70.
La volontà di potenza e la svalutazione di tutti i valori
I valori e il loro variare stanno in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori.
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, fr. 9 (39), p. 15
Nel commentare la sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, Heidegger osserva che:
Il colpo più duro contro Dio non consiste nel ritenerlo inconoscibile, nel provare l’indimostrabilità della sua esistenza, ma nell’innalzarlo a supremo valore. Questo colpo non viene inferto da coloro che stanno a vedere e non credono in Dio, ma dai credenti e dai loro teologi che parlano del più essente degli enti senza mai impegnarsi a pensare l’essere stesso e senza quindi rendersi conto che quel parlare e questo pensare, considerati in base alla fede, sono la pura e semplice bestemmia di Dio, una volta mescolati alla teologia della fede.1
Il colpo è stato inferto da Platone là dove, a proposito di tò Agathón, il filosofo dice: “Il Bene non è l’essere, ma ciò che si pone al di là di questo, superandolo in dignità e potenza”.2 A conferire questa maggior dignità e questa maggior potenza a tò Agathón non è certo l’essere che gli è subordinato, e che, proprio con la comparsa di tò Agathón, si sottrae alla manifestazione e si custodisce trattenendosi nel nascondimento (léthe) della sua verità (a-létheia).
In assenza dell’essere, Platone, per reggere l’universo ontico, fa valere un ente che, per effetto di questa valutazione, diventa l’Ente supremo, e come tale vale al di sopra di ogni ente. Ma, così facendo, nel tentativo di conferirgli dignità, Platone riduce tò Agathón a mero oggetto di una valutazione soggettiva, e in questo modo fonda la sua maggior potenza nella soggettività umana, che non lascia essere l’essere, ma lo lascia semplicemente valere come oggetto della sua attività rappresentativa. Ancora una volta al centro sembra esserci Dio, in realtà c’è l’uomo e la sua valutazione. Il maggior valore e la maggior potenza di Dio si risolvono ancora una volta nel valore espresso dall’incondizionata volontà di potenza dell’uomo.
I valori nascono quando la volontà di potenza vuole sottrarre l’ente alla precarietà in cui è lasciato essere dal gioco incondizionato dell’essere. Questo percorso ha inizio con Platone, per il quale la phýsis diventa idéa.3 Idea significa modello, e come tale si colloca più in alto rispetto a ciò che semplicemente è. Questo primato, che compete all’idéa per il suo rapporto al vedere (ideîn), si riduce così a un puro fatto estimativo. La valutazione dell’uomo è dunque ciò che privilegia l’idea e la pone come modello da imitare e da realizzare.
Il rapporto valore-valutazione si ripropone nella filosofia moderna con Cartesio e con Kant. Per Cartesio l’ente è assicurato nel suo essere dall’idea matematica garantita da Dio, e quindi ritenuta indiscutibilmente valida dall’uomo. Per Kant le categorie della soggettività, valide a priori, sono intese come condizioni dell’esperienza, e quindi della possibilità degli oggetti in generale.
In assenza dell’essere è dunque la valutazione della soggettività ciò che fa valere indiscutibilmente l’ente. Privato dell’essere, l’ente diventa il valore, ossia lo scopo che la soggettività si propone di realizzare. Il valore, occupando il vuoto che s’è creato in occasione dell’oblio dell’essere, diventa il sostituto dell’essere. A questa logica non si sottraggono neppure la scienza e la tecnica. Per entrambe, infatti, l’oggetto da dominare è lo scopo da raggiungere. A determinare gli scopi sono i bisogni, la cui soddisfazione costituisce il valore da realizzare. Per questo, scrive Heidegger:
Il valore è l’oggettivazione finalistica dei bisogni connessi all’auto-installazione rappresentativa nel mondo inteso come immagine.4
A questo punto è impossibile continuare a pensare i valori come una realtà incondizionata di natura metafisica, perché: o l’essere non è perché deve essere come il valore dice, o i valori non sono perché al di sopra dell’essere. Da questa aporia si può uscire solo riconducendo i valori a quella autentica matrice che è la volontà di potenza che vuol far valere l’ente incondizionatamente, sottraendolo alla precarietà in cui è lasciato essere dall’essere.
