74.

Nietzsche prigioniero della metafisica dell’Occidente (Heidegger) e profeta del suo oltrepassamento (Jaspers)

Il pensiero di Nietzsche, come tutto il pensiero dell’Occidente da Platone in poi, è metafisica.

M. HEIDEGGER, Nietzsche (1936-1946, 1961), p. 745.

Con la “dissoluzione della ragione” Nietzsche ha cercato un nuovo inizio: si tratta della via per trovare una ragione più profonda; una nuova gigantomachia deve sorgere nel filosofare.

K. JASPERS, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare (1936), p. 205.

L’interpretazione heideggeriana nega al pensiero di Nietzsche la possibilità di costituirsi come un’irruzione nella nuova aurora del mondo, sfumata dai colori e dai toni che richiamano l’antico pensiero aurorale. Secondo Heidegger, Nietzsche rimane prigioniero della metafisica dell’Occidente, in quanto ne porta a compimento le tendenze fondamentali, tese a eliminare il più possibile l’originaria problematicità dell’ente, in cui si custodisce la differenza ontologica e quindi il senso obliato dell’essere.

A parere di Heidegger, l’eliminazione totale della problematicità dell’ente viene raggiunta da Nietzsche nell’identificazione della volontà di potenza con l’eterno ritorno dell’uguale. Quest’ultimo, infatti, non è letto da Heidegger come ciò in cui la volontà di potenza naufraga, ma come ciò che per sempre sancisce l’incondizionata volontà di dominare l’ente, in cui si raccoglie il progetto metafisico di tutta la cultura occidentale a partire da Platone. In questo senso, scrive Heidegger:

L’identità espressa nell’unità essenziale fra volontà di potenza ed eterno ritorno dell’uguale è l’ultima parola della metafisica.1

Il progetto metafisico nasce dal tentativo platonico volto ad assicurare la totalità dell’ente a un Ente supremo, in modo da sottrarre la totalità dell’ente alla problematicità in cui è lasciata essere dall’essere. Allo scopo Platone introduce la distinzione tra essenza ed esistenza, per concludere che là dove i due termini coincidono (iperuranio o mondo delle idee) l’essere è assolutamente garantito, mentre, là dove la disequazione permane, l’ente vive la precarietà della sua contingenza: per cui è, ma non per sempre e soprattutto non per sé.

La precarietà dell’ente, la sua problematicità, che il pensiero aurorale estendeva alla totalità dell’ente, con Platone viene limitata al mondo sensibile, mentre il mondo iperuranico, in cui l’esistenza è garantita dall’essenza, viene sottratto alla possibilità di non essere. Di qui il suo maggior valore, il suo costituirsi come eterno modello che, sopra il cielo (hyper-ouranós), costituisce la norma a cui si deve adeguare tutto ciò che è ospitato sotto il cielo.

La metafisica occidentale perfeziona questa mossa iniziale, volta a sottrarre la problematicità dell’ente anche da quella zona, il mondo sensibile, che Platone aveva lasciato nella sua originaria problematicità. Il tentativo trova la sua realizzazione nella filosofia moderna in cui, come si è visto,2 la precarietà dell’ente viene dissolta nella certezza del cogito, della ratio, dell’Io penso, e in generale in quella soggettività che risolve il mondo (Welt) nella sua immagine (Welt-bild).

Il fondo di questa oggettività, tesa al dominio dell’ente, che già Leibniz individuava nell’appetitus, viene alla luce in tutta la sua chiarezza nella volontà di potenza di Nietzsche che, secondo Heidegger, porta a compimento la filosofia moderna nel suo sforzo teso a eliminare la problematicità del mondo sensibile, la cui esistenza, in Platone, non era garantita dall’essenza. Nietzsche, infatti, identificando eterno ritorno dell’uguale e volontà di potenza, elimina quella distinzione tra essenza ed esistenza che in Platone custodiva, almeno per una zona residua dell’ente, la sua originaria problematicità.

