L’evento è essenzialmente altro, in quanto è più ricco di ogni possibile determinazione metafisica dell’essere. Vero è invece che l’essere, per ciò che riguarda l’origine del suo essenzializzarsi (Wesen-herkunft), si lascia pensare in base all’Evento.2
L’essere non è evento, così come non è linguaggio, perché né l’eventualità, né la linguistica possono venirgli attribuite come determinazioni metafisiche, come proprietà che lo qualificano. L’essere si dà nell’evento così come si dà nel linguaggio, ma non è né l’uno né l’altro, nel senso in cui normalmente si connette un predicato a un soggetto per ottenere una definizione.
L’espressione “è”, attribuita all’essere, non ha un senso definitorio, ma transitivo: significa che l’essere fa essere qualcosa, ma non che l’essere è qualcosa. L’impossibilità di definire l’essere, il naufragio di ogni tentativo linguistico condotto in questo senso appartengono anch’essi all’evento dell’essere, alla sua differenza dall’ente.
Non potendo impiegare il linguaggio metafisico che, riducendo l’essere a copula dell’ente, è idoneo solo a esprimere sensi e significati ontici, Heidegger, per parlare dell’eventualità dell’evento, ricorre al linguaggio poetico che, meglio di ogni altro, custodisce quel conflitto tra nascondimento e non-nascondimento, in cui si eventua la verità. Detto evento non è un segno per scoprire il senso dell’essere, ma è questo stesso senso in atto, in cui ha luogo anche il rapporto uomo-essere, la loro originaria coappartenenza.
Geviert è il nome di questo atto e della coappartenenza di ciò che nell’atto si attua. La parola significa quadrato (dal verbo vieren: quadrare, squadrare), ma non deve far pensare a una struttura compiuta e conclusa. Il Geviert è proprio il contrario, è lo squadernarsi, il dispiegarsi dei quattro, così come, nell’opera d’arte, dalla “terra” si dischiude il “mondo”, si apre l’aperto.
Per comprendere il significato del Geviert torna utile una pagina di Zur Seinsfrage, dove Heidegger propone di scrivere la parola essere (Sein) sbarrandola con una croce. Ciò significa che l’essere non è l’Ente supremo concepito dalla metafisica come fondamento di tutti gli enti. Questo essere, in cui si è trattenuto il pensiero bimillenario dell’Occidente, è cancellato, perché la sua negazione, la sua morte (Nietzsche) è la condizione perché si squaderni l’evento aperto nelle quattro direzioni del quadrato, a cui allude la barratura incrociata con cui Heidegger scrive la parola Sein. I quattro del Geviert sono la terra, il cielo, i mortali, i divini. Essi sono richiamati dalla cosità di ogni cosa. Infatti, scrive Heidegger:
Le cose che la poesia nomina adunano presso di sé cielo e terra, mortali e divini. I quattro costituiscono nel loro relazionarsi un’unità originaria. Le cose fanno dimorare presso di sé la quadratura dei quattro. In questo far dimorare che trattiene è l’esser-cosa delle cose.3
La metafisica non conosce la cosità della cosa perché risolve tutte le cose in oggetti di rappresentazione o in prodotti del fare umano. In questo modo l’uomo non incontra mai la cosa come tale, ma sempre e solo se stesso come soggetto della rappresentazione o della produzione. Sorto dall’oblio dell’essere, il pensiero metafisico finisce così con lo smarrire anche l’ente, perché ne risolve l’entità nell’attività rappresentativa e produttiva dell’uomo.
La cosità della cosa deve essere cercata nell’apertura dell’essere a cui la cosa appartiene e che, presentandosi, richiama. La brocca, per esempio, come ci dice Heidegger nel saggio Das Ding,4 è tale non in quanto è un prodotto costruito in conformità a una rappresentazione umana, ma in quanto è fatta di terra e può contenere il vino e l’acqua, che sono a loro volta il prodotto dell’intervento della terra e del cielo, delle piogge e del sole che maturano l’uva. Il contenere della brocca non è uno spazio vuoto o pieno d’aria, ma è un contenere per versare. Il vino contenuto nella brocca è versato dai mortali in onore dei divini. Nell’essere brocca della brocca, i quattro sono così richiamati e in essa si raccolgono. Nella cosità della brocca l’uomo, il mortale, non incontra solo se stesso, ma il cielo, la terra, i divini.
Dal punto di vista delle scienze esatte, che conoscono solo le dimostrazioni inconfutabili, la teoria del Geviert appare strana o, nel migliore dei casi, solamente poetica. Ma è proprio nella poeticità che si dischiude il vero senso delle cose, non perché, nella poesia, ciascuna cosa richiama il cosmo, ma perché la poesia è l’apertura del cosmo in cui le cose sono davvero ciò che sono.
Nell’apertura poetica, infatti, l’uomo abita la terra lasciandola essere quella che è, il che è molto di più che impadronirsene per utilizzarla, per ridurla a oggetto di rappresentazione e manipolazione. Sulla terra l’uomo si apre al cielo, lasciando che la propria vita sia regolata dai suoi movimenti. Compreso fra la terra e il cielo, l’uomo come mortale aspetta i divini, attende i loro cenni, il loro avvento, senza misconoscere la loro assenza, senza inventare da sé le proprie divinità, senza servire gli idoli.