Volere è tendere a qualcosa che importa. Potenza è l’esercizio del dominio, della forza che ordina le cose e gli uomini in funzione dei fini-valori che essa si è proposta. Ne consegue che i valori appartengono alla volontà di potenza in un duplice senso: perché da questa sono posti e a questa servono come condizioni della conservazione e dell’accrescimento del proprio potere.
Secondo Nietzsche il pensiero occidentale cadde in una grande ingenuità quando ritenne incondizionati dei valori che in realtà erano condizionati dalle stesse esigenze vitali dell’uomo. La morale tradizionale, che ha sempre sottoposto l’uomo al dominio dei valori, non si è mai accorta che tale dominio era in realtà sotto la signoria delle necessità dell’uomo. L’uomo dunque è il vero dominatore, e non i valori che pretendono di stabilire incondizionatamente che cosa sia bene e che cosa sia male per l’uomo. In questo senso, scrive Heidegger a commento della lettura nietzscheana dei valori:
L’“uomo buono” senza saperlo, pone i valori al di sopra di sé e li alza al rango di ciò che è in sé. Ciò che è condizionato unicamente dall’uomo, l’uomo lo ritiene incondizionato e tale da sottoporre l’uomo a richieste.5
Secondo Nietzsche l’uomo che cade in tale situazione incorre in una ingenuità iperbolica (hyperbolische Naivität). Heidegger interpreta l’aggettivo riferendolo alla derivazione del verbo greco hyperbállein che significa “gettare al di sopra”, quindi trasferire al di là di sé, in una presunta oggettività, ciò che anima il profondo della soggettività, che per Nietzsche è volontà di vita e volontà di potenza:
Il mio sospetto è di osare questa affermazione: in ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino a oggi, di “verità”, ma di qualcos’altro come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita...6
Nella Genealogia della morale Nietzsche afferma che i valori appartengono alla vita che li progetta e che poi dimentica la progettazione avvenuta, per cui i valori possono venire incontro all’uomo come ideali trascendenti. La loro oggettività è nella dimenticanza del progetto dell’esistenza, che accoglie come forza obbligatoria della legge morale ciò che precedentemente essa ha fatto valere. Ponendo valori, l’uomo trascende se stesso e si oppone a ciò che egli stesso ha progettato, come a un oggetto estraneo fornito dei tratti più venerabili dell’essere in sé. In ciò è l’ingenua alienazione dell’uomo, che trasferisce in una presunta oggettività ciò che anima il profondo della sua soggettività, ossia la volontà di vita e la volontà di potenza.
Ma Nietzsche non si limita a rifiutare la falsa oggettività dei valori, il suo intento è di giungere a cogliere ciò che sollecita l’esistenza umana a porre fuori di sé i punti di vista assiologici, a partire dai quali, poi, incontra tutte le cose e soprattutto se stessa. Per questo Nietzsche non prende in considerazione ogni singola valutazione, ma solo quelle tendenze fondamentali che, ponendosi come valori a priori, precedono tutti i singoli atti di valutazione. E ciò in base al principio: “I nostri valori sono interpretazioni introdotte nelle cose”.7
In questo modo Nietzsche intende la sua filosofia non come una delle tante cesure di cui è testimone la storia ogniqualvolta si relativizzano o si dissolvono determinati valori, ma come la cesura delle cesure, il centro del tempo, il grande mezzogiorno, perché per la prima volta non si destituisce questo o quest’altro valore, ma il valore del valore, la sua presunta oggettività che appartiene alla soggettività che progetta il valore e, distanziandolo, lo riaccoglie come incondizionato. Dietro i valori c’è dunque la vita che li progetta: “la grande giocatrice”. Per questo Nietzsche può dire:
Dove voi vedete cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane!8
Con la sua genealogia ab inferiori, Nietzsche spiega l’alto dal basso, l’ideale dall’istinto vitale, fa luce nel mondo segreto del Sacro, del Vero, del Bello, del Buono, diffidando di ciò di cui finora l’uomo s’è fidato. E questo perché:
Il furore contro gli istinti della vita fu dichiarato “sacro”, venerabile. L’assoluta castità, l’assoluta obbedienza, l’assoluta povertà: l’ideale sacerdotale. Elemosina, compassione; abnegazione, cavalleria; negazione del bello, della ragione, dei sensi; sguardo arcigno per tutte le qualità forti che si hanno: sguardo laico. Si va avanti: gli istinti calunniati cercano a loro volta di crearsi un diritto – li si ribattezza dando loro nomi santi. Gli istinti calunniati cercano di dimostrarsi necessari perché i virtuosi in genere siano possibili.9
Dissolto ogni dualismo, Nietzsche fa dell’ideale e del reale, del bene e del male gli estremi di un arco in tensione, perché Dio e l’ideale non sono al di là dell’uomo, ma sono una dimensione dell’esistenza che l’uomo pro-tende oltre se stesso. Nello spazio intermedio ha luogo la danza dello “Spirito libero”:
A mo’ di trovadori
danziamo tra santi e prostitute
tra Dio e mondo, la danza.10
La danza nasce dalla gioia per lo smascheramento della “menzogna bimillenaria” che ha offerto come metafisica, religione, arte, morale ciò che è semplicemente istintivo, vitale, perlopiù nascosto e sotterraneo. L’ansia di verità, per esempio, non è disinteressata, ma nasce dal desiderio di salvezza. La religione scaturisce dalla paura e dal bisogno. La metafisica è quella “bugia vitale” con la quale l’uomo si aiuta, supera la caducità, e può dare un significato imperituro alla sua esistenza. L’arte, che nella prima riflessione di Nietzsche era stata vista come comprensione cosmica, nella Genealogia della morale è intesa come una spirituale rottura d’argine, come un improvviso defluire d’acqua a lungo ristagnata, come uno scarico. La scienza stessa, che pure ha il pregio di aver liberato gli uomini dalle illusioni metafisiche e dalle intenzioni morali, diventa qualcosa che attacca la vita, che la soffoca, se non partecipa alla danza, se non diventa “gaia scienza”, che gioca col páthos scientifico, senza risolversi e ridursi alla sola severità della sua metodologia asceticamente promossa dalla religione del progresso.11
Scavando ulteriormente in quell’“animale con ideali”, Nietzsche scopre che l’uomo grande è solo un piccolo uomo che maschera i propri istinti, che le grandi correnti di pensiero e di azione che hanno mutato il volto della storia sono il prodotto degli spiriti inferiori che come “tarantole”, private dalla sorte di ogni grandezza e di ogni successo, hanno incarnato lo spirito di vendetta. Tarantole sono i predicatori dell’amore, dell’uguaglianza, nei quali l’impotenza di vita si vuol vendicare di tutte le forme di vita potente.
Qui Nietzsche non polemizza solo contro le espressioni politiche e le correnti di pensiero della modernità, come la Rivoluzione francese, il socialismo, la democrazia, ma anche contro il cristianesimo che, stabilendo l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio, è alla base di queste espressioni e di queste correnti. Il sospetto di Nietzsche è che tanto più una vita è impotente, tanto più pretenderà l’uguaglianza di tutti, cercherà di abbassare nella comune mediocrità i singoli, le eccezioni, e nella grandezza vedrà solo un crimine contro l’uguaglianza.12 E questo perché, scrive Nietzsche:
Si vuole la libertà finché non si ha ancora la potenza. Quando si ha la potenza, si vuole il predomino; se non lo si consegue (se si è ancora troppo deboli per esso) si vuole la giustizia, ossia una potenza pari.13
L’idea d’uguaglianza nasce quindi dall’impotente volontà di potenza dei mal riusciti, l’idea di giustizia dalla mascherata volontà di potenza che abusa dell’apparenza ingannevole della virtù e della venerabilità del costume per farsi valere. Sotto l’idea di giustizia dei molti, e della massa, si nasconde lo spirito di vendetta, quel ragno velenoso, la tarantola, che annoda le sue reti e soffoca la vita.