La morte di Dio proclamata da Nietzsche non vuole significare l’eliminazione di quella zona privilegiata dell’ente, onde condurre la totalità dell’ente nella sua precarietà originaria, ma, al contrario, vuole estendere il privilegio, che Platone riservava all’iperuranio, alla totalità dell’ente. Per questo l’iperuranio crolla, perché l’identità di essenza ed esistenza, che lo privilegiava rispetto al mondo sensibile, è affermata da Nietzsche per la totalità dell’ente, che così viene sottratto definitivamente alla sua originaria precarietà.

Con Nietzsche il residuo di problematicità, che Platone aveva lasciato a una zona dell’ente, si restringe sempre più fino a cessare di sussistere. In questo senso Nietzsche è il culmine del processo metafisico, ovvero di quella meditazione sulla distinzione platonica tra essenza ed esistenza, effettuata non in vista del suo mantenimento, ma della sua definitiva eliminazione.

Il merito di Nietzsche consiste, per Heidegger, nell’aver mostrato che l’iperuranio, il mondo sovrasensibile, Dio, i valori non vivono per sé, ma in quanto sono semplicemente voluti dalla volontà di potenza, tesa a sottrarre una zona dell’ente alla sua originaria precarietà. Dio, cioè, non è tanto causa, quanto effetto della volontà di potenza. Il limite consiste nel fatto che Nietzsche, dopo aver proclamato la morte di Dio, non restituisce l’ente alla sua precarietà, ma lo consegna definitivamente alla volontà di potenza che vuole se stessa, ed eternamente ritorna come volontà di dominio dell’ente.

In base a questa interpretazione anche il superuomo acquista un diverso significato: non è un modo del tutto nuovo d’esistenza ancora da venire, ma è l’intrinseca essenza dell’umanità occidentale, già determinata dall’incondizionata soggettività che vuole il controllo e il dominio assoluto dell’ente, e per la quale il futuro non è altro che lo svolgimento su più ampia scala di questa sua già determinata essenza.

Per oltrepassare la metafisica non basta proclamare la morte di Dio, ma è necessario sottrarre l’ente all’incondizionato volere della volontà di potenza, che, a garanzia dell’essere dell’ente, ha posto prima Dio come Ente supremo, quindi la ragione con la forza delle sue anticipazioni matematiche, e ora, tolta la maschera, senza altre mistificazioni, ha posto se stessa. Per Heidegger, in questo riconoscimento è il merito e il limite di Nietzsche.

Nelle due opere dedicate a Nietzsche3 Jaspers non conviene con l’interpretazione heideggeriana che fa dell’eterno ritorno la semplice esistenza di quell’essenza che è la volontà di potenza. Per Jaspers l’eterno ritorno è “la cifra dell’eterna presenza dell’essere”4 che, dall’oblio determinato dalla trascendenza ontica, viene recuperato, con la morte di Dio, in quella trascendenza immanente in cui era stato pensato dal pensiero del periodo assiale.5 In questo senso Nietzsche conclude l’Occidente, non nel senso che ne porta a compimento la logica e la metafisica, ma nel senso che le oltrepassa definitivamente, rioffrendo all’umanità la possibilità di recuperare se stessa nel pensiero dell’essere. Infatti, scrive Jaspers: “Ciò che Nietzsche vuole evitare è che il tramonto dell’Occidente venga a coincidere con il tramonto dell’uomo”.6

A questo esito si giungerebbe se l’uomo continuasse a considerare se stesso biblicamente come misura del cosmo, invece che come “cerchio inscritto” in quello più ampio della necessità cosmica. Il superuomo, che si colloca “seimila piedi al di là dell’uomo e del tempo” non è dunque, come vuole Heidegger, l’ultima espressione della soggettività moderna, ma, al contrario, è proprio colui che pone seimila piedi di distanza da questa, perché liberamente vuole solo ciò che è deliberato per natura. La necessità dell’essere diviene il suo proprio destino e fa di lui un “benedicente e un asserente”, come appare nel ditirambo di Dioniso che ha per titolo Gloria ed eternità:

Stemma della necessità!
Dell’essere costellazione suprema
che nessun desiderio raggiunge,
che nessun no contamina,
eterno sì dell’essere,
eternamente io sono al tuo sì:
poiché io ti amo, o eternità!7

L’eternità, come eterna affermazione dell’essere che si ripete in un perenne ciclo, è per Jaspers il motivo fondamentale del pensiero di Nietzsche, che come “Anticristo” è il più idoneo a ricomprendere l’antica eternità “pagana” del ciclo cosmico.8 Vivendo nello stadio finale di un cristianesimo illanguidito, Nietzsche cerca nell’antichità presocratica le “nuove fonti del futuro”. La morte del Dio cristiano desta in lui l’intelligenza del mondo antico il cui senso, mediato dall’idea dell’eterno ritorno, si propone come possibilità per il futuro.

Ad animare il superuomo, secondo Jaspers, è sì la volontà di potenza, ma questa non deve essere vista come il proseguimento di quella voluntas cristiana affermatasi con Agostino e poi secolarizzata nell’appetitus leibniziano, che protende la soggettività al possesso dell’ente, come vuole l’interpretazione di Heidegger. La volontà di potenza che anima il superuomo è il “grande anelito” che dice no all’ente per dire di sì all’essere. Infatti, scrive Jaspers:

Nietzsche ci costringe ad andare oltre ogni verità finita, per cui talvolta si può avere l’impressione che alla fine non ci sia che il nulla e la passione per il nulla. In realtà è proprio qui che si manifesta la volontà che rischia tutto per l’essere autentico, che non può assumere alcuna forma determinata. Questa volontà vuole attingere il vero dal profondo, dove esso non può essere concepito e rappresentato senza contraddizioni; vuol dare espressione verbale e realtà a ciò che rimane nascosto nella determinatezza del pensiero. [...] Invece di condurre, per la scala delle negazioni, al nulla definitivo, il pensiero di Nietzsche conduce, per la scala di innumerevoli piccole affermazioni, al sì definitivo.9

L’eterno ritorno dell’uguale, “il pensiero più abissale della filosofia di Nietzsche,” scrive Jaspers, “sta in una singolare penombra”,10 manca di una precisa elaborazione concettuale, è più simile a una oscura profezia, alla rivelazione divinatoria di un segreto, che a una rigorosa esposizione logica. Zarathustra è il maestro dell’eterno ritorno, ma non lo insegna veramente, si limita a indicarlo, la sua visione dell’abisso del tempo si esprime come “enigma”. Ma qui non si tratta dell’equivoco piacere per le maschere. Con la sua concezione dell’eterno ritorno Nietzsche sa di essere al limite di ciò che è dicibile, al limite della logica, della ragione, del metodo con cui si è articolato il pensiero dell’Occidente, proteso alla vicinanza dell’ente e dimentico della lontananza dell’essere.

Se l’ultimo uomo si sistema nell’ambito del vicino e del prossimo, se si limita al finito e al presente, se vuole soltanto la piccola felicità, il piacere e la contentezza, se si rassegna nel suo angolo e diventa mansueto e debole,11 è proprio perché l’immensità dell’essere non vibra più nella sua vita come tensione desituante. La “virtù che rende meschini”12 è il segno della povertà ontologica dell’esistenza, dimentica del “grande anelito”, che solo l’annunciarsi della trascendenza dell’essere sollecita. In questo senso, osserva Jaspers:

Nietzsche, per il quale tutto rimane in questione, che non può dar nulla in possesso, ma solo può preparare ad acquisire, proprio in questo modo assegna a ogni uomo il compito di conquistare la propria base di sostegno mediante il riferimento alla trascendenza, nell’insieme delle condizioni storiche dell’esistenza.13