In questa libertà poetica, dove ogni cosa è lasciata essere per quello che è (bei-sich-verweilen-lassen) e presso di sé è fatta dimorare, l’uomo recupera la sua patria e cessa di essere heimatlos, senza terra, senza paesaggio familiare, senza riscontro, senza corrispondenza. E non è forse l’assenza di tutte queste cose ciò che oggi l’uomo lamenta? E non è il lamento ancora più sofferto perché manca la parola capace di evocare la cosa, di riconcederle il suo essere? E come potrebbe nascere la parola se all’uomo mancano gli interlocutori con cui parlare, dopo che il cielo e la terra sono stati ridotti a enti intramondani e i cenni dei divini non sono più intesi?
L’uomo è uno dei quattro proprio perché i quattro non sono alla maniera dell’ente. Ma, scrive Heidegger, finché il pensiero ritiene che: “ciò che deve essere indagato è l’ente soltanto, e sennò – niente; solo l’ente e oltre questo – niente; unicamente l’ente, e al di là di questo – niente”,5 allora è possibile solo il silenzio della solitudine che tace su tutte le cose, perché niente sa del mondo a cui appartengono, del nome che a loro compete, dell’essere di cui sono ente.
La tensione che si stabilisce all’interno del Geviert tra i quattro è la stessa tensione che accompagna l’e-venire dell’essere, la sua eventualità. Ma, scrive Heidegger:
Non tutti i mortali sono qui chiamati, e neppure i molti, bensì soltanto “alcuni”: quelli che vanno per oscuri sentieri. Proprio di questi mortali è l’essere in grado di conoscere il morire come cammino verso la morte. Nella morte si raccoglie il massimo occultamento dell’essere. La morte è oltre ogni morire. Quelli che sono “in cammino” devono raggiungere casa e desco, errando attraverso l’oscurità dei loro sentieri, e ciò non soltanto e nemmeno in primo luogo per se stessi, ma per i molti; perché questi, non appena riescono a sistemarsi in una casa e a sedere a una mensa, già credono di conoscere le cose nella loro essenza e di essere giunti al vero “abitare”.6
Alla dimora, invece, non si perviene se non giungendo là dove le cose veramente dimorano: nell’essere che le eventua e nel linguaggio che le nomina e, nel nome, richiama il loro evenire. In questo senso, scrive Heidegger: “Il linguaggio è la casa dell’essere e insieme la dimora dell’uomo”.7 Non è infatti l’uomo appropriato (vereignet) all’essere, e l’essere consegnato (zugeeignet) all’uomo?8 In questa coappartenenza, dove ciascuno è appropriato a sé, e insieme assegnato all’altro, è custodito il senso del Geviert, dove ognuno dei quattro fa essere presenti gli altri tre come in uno specchio, sicché il Geviert costituisce “il gioco dello specchio del mondo (Spiegel-Spiel der Welt)”.9
In questo gioco che nessuna “regola” presiede, che nessuna “causa” prevede, che nessun “fondamento” giustifica, è l’evento dell’essere, è quel dono-destino (Geschick) che gli antichi chiamavano fatum, e che, etimologicamente, significa: “parola detta”, appello che si rivolge all’uomo chiedendo una risposta.
La risposta è lo Sprung, il salto che dall’ente conduce all’essere, dalla semplice parola che nomina gli enti al linguaggio, nel suo richiamarci alla propria essenza di dono e di appello. Il Geschick, il fatum, non nega la libertà, ma la concede. Come parola detta che dischiude il mondo e imprime l’interno moto al mondo (Welt-bewegende Sage),10 il fatum apre le vie (weg) che dal mondo conducono alla terra, da cui il mondo si dischiude e in cui al mortale è concesso di abitare sotto il cielo in attesa dei cenni dei divini.
Vista in questi termini, la riflessione sul Geviert, lungi dal costituire una marginale escogitazione poetico-speculativa dell’ultimo Heidegger, approda a due risultati fondamentali. Innanzitutto l’esser-cosa della cosa non appartiene al suo esser rappresentata o prodotta. Entrambe queste determinazioni appartengono al nichilismo che, dopo la dimenticanza dell’essere a vantaggio dell’ente, conduce anche a far perdere le tracce dell’ente. La cosità della cosa è nella sua appartenenza all’essere che, al di là di ogni rappresentazione e produzione, la lascia essere così come è.
In secondo luogo nel Geviert viene in chiaro il rapporto tra evento dell’essere e linguaggio. Il linguaggio è la sede in cui l’essere veramente accade, perché il linguaggio, nominando la cosa, chiamandola, richiama il suo luogo di appartenenza, i quattro che la cosa, chiamata, fa dimorare presso di sé.
Non è dunque la presenza della cosa a generare il linguaggio, ma è il linguaggio che chiama alla presenza la cosa come l’essere la eventua, e non come l’uomo se la rappresenta o addirittura come la produce. L’uomo infatti è solo uno dei quattro, o, come dice Heidegger:
Il linguaggio, quale dire originario del quadrato del mondo, raggiunge e include nella sua sfera noi che, in quanto mortali, siamo parte del quadrato, noi che possiamo parlare solo in quanto cor-rispondiamo al linguaggio.11
1 M. Heidegger, Der Weg zur Sprache (1959); tr. it. Il cammino verso il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 203.
2 Ivi, p. 205.
3 M. Heidegger, Die Sprache (1950); tr. it. Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 35.
4 Id., Das Ding (1950); tr. it. La cosa, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 109-124.
5 Id., Was ist Metaphysik? (1929); tr. it. Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 61.
6 Id., Il linguaggio, cit., pp. 35-36.
7 Id., Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, cit., p. 312.
8 Id., Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte I: “Il principio d’identità”, in “Teoresi”, 1966, p. 18.
9 Id., La cosa, cit., p. 119.
10 Id., Das Wesen der Sprache (1957-1958); tr. it. L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 169.
11 Ibidem.