La virtù che rimpicciolisce è il segno della povertà dell’esistenza, l’interiorità della coscienza è una perversione degli istinti che non hanno la forza di esprimersi, l’ascesi è il modo di conservarsi in vita dei deboli incapaci di vivere le passioni, l’ideale della volontà ascetica è il nulla, perché, come si è visto, la volontà di potenza “preferisce volere il nulla piuttosto che non volere”.14
A questo punto non si fraintenda Nietzsche, la sua svalutazione di tutti i valori non è una sostituzione ma una destituzione. Nietzsche non sostituisce un valore con un altro, ma destituisce il valore del valore, la sua presunta oggettività, la sua trascendenza, la sua incondizionatezza, perché alle spalle del valore non c’è l’essere, ma l’umana valutazione, la quale valuta in conformità ai bisogni della vita che la volontà di potenza spinge a soddisfare. Perciò, scrive Nietzsche:
Il punto di vista del “valore” è il punto di vista delle condizioni di conservazione e di potenziamento rispetto a strutture complesse, la cui vita ha una durata relativa entro il divenire.15
E ancora: “I valori e il loro variare sono in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori”.16 Commentando questi frammenti di Nietzsche, Heidegger osserva che dunque: “I valori non sono, ma semplicemente valgono, e valgono in quanto sono posti come ciò che conta”.17 Non a caso la loro storia è cominciata proprio quando, con Platone, si sono rivelati i primi sintomi della dimenticanza del senso dell’essere.18 Per cui conclude Heidegger:
Ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare. Lo strano sforzo di dimostrare l’oggettività dei valori non sa quel che fa. Proclamare per sovrappiù “Dio” come il “valore più alto” significa degradare l’essenza di Dio. Pensare per valori, qui e altrove, è la più grande bestemmia che si possa pensare contro l’essere. Pensare contro i valori non vuol dire perciò esaltare l’assenza di valori e la nullità dell’ente, ma significa, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto, portare la luce della verità dell’essere davanti al pensiero.19
1 M. Heidegger, Nietzsches Wort “Gott ist tot” (1943); tr. it. La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 238-239.
2 Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b: “Ouk ousías óntos toû agathoû all’éti epékeina tês ousías presbeíai kaì dynámei hyperéchontos”.
3 Cfr. il capitolo 24: “Platone e il giogo dell’idea”.
4 M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes (1938); tr. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, cit., p. 88.
5 Id., Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 649.
6 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, Adelphi, Milano 1965, vol. V, 2, p. 16.
7 Id., Nachgelassene Fragmente 1885-1887; tr. it. Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, cit., 1975, vol. VIII, 1, 2 (77), p. 86.
8 Id., Ecce homo. Wie man wird, was man ist (1888); tr. it. Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 3, p. 331.
9 Id., Nachgelassene Fragmente 1887-1888; tr. it. Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, cit., 1971, vol. VIII, 2, fr. 10 (57), pp. 136-137.
10 Id., La gaia scienza, cit., p. 275.
11 Id., Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift (1887); tr. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 2. In particolare si veda a p. 299 la “Terza dissertazione” che ha per titolo: “Che significano gli ideali ascetici?”. A questa domanda Nietzsche risponde: “Nella circostanza che l’ideale ascetico ha avuto in generale un così grande significato per l’uomo, si esprime il fondamentale dato di fatto dell’umano volere, il suo horror vacui: quel volere ha bisogno di una meta – e preferisce volere il nulla, piuttosto che non volere”.
12 Si veda a questo proposito K. Galimberti, Nietzsche. Una guida, Feltrinelli, Milano 2000, capitolo 3: “La volontà di potenza come società e come individuo”, pp. 60-90.
13 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit., fr. 10 (82), p. 150.
14 Id., Genealogia della morale. Uno scritto polemico, cit., p. 299.
15 Id., Frammenti postumi 1887-1888, cit., fr. 11 (73), p. 247.
16 Ivi, fr. 9 (39), p. 15.
17 M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, cit., p. 209.
18 Cfr. Parte IV: “L’oblio dell’essere e la dominazione dell’ente”.
19 M. Heidegger, Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 301.