Nella nietzscheana volontà di potenza come “grande anelito” Jaspers coglie la chiarificazione dell’e-sistenza come de-situazione in vista della trascendenza. E questo perché:

L’uomo, secondo Nietzsche, è l’“animale non stabilizzato”. L’animale non fa che ripetere ciò che già era, e non può andar oltre. L’uomo invece non può per sua essenza esser così come si trova a essere. Può finire in vicoli ciechi, soggiacere a degenerazioni, pervertimenti, alienazioni da se stesso. Ha bisogno della salvezza, della guarigione, della liberazione, ha bisogno di pervenire a se stesso. Ciò non avviene in una direzione, oggetto di sapere o di fede universalmente valida, che porti a un vero e unico modo di essere uomo.14

Ciò avviene con il “grande anelito”. Anelito è desiderio di ciò che manca. Per ciò che ci sta davanti agli occhi e a portata di mano, per ciò che vediamo e possiamo afferrare noi non proviamo alcun anelito, ma solo desiderio di possesso. Anelito è stendere la mano verso la lontananza, che, per quanto prossima si faccia, rimane sempre al di là. Per questo l’anelito de-situa, perché libera dalla situazione presente, dalle sue mete e dai suoi scopi limitati. Allontana da ogni vicinanza determinata e protende verso l’ulteriorità, come nostalgia senza meta, “nostalgia di orizzonti lontani”.

Il piccolo anelito è il desiderio che tende all’ente attraversando le lontananze, il grande anelito invece lascia sussistere le lontananze vibrando attraverso di esse. Per Nietzsche la grande lontananza non è più il Dio creatore dell’universo che animava l’anelito di Agostino al di fuori e al di sopra del mondo creato e visibile,15 ma è la lontananza che circonda (umgreift) tutto ciò che è visibile e afferrabile, in quanto lontananza che dona ogni vicinanza.

Il grande anelito è il protendersi dell’uomo nell’apertura cosmica, che Jaspers interpreta come cifra della trascendenza immanente che dissolve ogni spazio e ogni tempo, quindi ogni situazione localizzata nello spazio e nel tempo, tra le cose che hanno un passato e un futuro, un qui e un là, che l’apertura cosmica, come eterno ritorno dell’uguale, inevitabilmente dissolve. Per questo Nietzsche può dire:

Anima mia, io ti insegnai a dire “oggi” come se fosse “un giorno” e “un tempo”, e a danzare al di sopra di ogni “qui” e “lì” e “là” la tua danza circolare.16

L’anima così istruita oltrepassa l’immanenza di ciò che è vicino, di ciò che è dato, si libera dalle catene che la tengono legata al dominio dell’ente e, dall’apertura dell’essere, ritorna alle cose. Mentre si protende al di là di esse, le ritrova dalle origini. In questo processo de-situante, l’uomo non è più comprensione dell’ente nella sua delimitazione e finitezza, ma apertura all’essere che, in-finito, abbraccia (umgreift) ogni cosa e, come gioco, tutto governa assegnando a ogni ente il suo limite, il suo aspetto, il suo corso. Entrando in questo gioco, l’anima diventa essa stessa cosmica, e, come la volta celeste, si distende su tutte le cose e non è dalle cose asservita.

Nel concepire l’essere come gioco, Nietzsche, secondo Jaspers, va al di là della metafisica dell’Occidente, per ricongiungersi “all’origine della filosofia, in quella dimensione del pensiero che gioca e, giocando, diventa cosciente in modo contemplativo del tutto”.17 E questo perché:

Dal momento che non vuole niente fuori di sé, ma risolve ogni senso e ogni fine in se stesso, il gioco è, tra le cifre, la più adeguata a esprimere la totalità onnicomprensiva (Umgreifende).18

In Nietzsche il gioco umano, il gioco del bambino, il gioco dell’artista diventa il concetto chiave dell’universo, diventa cifra cosmica. Ma l’essenza dell’uomo può venir concepita e determinata come gioco soltanto se l’uomo viene pensato partendo dalla sua estatica apertura (ek-sistentia) nei confronti dell’accadere del mondo, e non solo come una cosa immanente accanto alle altre cose, distinto dalla sola forza della ragione che calcola e non gioca.

Infatti, soltanto quando il gioco del mondo è al centro dell’attenzione e quando il sorgere e il decadere delle opere limitate e temporanee vengono sperimentati non come decisioni della prepotenza dell’uomo o della sua potenza tecnica, ma “come danza e girotondo”, “come gioco di dadi dei capricci divini”, e quindi all’insegna dell’innocenza e al di là di ogni calcolo e previsione di rischi, vantaggi e pericoli, solo allora l’uomo potrà sentirsi legato alla vita del tutto e ammesso nel grande gioco dell’essere, dove, tra la nascita e la morte di tutte le cose, si svolge la commedia e la tragedia dell’esistenza: “la riconciliazione di Apollo e Dionisio”.19

Dal punto di vista della saggezza tragico-dionisiaca, la determinazione metafisica dell’ente in quanto ente è la determinazione dell’alienazione, di un mondo ludico apparente e prodotto per gioco. Solo con il suo oltrepassamento l’uomo ha la possibilità di comprendere il fenomeno ontico come realtà non conclusa, ma rinviante, e, seguendo il rinvio, di immergersi, a partire dal proprio gioco, nel grande gioco dell’essere, e di sapersi così compagno di gioco del gioco cosmico. Per questo Nietzsche dichiara:

Non conosco altra maniera di trattare i grandi problemi che non sia il gioco: fra i segni della grandezza questo è un presupposto essenziale.20

E Jaspers dal canto suo:

Il poter giocare è come tale un alto livello dell’esser-uomo. Il criterio della verità nel gioco è soltanto il suo autentico esser-gioco.21

In questo modo si conclude con Nietzsche la “metafisica della ragione” come calcolo in vista del possesso definitivo dell’ente e si dischiude la “metafisica del gioco (spielende Metaphysik)”,22 che guarda all’accadimento dell’ente come gioco incondizionato dell’essere.

1 M. Heidegger, Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 545.

2 Cfr. Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanismo” e Parte IX: “L’anticipazione della ragione e l’assicurazione dell’ente”.

3 K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens (1936); tr. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996; Nietzsche und das Christentum (1938), Nietzsche e il cristianesimo, Ecumenica Editrice, Bari 1978.

4 Id., Philosophie (1932-1955): III Metaphysik; tr. it. Filosofia, Libro III: Metafisica, Utet, Torino 1978, p. 1070.

5 Cfr. Parte III: “Il linguaggio del periodo assiale”.

6 K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, cit., p. 358.

7 F. Nietzsche, Dionysos-Dithyramben (1882-1888); tr. it. Ditirambi di Dioniso, in Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI, 4, p. 61.

8 K. Jaspers, Nietzsche e il cristianesimo, cit., p. 18.

9 Id., Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, pp. 400-401.

10 Ivi, p. 425.

11 Cfr. il capitolo 69: “La volontà di potenza e la morte di Dio”.

12 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1973, vol. VI, 1, “Della virtù che rende meschini”, pp. 203-209.

13 K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, cit., p. 394.

14 Id., Kleine Schule des philosophischen Denkens (1965); tr. it. Piccola scuola del pensiero filosofico, Comunità, Milano 1968, pp. 47-48.

15 Agostino di Tagaste, Soliloquia (386); tr. it. Soliloqui, Utet, Torino 1997, Libro I, § I, 2, p. 87: “Io desidero conoscere Dio e l’anima. Nient’altro, dunque? Nient’altro”.

16 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit., “Del grande anelito”, p. 271.

17 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 358.

18 Ivi, p. 352.

19 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, cit., 1972, vol. III, 1, § 25, pp. 161-163.

20 Id., Ecce homo. Wie man wird, was man ist (1888); tr. it. Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 3, p. 306.

21 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 353.

22 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., p. 969.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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